Riempire o saltare il fossato?

Francesco Pallante[1]

 

1. Servirà la verticalizzazione del potere – avviata oltre vent’anni fa e oggi in via di definitivo compimento, grazie alla riforma Renzi-Boschi – a «riempire il fossato», per usare l’efficace espressione usata da Ferruccio De Bortoli[2], che sempre più separa i cittadini dalle istituzioni?

La risposta di De Bortoli è negativa. Con (forse eccessivo) realismo, l’ex direttore del Corriere della Sera dà per chiusa la partita sulle riforme e si concentra sull’individuazione di possibili correttivi futuri: referendum e leggi di iniziativa popolare, primarie disciplinate per legge, misure volte a limitare il trasformismo parlamentare, voto (almeno per talune consultazioni) ai sedicenni e agli immigrati, democrazia deliberativa, rafforzamento della rappresentanza sindacale. Come dire: dato per incontenibile lo spostamento del potere verso l’alto, occorre (ri)scoprire strumenti per creare un contrappeso di potere verso il basso.

In un articolo di una decina di anni fa[3], Alfonso Di Giovine metteva in luce la lunga preparazione dello scenario di fronte al quale ci troviamo oggi. In Italia – scriveva – si sta assistendo a un peculiare fenomeno, per il quale l’introduzione di un nuovo modello istituzionale – un verticismo di ispirazione iper-presidenzialista – procede non dal centro verso la periferia, come ci si potrebbe aspettare, ma in direzione contraria. Si è incominciato con il cambiamento della forma di governo comunale e provinciale (1993); si è poi passati al livello regionale (1999); infine, si è puntato all’ambito statale (tentativo fallito nel 2006; tentativo odierno). L’obiettivo, dichiarato fin dall’inizio, è sempre lo stesso: «restituire lo scettro al principe»[4], vale a dire al popolo sovrano “scippato” dai partiti politici. Esattamente il punto su cui, in difesa delle riforme, insiste il ministro Maria Elena Boschi nella sua replica a De Bortoli: il “cuore” degli interventi governativi è la nuova legge elettorale, «che finalmente restituirà [?] ai cittadini il diritto di sapere il giorno stesso del voto chi avrà vinto le elezioni»[5].

Si potrebbe dire così: assodato che si è aperto un fossato tra istituzioni e cittadini, occorre capire come lo si possa superare senza caderci dentro. Due strade, principalmente, sembrano confrontarsi: (a) riempire il vuoto con apporti di nuova terra fino a rimettere in piano il terreno o (b) costruire un ponte attraverso cui “saltare” il vuoto corrispondente al fossato.

La prima è la via di chi vede nel Parlamento il punto debole del sistema costituzionale, e nella rivitalizzazione della rappresentanza, a tutti i livelli territoriali, la sfida da cogliere. Il rilancio della sovranità popolare passa, in quest’ottica, per il recupero di forme di cittadinanza attiva, che se non possono più essere quelle della mediazione partitica tradizionale, implicano comunque strutture organizzate dotate di una qualche stabilità, capaci, per un verso, di “leggere” la società – coglierne gli assetti, interpretarne le istanze profonde – e, per l’altro, di confrontarsi intorno alla definizione di un’idea di vita collettiva che si proponga la trasformazione della società nel suo complesso.

La seconda, al contrario, è la via di chi vede nel Governo il punto debole del sistema costituzionale, e nel rafforzamento della governabilità, a tutti i livelli territoriali, la sfida da cogliere. In questa diversa ottica, il rilancio della sovranità popolare passa per il consolidamento degli strumenti idonei a “mettere in sicurezza” il risultato elettorale, sancendo sempre e comunque, al di là dell’effettiva quota di consenso raccolta, un “vincitore” di cui si assume la capacità di agire (non solo come esponente di parte, ma anche) come rappresentante di tutti.

 

2. Se la prima via sarebbe tutta da costruire (e, in questa prospettiva, le proposte di De Bortoli non sembrano, realisticamente, risolutive), la seconda ha già avuto modo di dar prova di sé a livello locale e regionale. Anche a volersi limitare a uno schizzo impressionistico, si può fin da subito anticipare che il risultato è venato da chiaro-scuri.

