Le Province piemontesi debbono poter disporre di risorse adeguate per l’esercizio delle funzioni loro conferite
Giovanni Boggero[1]
La presente nota costituisce una parziale rielaborazione di un lavoro già pubblicato per la rivista Giurisprudenza costituzionale n. (4) 2015, integrata a seguito della sentenza n. 10/2016 della Corte costituzionale, emessa il 12 gennaio 2016 e depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2016. L’autore ringrazia per i commenti a una prima bozza di questo scritto il dott. Marco Orlando, Direttore di ANCI Piemonte, già Segretario dell’Unione delle province piemontesi (UPP).
Introduzione.
Con le sentenze nn. 188/2015 e 10/2016 la Corte costituzionale ha parzialmente accolto le questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale dal TAR per il Piemonte su istanza di alcune Province piemontesi – Alessandria e VCO nel primo caso, Novara e Asti nel secondo caso – contro diverse disposizioni di legge finanziaria, per la formazione del bilancio di previsione, di assestamento e di variazione al bilancio di previsione in combinato disposto con gli allegati relativi a talune unità previsionali di base (UPB) per gli anni finanziari 2013 e 2014 «nella parte in cui non consentono di attribuire adeguate risorse per l’esercizio delle funzioni conferite» con svariate leggi regionali dalla Regione Piemonte alle Province. Per quanto identiche nel dispositivo, le due sentenze che qui si commentano presentano significative differenze quanto a motivazione, parametri censurati e natura delle disposizioni legislative dichiarate incostituzionali. In questa sede, si procederà a un’analisi della sentenza n. 188/2015, sottolineando, laddove emergano, gli aspetti innovativi riconducibili alla successiva sentenza n. 10/2016.
Sulla base del dispositivo è innanzitutto possibile parlare di due sentenze di accoglimento, additive di principio, oltreché, alternativamente, di prestazione o di procedura. Le leggi regionali per la formazione del bilancio di previsione e i relativi assestamenti per il 2013 e il 2014, nonché la legge finanziaria per il 2014 sono infatti state dichiarate costituzionalmente illegittime nella parte in cui non autorizzano la Giunta regionale piemontese ad assumere impegni di spesa adeguati all’esercizio delle funzioni conferite alle Province. Per ovviare all’inadeguatezza che genera il vulnus costituzionale, il legislatore regionale è chiamato ad approvare una variazione del bilancio attribuendo maggiori risorse alle Province oppure a giustificare la riduzione della dotazione finanziaria con «proposte di riorganizzazione dei servizi o riallocazione delle funzioni». Nella sentenza n. 188/2015, il criterio dell’adeguata o congrua corrispondenza tra risorse e funzioni viene ricavato dalla Corte a partire dal principio di buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), letto a sua volta alla luce del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost) [§ 1], la cui violazione si riverbera anche in una ingiustificata menomazione dell’autonomia finanziaria delle Province (art. 119 Cost.) [§ 2]. Viceversa, nella sentenza n. 10/2016, la Corte dichiara innanzitutto la violazione dell’autonomia finanziaria delle Province, la quale «si riflette inevitabilmente» sul buon andamento della p.a., mente l’art. 3 risulta violato non solo sotto il profilo della ragionevolezza, ma anche sotto quello dell’eguaglianza sostanziale. Le decisioni sono particolarmente rilevanti atteso che, insieme con la sentenza 23 luglio 2015, n. 181, sono le prime sentenze che “manipolano” un bilancio pubblico, sia pure di enti decentrati della Repubblica, mentre, più in generale, vanno annoverate tra le sentenze che, nell’ultimo anno, hanno determinato una tensione sugli equilibri del bilancio consolidato delle amministrazioni pubbliche [§ 3].
1. Il giudice costituzionale ha sempre riconosciuto che il legislatore disponga in via generale di un’ampia discrezionalità nel modificare, ampliare o diminuire le fonti di finanziamento agli enti territoriali, le quali non possono certo considerarsi intangibili. Tale discrezionalità incontra, tuttavia, dei limiti. Il legislatore non può cioè ridimensionare gli stanziamenti finanziari al punto tale da rendere insostenibile lo svolgimento delle funzioni amministrative dell’ente pubblico territoriale. Ciò vale non solo per le Regioni nei loro rapporti con lo Stato, come finora riconosciuto da una costante giurisprudenza della Corte (cfr. sentt. nn. 307/1983, 381/1990, 123/1992, 370/1993, 138/1999, 326/2010 e 241/2012), ma anche per gli enti locali nei loro rapporti con le Regioni. Tale limite rappresenta il confine invalicabile oltre il quale l’autonomia degli enti pubblici territoriali risulta svuotata e perciò violata. Ma come stabilire se il normale espletamento delle funzioni amministrative sia impedito da stanziamenti di risorse troppo esigui da parte del legislatore?