Anzitutto, è incontestabile che l’elezione diretta del sindaco abbia assicurato ai comuni una popolarità senza precedenti, sino a rendere i primi cittadini dei capoluoghi più grandi importanti protagonisti della vita politica nazionale[6]. D’altro canto, però, analogo fenomeno non si è verificato, salvo eccezioni, a livello provinciale e ambivalente è stato l’effetto dell’elezione diretta in ambito regionale. In generale, a una prima fase di entusiasmo sembra aver fatto seguito una fase segnata da un progressivo disincanto: ne sono risultate colpite dapprima le province (agnello sacrificale dato in pasto all’opinione pubblica) e le regioni (basti ricordare, al di là degli scandali giudiziari, l’affluenza ben al di sotto del 50% alle ultime elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria); da ultimo, il fenomeno ha interessato gli stessi comuni (come il caso-Roma mostra emblematicamente).

Sotto altro punto di vista, spesso la scala territoriale ha spesso espresso una “vitalità” politica difficilmente confutabile. Nel quadro del rimescolamento di carte cui è andato incontro negli ultimi venticinque anni il nostro sistema politico, una forza che ha giocato un innegabile ruolo da protagonista è stata la Lega Nord, affermatasi e consolidatasi a livello locale (Lombardia e Veneto) prima di trovare spazio addirittura nel governo nazionale. Oggi, è il Partito democratico che sembra andare “territorializzandosi” nel Sud Italia, grazie all’emergere di leader locali dotati di proprie autonome risorse di potere in regioni importanti come la Campania, la Puglia, la Sicilia.

Sorprende, però, come altrettanta “vitalità” non sia stata manifestata nella riscrittura degli Statuti regionali in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001[7]. Nonostante la tanto proclamata “spinta” federalistica proveniente dai territori, pochissime furono le regioni che si diedero tempestivamente da fare per elaborare la propria nuova carta fondamentale: al compimento della legislatura “statutaria” la maggior parte delle regioni ancora si reggeva sul vecchio statuto e, in alcuni casi, fu necessaria un’ulteriore intera legislatura per portare a termine il lavoro. Inoltre, tolto il caso della Calabria, che provò a rimodulare in maniera parzialmente originale la forma di governo, nessuna delle regioni ad autonomia ordinaria si allontanò dal modello dell’“aut simul stabunt aut simul cadent” predefinito in Costituzione. Né il discorso cambia se si guarda alla possibilità di attivare nuove forme di partecipazione popolare (obiettivo, peraltro, già fallito in occasione della prima tornata statutaria, quando le regioni vennero istituite proprio per provare a dare inediti “sbocchi” politici alla crisi del ‘68) o al c.d. «regionalismo differenziato» offerto come facoltà dall’art. 116 Cost., ma rimasto, al di là di qualche timido progetto, lettera morta. Di fatto, se si vuole individuare un elemento di significativa differenziazione nelle organizzazioni regionali è al modello lombardo di sanità che si deve guardare. Al netto degli illeciti (culminati nell’arresto di ben due assessori alla sanità), non è pochissimo: per il peso demografico ed economico della Regione Lombardia e per la qualità dell’assistenza sanitaria erogata; ma, colpisce che non vi sia altro di davvero significativo.

Come ha sostenuto Roberto Bin, l’autonomia o è differenziazione o non è[8]. A cosa serve reclamare (e ottenere) autonomia statutaria, legislativa, amministrativa, finanziaria se poi l’utilizzo di tali autonomie produce risultati omogenei e non differenziati? E a cosa è servito averne reclamati (e ottenuti) di nuovi e più ampi nel 2001 quando non si era stati capaci di utilizzare a fondo quelli, più ristretti, attribuiti negli anni Settanta? E a cosa serve lamentarsi, oggi, per la riconduzione allo Stato di alcune competenze, dato che molte di quelle conservate – e in particolare quelle attraverso cui provare a riattivare forme di “collegamento” tra cittadini e istituzioni – rimangono inutilizzate?