Sinora la Corte aveva richiamato la necessità di verificare l’esistenza di un rapporto «di complessiva corrispondenza […] fra bisogni regionali e mezzi finanziari per farvi fronte» (cfr. sentt. nn. 307/1983, 381/1990 e 123/1992). A partire dal vecchio art. 119 Cost., essa aveva cioè ricavato un principio per il quale le Regioni «debbono essere messe in grado di avere a disposizione risorse finanziarie maggiori e, comunque, adeguate alla più elevata quantità e qualità delle attribuzioni loro spettanti» (cfr. sent nn. 307/1983 e 381/1990). Il principio de quo è definibile come principio di adeguata o congrua corrispondenza, nel senso che le risorse assegnate dallo Stato alle Regioni debbono essere tali da assicurare l’esercizio dei compiti loro attribuiti. Nel rapporto tra Regioni ed enti locali, il principio di adeguata o congrua corrispondenza è stato per lungo tempo riconosciuto soltanto da fonti di rango primario (art. 149, comma 12 T.U.E.L., art. 3, comma 3 in combinato con l’art. 7, comma 2 lett. b) del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112). Con l’entrata in vigore della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, parte della dottrina ha sostenuto la tesi per la quale anche una fonte costituzionale (art. 119, comma 4 Cost.) avrebbe stabilito un parametro di adeguata o congrua corrispondenza tra risorse e funzioni amministrative[2], nella misura in cui queste ultime dovevano essere finanziate «integralmente» dalle fonti di cui ai commi precedenti. Quantomeno per le funzioni fondamentali, l’art. 2, comma 5 della l. 5 giugno 2003, n. 131 (cd. “legge La Loggia”) precisava che ciascuno degli interventi attuativi dell’art. 119 Cost., con i quali tali funzioni sarebbero state individuate, dovesse essere «corredato della relazione tecnica con l’indicazione della quantificazione e della ripartizione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative, ai fini della valutazione della congruità tra i trasferimenti e gli oneri conseguenti all’espletamento delle funzioni conferite». Sino alle sentenze qui in commento, svariati erano stati i tentativi del legislatore di stabilire degli indicatori per valutare la congruità, o meglio la congrua corrispondenza, anche se mai davvero destinati a trovare compiuta attuazione.
Come specificato dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 206/2001, «gli indici contemplati [dalla legge delega 15 marzo 1997, n. 59] per la quantificazione delle risorse da attribuire tendono a realizzare tale principio di corrispondenza, attraverso un riferimento meno meccanico di quello utilizzato in occasione di precedenti trasferimenti di funzioni, alle sole cifre stanziate nei capitoli pertinenti dell’ultimo bilancio dello Stato, e tenendo conto della dinamica della spesa nel tempo in rapporto anche agli altri indici dell’economia, utilizzati al fine della programmazione finanziaria dello Stato» (cons. in dir., n. 22). Allo stesso modo, dopo la riforma dell’art. 119 Cost., il passaggio da un sistema di erogazione dei trasferimenti basato sul criterio meccanico della cd. “spesa storica” a un sistema fondato su indicatori quali i “fabbisogni standard”, stabilito con il d.lgs. 26 novembre 2010, n. 216, adottato in attuazione della legge delega 5 maggio 2009, n. 42 sul federalismo fiscale, avrebbe dovuto concretizzare il principio di congrua corrispondenza, anche se soltanto per il finanziamento delle funzioni fondamentali degli enti territoriali e non di quelle conferite.