 

3. L’ambivalenza di giudizio trova conferma negli articoli pubblicati in questo numero de «Il Piemonte delle autonomie».

Da un lato, viene in evidenza il caso delle regioni che si sono fatte promotrici del referendum contro la libertà di trivellazione nelle acque marittime prospicienti le proprie coste: una vicenda che mostra non soltanto la capacità di porsi a difesa delle proprie bellezze naturali e paesaggistiche (il che sarebbe già molto), ma anche l’attitudine ad assumere atteggiamenti propositivi nell’indicare un diverso modello di sviluppo, basato sullo spostamento del peso energetico dalle fonti fossili a quelle rinnovabili (un’attitudine a operare, in definitiva, come attori politici di portata nazionale)[9].

Dall’altro lato, si pone invece il caso delle leggi finanziarie e di bilancio della Regione Piemonte, annullate dalla Corte costituzionale, che scaricavano sulle province piemontesi – vale a dire, sia pure indirettamente, sul territorio e sulla cittadinanza regionali – il peso di uno squilibrio economico imputabile soltanto alla Regione stessa, in elusione di quell’assunzione di responsabilità che – si dice sempre – è l’altro, ineliminabile, aspetto della titolarità del potere politico[10].

 

4. In questo quadro di non facile definizione, la domanda conclusiva non può che riguardare l’idoneità della revisione costituzionale in atto a operare in senso chiarificatore. Due, principalmente, i fronti che interessano le regioni: la nuova ripartizione delle competenze legislative (nuovo art. 117 Cost.) e la nuova composizione del Senato (nuovo art. 57 Cost.).

Sul primo, non sembra esserci molto da dire. Il riaccentramento di numerose competenze e, soprattutto, la clausola di supremazia liberamente attivabile (si badi: non dal Parlamento, ma) dal governo sembrano davvero segnare il tratto conclusivo della parabola del neo-regionalismo italiano. Se a ciò si aggiunge l’apertura di una nuova fase di incertezza che vedrà la Corte costituzionale impegnata a (ri)definire in concreto gli equilibri tra legislativo statale e legislativi regionali (anche con riguardo alla pseudo-soppressione della competenza concorrente), pare difficile scommettere su un rinnovato protagonismo regionale[11].

Più aperta si direbbe, invece, la partita sul secondo fronte, dove, nonostante le confuse e contraddittorie disposizioni contenute nel ddl di revisione, molto dipenderà dalla legge statale e dalle leggi regionali che definiranno in concreto la composizione del Senato. I nodi da sciogliere sono ben intricati[12]:

– chi rappresenterà il Senato? Le «istituzioni territoriali», dice il nuovo testo dell’art. 55 Cost. Cosa siano, però, le «istituzioni territoriali» è tutt’altro che chiaro. L’ente regionale, in quanto tale, sarebbe già rappresentato dal presidente della Giunta regionale (attuale e nuovo art. 121 Cost.), ma – sorprendentemente – il presidente non è membro di diritto del Senato. Ci sarà, invece, certamente un sindaco per ciascuna regione, ma non si capisce perché l’organo statutario deputato a “rappresentare” gli enti locali a livello regionale – il Consiglio delle autonomie locali (vecchio e nuovo art. 123 Cost.) – non avrà voce nella scelta;

– che tipo di rappresentanza esprimerà il Senato? Se si tratta di rappresentanza politica – se, cioè, le istituzioni territoriali sono chiamate a comporre il Senato in quanto enti “politici” – allora i senatori dovrebbero agire con vincolo di mandato, come accade nel Bundesrat tedesco; e, invece, anche nella nuova Costituzione rimane la disposizione per la quale «i membri del Parlamento [tutti: dunque, anche i senatori] esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato» (art. 67 Cost.). D’altro canto, se il Senato non esprime una rappresentanza politica, non si capisce a che titolo tale organo prenderà parte non solo al procedimento legislativo, ma addirittura alla revisione costituzionale (nuovo art. 70 Cost.): in democrazia, infatti, le leggi non possono che essere espressione di un potere politico;

– come sarà composto il Senato? I senatori saranno eletti «con metodo proporzionale» dai Consigli regionali «tra i propri componenti» (nuovo art. 57, co. 2, Cost.), «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri» in occasione del rinnovo dei Consigli regionali (nuovo art. 57, co. 5, Cost.). Ma, che cosa significa esattamente? Che i consigli regionali manderanno in Senato i consiglieri più votati o che gli elettori esprimeranno due voti, uno per il consiglio regionale, l’altro per il Senato? Che la ripartizione dei seggi tra le forze politiche presenti in consiglio regionale avverrà sulla base dei voti ricevuti da ciascuna lista o sulla base della composizione dei gruppi consiliari (il che è diverso, perché nel primo caso non avrebbe influenza il premio di maggioranza, che tutte le leggi elettorali regionali prevedono, nel secondo sì)?

La sfida – se la riforma supererà il referendum oppositivo dell’autunno – sarà provare a dare coerenza a tale coacervo di contraddizioni: sapendo che, altrimenti, il rischio di cadere nel fossato può diventare una certezza.


 


[1] Professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino.

 

[2] F. De Bortoli, Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini, in «Corriere della Sera», 4 marzo 2016.

 

[3] A. Di Giovine, Appunto sulla cultura espressa dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, in G.F. Ferrari e G. Parodi (a cura di), La revisione del Titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, Cedam, Padova, 2003 (del medesimo Autore cfr. anche Fra cultura ed ingegneria costituzionale: una forma di governo che viene da lontano, in «Democrazia e diritto», n. 2, 2004).

 

[4] G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe: proposte di riforma istituzionale, Laterza, Roma-Bari, 1985.

 

[5] M.E. Boschi, La via delle riforme per colmare la distanza tra politica e cittadini, in «Corriere della Sera», 5 marzo 2016.

 

[6]Il successo è stato tale da assicurare non poca fortuna alla formula del «Sindaco d’Italia», vale a dire all’idea di trasporre sul piano nazionale il modello istituzionale comunale.

 

[7]Dell’amplissima letteratura in argomento ci si limita, in questa sede, a rinviare a due tra le opere che hanno affrontato il tema con maggiore sistematicità: M. Olivetti, Nuovi Statuti e forma di governo delle Regioni, il Mulino, Bologna 2002 e A. D’Atena (a cura di), I nuovi Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, Giuffrè, Milano 2008.

 

[8] Cfr. R. Bin, Relazione conclusiva al Convegno “in vista della revisione del Titolo V, Parte II, della Costituzione: quale ruolo per le Autonomie speciali?”, consultabile sul suo sito personale all’indirizzo:  http://www.robertobin.it/ARTICOLI/RegioniSpeciali.pdf.

 

[9]Cfr. C. Sartoretti, Le trivellazioni in Adriatico: alcuni punti fermi e molte questioni aperte, in questa rivista.

 

[10] Cfr. G. Boggero, Le Province piemontesi debbono poter disporre di risorse adeguate per l’esercizio delle funzioni loro conferite e S. Rossa, Il problematico rapporto fra l’esercizio delle funzioni delle Province e il condizionamento (di bilancio) regionale, entrambi in questa rivista.

 

[11] Cfr. U. De Siervo, Una prima lettura del progettato nuovo art. 117 Cost., in «Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti», n. 1, 2016.

 

[12] Per quanto segue, cfr. M. Dogliani, La riforma costituzionale all’esame del Senato: rilievi critici, Testo scritto presentato alla Commissione Affari Costituzionali del Senato il 3 agosto 2015 nell’ambito dell’indagine conoscitiva in merito al processo di revisione costituzionale del Titolo I e del Titolo V della Parte II della Costituzione e della disposizione riguardante il CNEL, consultabile sul sito di «Astrid» all’indirizzo: http://www.astrid-online.it/static/upload/fa69/fa69f5f24cec6f5589b16985d22f64fa11.pdf.