Con le sentenze qui in commento, la Corte ha stabilito che l’incongrua corrispondenza tra risorse e funzioni possa essere accertata sulla base della violazione di un indicatore procedurale, la cui obbligatorietà è desunta a partire dal combinato disposto degli artt. 3 e 97 Cost. Infatti, laddove la riduzione dei trasferimenti sia «drastica» – ben oltre il 50 percento rispetto all’anno precedente in entrambi gli anni finanziari, anche a prescindere dalla successiva rideterminazione effettuata dal legislatore nell’anno 2014 – sia operata a invarianza di funzioni e senza un progetto per la loro riorganizzazione, essa non risponde a «scopi appropriati e proporzionati alla sua misura» ed è perciò irragionevole. Al proposito, la Corte non opera alcun bilanciamento ovvero non indaga se, nel caso concreto, gli scopi della Regione Piemonte fossero in effetti appropriati e proporzionati, ma presume che essi non lo fossero, dal momento che il legislatore non può mai prescindere da un’istruttoria, qualora intenda ridurre drasticamente la dotazione finanziaria di enti delegati all’esercizio di funzioni amministrative. Il vincolo a ridurre il debito regionale in un contesto di crisi finanziaria non vale quindi da solo a giustificare tagli lineari ai trasferimenti.
In quanto irragionevoli, le norme impugnate contrastano anche con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa, così come declinato dall’art. 97 Cost. Infatti, l’organizzazione degli uffici decentrati non può garantire il buon andamento se nelle partite del bilancio dell’ente che opera il decentramento non sono stanziate risorse che assicurino la copertura della spesa delle funzioni amministrative conferite o delegate [3]. Se queste non sono sufficienti nemmeno a coprire le spese per il personale, i servizi non possono essere offerti e la spesa, anche se ridotta, finisce per rivelarsi improduttiva. Le risorse stanziate dalla Regione non devono soltanto assicurare la copertura della spesa provinciale, bensì anche essere «proficuamente spese in relazione agli obiettivi delineati nel bilancio di previsione» (cons. in dir., n. 5.2). In altri termini, come già esplicitato dalla Corte nella sentenza n. 40/1998, il buon andamento sancito all’art. 97 Cost. è «sia una finalità da perseguire e da raggiungere che un criterio caratterizzante l’azione amministrativa». Perciò, soltanto individuando e ripartendo correttamente le risorse finanziarie per l’esercizio di una determinata categoria di funzioni amministrative nel bilancio di previsione, si consente nell’anno o negli anni finanziari successivi di realizzare efficacemente gli interessi della collettività. Per citare ancora la medesima decisione del 1998, i procedimenti amministrativi devono cioè essere «idonei a perseguire la migliore realizzazione dell’interesse pubblico nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell’attività amministrativa». A questo proposito, la sentenza n. 10/2016 risulta particolarmente innovativa dal momento che in essa, a differenza della precedente n. 188/2015, la Corte dichiara anche la violazione del «principio di eguaglianza sostanziale a causa dell´evidente pregiudizio al godimento dei diritti conseguente al mancato finanziamento dei servizi» (cons. in dir. n. 6.3).
Alla luce della l. cost. 20 aprile 2012, n. 1 che ha introdotto un nuovo primo comma all’art. 97 Cost., il riferimento al principio di buon andamento da parte della Corte si arricchisce poi di conseguenze innovative. La corretta ripartizione delle risorse finanziarie tra enti è infatti altresì funzionale al raggiungimento degli obiettivi programmatici che la Regione si dà proprio con il bilancio di previsione, ossia assicurare l’equilibrio finanziario e la sostenibilità del debito pubblico, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea (art. 97, comma 1 Cost.). Onde evitare forti tensioni sugli equilibri finanziari degli enti delegati all’esercizio di funzioni amministrative è cioè necessario che la Regione svolga ben prima dell’approvazione del bilancio di previsione quegli adempimenti che il metodo della programmazione impone a tutte le pubbliche amministrazioni. A questo proposito, ai sensi dell’art. 19, comma 2 della l. 31 dicembre 2009, n. 196, laddove vi siano norme che producono effetti finanziari innovativi a carico della finanza pubblica, anche attraverso il conferimento di nuove funzioni o la disciplina delle funzioni ad esse attribuite, il legislatore regionale è chiamato a conformarsi al metodo della programmazione nel senso di dover corredare tali norme «di particolare istruttoria per dimostrare la loro compatibilità con il complessivo equilibrio dei bilanci partecipanti al consolidato pubblico». Questo obbligo, discendente dalla sopracitata legge di contabilità e finanza pubblica, può a sua volta considerarsi specificazione dell’obbligo costituzionale di garantire l’equilibrio dei bilanci di cui all’art. 81, comma 3 Cost., come sottolineato dall’ormai costante giurisprudenza della Corte (cfr. sentt. nn. 115/2012, 192/2012, 26/2013, 190/2014, 224/2014). Nel caso di specie, il metodo della programmazione implica che la forte riduzione della dotazione finanziaria per le Province avrebbe dovuto essere «accompagnata da proposte di riorganizzazione dei servizi oppure da un’eventuale riallocazione delle funzioni trasferite». Soltanto misure che, ad esempio, indichino agli enti delegati come recuperare efficienza nell’erogazione dei servizi pubblici (attraverso fusione o soppressione di società partecipate, liberalizzazioni, privatizzazioni ecc.) oppure che dispongano la riassunzione di alcune funzioni amministrative in capo alla Regione o, ancora, prevedano una razionalizzazione attraverso una gestione associata delle medesime tra più Province possono giustificare un rimodulazione dello stanziamento che, altrimenti, è da considerarsi «apodittica» e «irragionevole» e perciò contraria al buon andamento della p.a. Sotto quest’ultimo profilo, la sentenza n. 188/2015 poteva anche essere letta come un monito al legislatore piemontese affinché desse al più presto attuazione al riordino delle funzioni provinciali, così come stabilito dalla cd. legge Delrio e, in particolar modo, dall’Accordo raggiunto in sede di Conferenza Unificata l’11 settembre 2014[4].
La Corte insiste, insomma, su una garanzia procedurale di congrua o adeguata corrispondenza[5], in base alla quale lo stanziamento delle risorse da parte della Regione è ragionevole se ad esso corrisponde un «progetto di impiego», la ragionevolezza del quale va a sua volta verificata in base alla correttezza della ripartizione delle risorse tra i diversi enti coinvolti, alla copertura delle spese e al buon andamento dei servizi. Gli effetti di un simile assunto dal punto di vista pratico sono di tale ampiezza da ribaltare il criterio-guida che ha storicamente presidiato il riparto di risorse finanziarie regionali tra le Province. Da una valutazione delle necessità astrattamente basata su criteri indifferenziati, come ad esempio la popolazione e l’estensione territoriale (art. 149, comma 5 T.U.E.L.), occorre passare a una valutazione puntuale dei fabbisogni di ciascuno specifico servizio e funzione amministrativa conferita o delegata. Tale valutazione dovrà essere condotta sulla base dei rispettivi «progetti di impiego» delle risorse e su piani di riorganizzazione territoriale differenziati, di talché il riparto delle risorse assegnate per il trasporto pubblico locale potranno utilizzare indicatori di fabbisogno (possibilmente “standard”) diversi da quelli usati per ripartire, sempre a titolo di esempio, le risorse finanziarie per le funzioni in materia ambientale, e così via. L’innovazione del quadro normativo e amministrativo è quindi duplice, poiché, da un lato, spinge il legislatore regionale ad abbandonare il criterio storico di finanziamento delle funzioni conferite o delegate (in Piemonte, stabilito dalla l. reg. 20 novembre 1998, n. 34), ma, d’altro canto, implica una seria riflessione su quanto anche l’ipotesi di cd. “fiscalizzazione dei trasferimenti” (mediante il riversamento di una quota di gettito della fiscalità generale, ovvero mediante la compartecipazione a uno o più tributi regionali, ai sensi del d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68) possa eventualmente “reggere” di fronte alla valutazione di ragionevolezza. Nessuna delle ipotesi finora in campo, relative alla fiscalizzazione, infatti, pare garantire adeguatamente la necessaria differenziazione che, invece, la Corte impone introducendo il concetto del piano di riorganizzazione delle funzioni.
Né si può sostenere che il procedimento amministrativo seguito per il riparto sia idoneo «a perseguire la miglior realizzazione dell’interesse pubblico nel rispetto dei diritti e degli interessi legittimi dei soggetti coinvolti nell’attività dell’amministrazione» (sent. n. 40/1998, cons. in dir., n. 3). Affinché vi possa essere una composizione degli interessi afferenti alle diverse comunità dell’ordinamento, nel caso di specie quella regionale e quelle provinciali, la Corte richiede un salto culturale di notevole entità, che dovrebbe portare alla costruzione dei riparti mediante un procedimento bottom-up di tipo concertativo e non più derivante da valutazioni aprioristiche e di tipo top-down. A questo proposito, la Corte, respingendo l’eccezione della Regione Piemonte secondo la quale i trasferimenti sarebbero in realtà stati concordati con le Province in sede di “Conferenza permanente Regione-Autonomie Locali”, pare voler sottolineare che il canale di concertazione attualmente percorribile non basti a garantire il buon andamento. Anzi, nel censurare la violazione del principio del buon andamento nonostante l’avvenuto accordo, la Corte pare voler, da un lato, ribadire che tale principio, così come anche l’autonomia locale, non sono valori costituzionali disponibili dalle parti e, dall’altro, notare criticamente che il processo di riordino delle funzioni è stato veicolato da strumenti e sedi di concertazione i quali, anziché assicurare la leale collaborazione e prevenire il conflitto, lo alimentano.
2. Una ripartizione irragionevole delle risorse, come tale non improntata al buon andamento della pubblica amministrazione, né alla salvaguardia degli equilibri finanziari viola il principio di adeguatezza o congrua corrispondenza tra risorse stanziate e funzioni amministrative da esercitare e, da ultimo, anche l’autonomia finanziaria delle Province, in quanto enti territoriali costitutivi della Repubblica (art. 119, commi 1 e 4 Cost.).
A questo proposito, il riferimento all’autonomia finanziaria parrebbe prospettare una questione di costituzionalità aventi caratteristiche autonome e non legate dal vincolo di pregiudizialità rispetto alla censura dei principi di ragionevolezza e buon andamento, prima esaminati. Infatti, per giudicare inadeguato lo stanziamento di risorse per finanziare le funzioni amministrative conferite o delegate, sarebbe stato di per sé sufficiente dichiarare la violazione del combinato disposto dell’art. 3 e dell’art. 97 Cost. e assorbiti tutti gli altri vizi censurati. Viceversa, in entrambe le decisioni, la Corte non ha dichiarato assorbiti i profili concernenti la lesione dell’autonomia finanziaria, dichiarando invece l’incostituzionalità anche per violazione del combinato disposto dei commi 1 e 4 [6] dell’art. 119 Cost., di talché occorre domandarsi quali siano gli effetti di una declaratoria di incostituzionalità con la quale si censuri anche tale parametro.
In primo luogo, il giudice costituzionale sembra così aver stabilito che non solo le funzioni proprie o fondamentali, ma tutte le funzioni amministrative esercitate dalle Province, comprese quelle conferite o delegate dalle Regioni [7] e dallo Stato [8] , necessitino di un adeguato o congruo stanziamento di risorse. D’altro canto, tacitamente, la Corte ha così anche riconosciuto che le fonti di finanziamento delle funzioni conferite o delegate possano (temporaneamente?) consistere in dotazioni finanziarie storiche e in parte vincolate [9] e non soltanto in tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al territorio dell’ente o nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, come indicato dai primi tre commi dell’art. 119 Cost. In secondo luogo, l’adeguato finanziamento delle funzioni conferite o delegate è un presupposto necessario per garantire l’autonomia finanziaria dell’ente pubblico territoriale, altrimenti esso viene costretto a coprire con risorse proprie o con altre risorse gli stanziamenti mancanti dovuti e, perciò, privato dell’autonomia di spesa e dell’autonomia di bilancio che gli competono in quanto ente territoriale costitutivo della Repubblica (art. 119, comma 1 Cost.).
Contrariamente a quanto prospettato dal giudice rimettente e dalle ricorrenti nel giudizio di merito[10], il riferimento all’art. 119, comma 4 Cost. non è quindi determinante per il riconoscimento del principio di congrua corrispondenza nell’ordinamento costituzionale — atteso che esso si può ricavare già a partire dal combinato disposto dell’art. 3 e 97 Cost. — ma è significativo dal momento che ne delimita l’ambito di applicazione. Il principio si applica, infatti, anche alle funzioni conferite o delegate agli enti territoriali costitutivi della Repubblica, si riferisce anche ai trasferimenti erariali storici a parziale destinazione vincolata e, qualora violato, lede direttamente la loro autonomia finanziaria di spesa e di bilancio.
Dal momento che la violazione del principio di congrua corrispondenza si ha indipendentemente da una censura dell’art. 119, comma 4 Cost., anche all’indomani della revisione della Parte II della Costituzione prospettata dal d.d.l. n. 1429-B, alle Province ormai “decostituzionalizzate” sarà pur sempre possibile lamentare la violazione degli artt. 3 e 97 Cost. nel caso in cui si ripropongano stanziamenti inadeguati all’espletamento delle funzioni loro conferite: il principio de quo opera (e quindi, opererà), dunque, nei confronti di tutti gli enti afferenti alla pubblica amministrazione, a prescindere che abbiano o meno una copertura costituzionale quali enti territoriali costitutivi della Repubblica ex art. 114, comma 1 Cost. Ciò pare confermato dalla successiva sentenza n. 10/2016, nella quale il giudice costituzionale specifica che «l’esercizio delle funzioni a suo tempo conferite – così come obiettivamente configurato dalla legislazione vigente – deve essere correttamente attuato, indipendentemente dal soggetto che ne è temporalmente titolare» (cons. in dir. n. 6.3).
3. In conclusione, la sentenza qui in commento costituisce una rilevante novità, dal momento che è la prima pronuncia con la quale la Corte manipola il bilancio di un ente pubblico territoriale[11]. Le sentenze additive di prestazione hanno sempre riguardato leggi finanziarie o comunque di spesa, ma mai direttamente il bilancio (di previsione) di un ente territoriale costitutivo della Repubblica. A tal proposito, nella sentenza n. 10/2016, la Corte specifica che deve ritenersi sorpassata quella «risalente concezione dottrinaria, di cui è traccia anche nella sentenza n. 7/1959 di questa Corte, secondo cui quella di bilancio sarebbe una legge meramente formale priva di prescrizioni normative», ma che, al contrario, «i semplici dati numerici contenuti nelle leggi di bilancio e nei relativi allegati possono essere prodotti effetti novativi dell’ordinamento» e, come tali, sono quindi «suscettibili di sindacato». Allo stesso tempo, tuttavia, la Corte ha anche dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa alla legge di variazione del bilancio di previsione per l’anno finanziario 2014 nella parte in cui non provvedeva al congruo incremento della partita di spesa contestata (cons. in dir. n. 4). Incostituzionale è quindi la riduzione operata sulla legge di bilancio, non la sua omessa variazione. La Corte non può coartare il legislatore a un determinato incremento dei trasferimenti in sede di variazione di bilancio. Il principio di congrua corrispondenza è quindi un parametro censurabile soltanto in sede di predisposizione o assestamento del bilancio. Cionondimeno, può essere agevolmente stabilito un parallelo con alcune delle più recenti sentenze di prestazione e in particolare con la sentenza 30 aprile 2015, n. 70. Anche in tal caso, infatti, la Corte ha censurato l’irragionevolezza di una misura che, sostanzialmente, riduceva un trasferimento, rectius sospendeva un meccanismo perequativo, in assenza di una congrua e adeguata motivazione delle esigenze finanziarie da parte del legislatore. Al pari degli interventi restrittivi sulle prestazioni sociali, anche i trasferimenti verso gli enti locali possono essere ridotti tramite un atto discrezionale quale la legge di previsione del bilancio soltanto entro i limiti della ragionevolezza: la motivazione, da un lato, e le relazioni tecniche contenenti i progetti di impiego delle risorse, dall’altro, diventano insomma strumenti ineludibili per il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti[12].
Il principio per cui la corresponsione delle risorse finanziarie per l’esercizio di funzioni amministrative, conferite o delegate, non può mai prescindere da un’accurata procedura di programmazione, che miri alla salvaguardia dei saldi di bilancio e a un’adeguata soddisfazione degli interessi pubblici, rectius garantisca la «continuità dei servizi a rilevanza sociale» è dunque un importante passo avanti per un pieno riconoscimento delle garanzie finanziarie degli enti pubblici territoriali non soltanto nei confronti delle Regioni ma, eventualmente, anche nei confronti dello Stato. Lo scrutinio della Corte potrebbe, infatti, estendersi anche a norme di legge di bilancio statale, che autorizzano riduzioni irragionevoli e inadeguate dei trasferimenti agli enti locali. A questo proposito, pare lecito sollevare qualche dubbio circa la congruità delle riduzioni ai trasferimenti statali per il triennio 2015-2017, operate con la legge di stabilità 2015 (art. 1, comma 418 della l. 23 dicembre 2014, n. 190) e già sensibilmente erosi a partire dall’anno finanziario 2011[13]. La Corte sembra insomma aver pronunciato anche una sentenza-monito, “parlando” alle Regioni affinché lo Stato “intenda”, ossia rimedi laddove i tagli alle dotazioni storiche per le Province siano incongrui quanto quelli regionali.
Alla Regione Piemonte spettava dunque il compito di variare il bilancio o approvare un piano di riorganizzazione o riallocazione delle funzioni che giustificasse la drastica riduzione di risorse finanziarie. Mentre in quest’ultimo caso, la Regione sarebbe stata obbligata a calcolare i fabbisogni delle funzioni delegate — operazione alla quale la Regione nelle sue difese aveva persino rivendicato (sic) di essersi sempre sottratta (Ritenuto in fatto n. 2) — nel primo caso, la Regione sarebbe invece stata libera di operare una maggiorazione della dotazione finanziaria non necessariamente sulla base del meccanismo della cd. fiscalizzazione dei trasferimenti stabilito dal decreto legislativo 6 maggio 2011, n. 68, né dovendo per forza calcolare i fabbisogni per le funzioni delegate, ma ben potendo trasferire risorse adeguate a coprire le spese sulla base di altri criteri, tra cui quello della spesa storica, eventualmente calcolandole sulla base dell’unico anno finanziario, nel quale il bilancio non era stato contestato in giudizio dalle Province piemontesi, ossia il 2012. Così è poi effettivamente avvenuto con l’Intesa quadro tra il Presidente della Regione Piemonte e i Presidenti delle Province piemontesi e il Sindaco della Città metropolitana di Torino per il riparto di integrazione di risorse economiche per gli anni 2011, 2013, 2014 e 2015, intesa che ha costituito la condizione essenziale per la presentazione del disegno di legge n. 167/2015 per la variazione del bilancio diprevisione 2015 ed al bilancio pluriennale 2015-2017 e relative disposizioni finanziarie.
[1] Dottore di ricerca in diritto costituzionale nell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. È attualmente DAAD Postdoctoral Visiting Research Fellow al Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law di Heidelberg (Germania).
[2] Così, tra gli altri: S. Gambino, Diritto regionale e degli enti locali, Milano 2009, 189; M. Perini, “Rei vindicatio”, teoria della prospettazione e nuovo ordinamento delle autonomie locali, in: Giurisprudenza Costituzionale, 2004, 1849; A. Brancasi, L’autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in: Le Regioni, 2003, 97 e ss.
[3] Si noti che la “spesa” qui menzionata non è soltanto quella di funzionamento o strumentale, né tantomeno va limitata a quella per il personale, ma, come sottolineato dalle ricorrenti nel giudizio di merito e così pure dal giudice a quo nell’ordinanza di rimessione, include anche quella cd. “di intervento”, vale a dire la spesa necessaria a finanziare il corretto esercizio della funzione e la correlata erogazione di servizi adeguati.
[4] Il riordino delle funzioni provinciali in Piemonte è stato avviato con la legge 29 ottobre 2015, n. 23. Sul processo di riordino delle funzioni provinciali nelle Regioni a Statuto ordinario si veda l’analisi di: D. Servetti, Il riordino delle funzioni provinciali nella legge Delrio e nel primo anno di attuazione, in: Il Piemonte delle Autonomie, Anno II, n. 2 (2015).
[5] Il giudice costituzionale sembra rifarsi alle comuni garanzie europee dell’autonomia finanziaria degli enti locali. T. Marauhn, Selbstverwaltungsrechte und aufgabenangemessene Finanzausstattung kommunaler Gebietskörperschaften in Europa, in: M. von Hoffmann, C. Kromberg, V. Roth, B. Wiegand (a cura di), Kommunale Selbstverwaltung im Spiegel von Verfassungsrecht und Verwaltungsrecht, Stuttgart 1995, 71-97. È infatti questo il tenore dell’art. 9, commi 1 e 2 della Carta europea dell’autonomia locale (CEAL), trattato internazionale ratificato dall’Italia con l. 30 dicembre 1989, n. 439 che ha la pretesa di fissare alcuni principi cardine dell’autonomia degli enti territoriali comuni a tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa. La redazione dell’art. 9 fu influenzata dalle specifiche garanzie finanziarie esistenti nell’ordinamento federale tedesco tanto nel rapporto Federazione-Länder, quanto nel rapporto Länder-enti locali, secondo cui gli enti territoriali cui essa si applica devono avere a disposizione risorse adeguate o appropriate per l’esercizio delle loro funzioni. Nella sentenza qui in commento, l’espressione “risorse adeguate” si ritrova solo nel dispositivo della sentenza e pare costituire un predicato necessario del principio di congrua corrispondenza. Anche nel lessico del Consiglio d’Europa e in quello della giurisprudenza tedesca in materia, del resto, gli aggettivi “adeguato” (adäquat) e “congruo” (angemessen) vengono spesso usati come sinonimi.
[6] Erroneamente la Corte menziona il comma 5 dell’art. 119, il quale tuttavia non inerisce al finanziamento delle funzioni pubbliche, ma si riferisce agli interventi speciali ed è quindi del tutto inconferente rispetto al caso de quo. Altrettanto erroneamente, nella sentenza n. 10/2016, la Corte menziona, invece, l’art. 117 Cost., il quale non reca alcuna garanzia dell’autonomia finanziaria delle Province.
[7] Si noti che la Corte, come da propria giurisprudenza ormai consolidata, non si premura di distinguere tra funzioni attribuite e conferite. Si vedano, ex multis, le sentenze nn. 43, 69, 70, 71, 72, 73, 112, 172 del 2004; nn. 89 e 90/2006, n. 249/2009. L’equiparazione tra funzioni conferite e delegate operata in questa sede dalla Corte si potrebbe ricondurre al fatto che il giudizio de quo ha a oggetto funzioni la cui allocazione è avvenuta a cavallo della riforma costituzionale del 2001. Le funzioni delegate erano strumento normale di esercizio delle funzioni regionali a norma del vecchio art. 118 Cost., mentre nel nuovo quadro costituzionale, ai sensi del novellato art. 118, comma 2 Cost., le Regioni possono soltanto conferire funzioni, ma non delegarle. Così ad es.: C. Napoli, Le funzioni amministrative nel Titolo V della Costituzione, Torino 2011, 119 e ss. Più prosaicamente, occorre partire dal presupposto che la l. n. 59/1997, e così anche molte leggi regionali che diedero attuazione al decentramento delle leggi Bassanini, intendeva per «conferimento» ogni ipotesi di «trasferimento, delega o attribuzione di funzioni e compiti». Questa definizione è filtrata anche nel nuovo quadro costituzionale e, alla fine, è stata fatta propria anche dalla Corte costituzionale.
[8] A questo proposito, sulla base dell’art. 6 del d.p.c.m. del 26 settembre 2014, lo Stato ha attribuito alle Province le funzioni amministrative in materia di tutela delle minoranze linguistiche.
[9] Superata appare, quindi, l’interpretazione di chi, in passato, non includeva le funzioni delegate nel novero delle funzioni attribuite di cui al comma 4 dell’art. 119 Cost. Cfr. tra gli altri: F. Merloni, I rapporti tra Regione ed enti locali nel nuovo Statuto della Regione Emilia-Romagna, in: Le Istituzioni del Federalismo n. 1/2005, 102; A. Brancasi, L’attuazione del federalismo attraverso i principi contenuti nell’art. 119 Cost., in: F. Amatucci e G. Clemente di San Luca (a cura di), I principi costituzionali e comunitari del federalismo fiscale, Torino 2007, 20-21.
[10] Cfr. T.A.R. Veneto — sez. III, sent. 21 maggio 2015, n. 553 in base alla quale i ricorrenti non avrebbero correttamente evocato e dimostrato in giudizio i profili di illogicità e irragionevolezza della legge di bilancio, limitandosi a denunciare la lesione dell’autonomia finanziaria delle Province.
[11] La sentenza n. 181/2015, con la quale la Corte ha accertato il “falso in bilancio” della Regione Piemonte, dichiarando incostituzionale la contabilizzazione nel bilancio 2013 delle anticipazioni di liquidità concesse dallo Stato per il pagamento di debiti pregressi, è stata depositata un giorno prima rispetto a quella qui in commento, ma la decisione risale in realtà al 23 giugno, due settimane dopo rispetto alla n. 188.
[12] Cfr. sul tema: G. Pepe, Necessità di un’adeguata motivazione della legge restrittivamente incidente nella sfera giuridica dei cittadini? Commento a sentenza Corte cost. n. 70/2015, in: www.forumcostituzionale.it, n. 5/2015.
[13] Si consideri, infatti, che, già nel 2012, il riparto delle decurtazioni è avvenuto sulla base di un decreto ministeriale attuativo dell’art. 16 del d.l. n. 95/2012, che stabiliva un taglio lineare dei trasferimenti alle Province parametrato ai consumi intermedi. Tale riduzione non teneva in minima considerazione le maggiori attività svolte dalle Province, sulla base delle deleghe regionali.