La città ed il rischio idrogeologico tra vecchie e nuove competenze
Paola Lombardi[1]
Questo scritto è il frutto della rielaborazione e dell’aggiornamento della relazione esposta al Seminario di Studi sul tema: “La città e la sicurezza urbana. Profili di riflessione interdisciplinare”, svoltosi presso l’Università degli Studi di Torino-Sede di Cuneo il 25 novembre 2015, nell’ambito del Corso di Laurea in Scienze del diritto italiano ed europeo.
Sommario – 1. Premessa. – 2. Rischio territoriale e pianificazione. – 3. I possibili rimedi alle inefficienze: tra green economye riaccentramento delle competenze. – 4. Segue: La “nuova” governancedelle politiche territoriali. – 5. Rilievi conclusivi alla luce di riforme possibili e in atto.
1. Premessa.
I recenti e meno recenti eventi alluvionali (solo per fare alcuni esempi, si ricordino la tragedia che ha colpito la città di Genova nell’ottobre del 2014 ed i tristi episodi che hanno riguardato le città del nord Italia nel 1994 e nel 2000), non possono lasciare indifferente il giurista pubblicista, che neppure può limitarsi a guardare da lontano il dibattito sulle cause che li hanno provocati[2].
Oggi, più che in passato, e cioè in un tempo in cui le mutazioni climatiche non si avvertivano così tanto, quello della difesa del territorio è diventato “il problema dei problemi” che è necessario risolvere. E ciò a maggior ragione nella misura in cui non si voglia mettere in gioco la tutela della principale sede della convivenza civile[3] – vale a dire la città –, che qui viene presa in considerazione nelle debolezze della sua “sicurezza ambientale”.
Si pensi del resto che, secondo il Rapporto di sintesi sul dissesto idrogeologico pubblicato ogni anno dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA)[4], in Italia alla fine del 2015 la popolazione esposta a rischio alluvioni è risultata pari al 3,2% nello scenario a pericolosità idraulica elevata, al 10% nello scenario a pericolosità media e al 15,2% nello scenario a bassa pericolosità, essendo inoltre confermato rispetto agli anni precedenti che i valori più elevati di popolazione a rischio medio di alluvioni si registrano tra le regioni del nord. Si aggiunga che i beni culturali a rischio alluvioni sono stati 12.563 (6,6%) nello scenario a pericolosità idraulica elevata, 29.005 (15,2%) nello scenario a pericolosità idraulica media e 40.454 (21,2%) nello scenario a pericolosità bassa. Per la loro salvaguardia questi ultimi dati assumono particolare rilevanza, tenuto conto che un evento alluvionale provoca danni inestimabili e irreversibili al patrimonio delle città.
Parliamo evidentemente di un territorio, quello italiano, ormai caratterizzato da una condizione di intrinseca fragilità, dovuta alla sua cementificazione eccessiva e ad inadeguate politiche ambientali, che sembrano tra l’altro rivelare una scarsa consapevolezza del fatto che gli spazi urbani soddisfano numerosi bisogni del vivere in comunità perché sono funzionali al suo benessere.
Una situazione di pericoloso degrado dell’aspetto fisico del territorio, dunque, che a ben vedere trova tra le sue principali cause la graduale disaffezione e disattenzione dei cittadini verso spazi che finiscono per essere percepiti come luoghi di nessuno, anziché luoghi di tutti[5], quando invece la città più di ogni altro posto necessiterebbe di particolare attenzione mediante un buon funzionamento quotidiano del complessivo sistema istituzionale – sul piano della formulazione delle regole e del loro rispetto[6] – anche sotto lo specifico profilo della sicurezza ambientale.
2. Rischio territoriale e pianificazione.
Il problema della identificazione dei “rischi territoriali”, e dei conseguenti interventi pubblici volti a porvi rimedio, è stato tradizionalmente configurato quale problema che trova nel diritto dell’ambiente la sua sede naturale. In questo settore hanno infatti preso forma interventi di protezione giuridicamente rilevanti, parametrati sull’utilizzo dello strumento tipico del diritto del governo del territorio: quello di pianificazione[7].
Si tratta di rischi che sono sovente frutto di una post-modernità che ne enfatizza i segnali sino a porsi quale “società globale della prevenzione e della precauzione”[8]: occorre infatti intervenire in situazioni spesso caratterizzate da incertezze tali da rendere indeterminato lo stesso “potenziale” degli accadimenti futuri, in ragione di quella “sorpresa ecologica” con cui oggi la società convive[9] e che tende a divenire l’ordinaria condizione in cui vengono assunte le decisioni amministrative[10].
Le osservazioni che precedono non sono di poco conto. In primo luogo perché sospingono a ricordare come gli stessi concetti di “prevenzione” e “precauzione”, intimamente collegati a quello di “rischio”, abbiano ricevuto – dall’art. 174 T.C.E. prima, e dall’art. 191 T.F.U.E. poi – opportuna collocazione tra i principi fondanti la politica dell’Unione europea in materia ambientale, al punto da poter essere a buon diritto considerati quali regole “forti” dell’ordinamento europeo capaci di orientare e condizionare dall’interno le scelte d’indirizzo politico dell’Unione e dei suoi Stati membri[11]. D’altra parte, la decisione sul livello dei rischi che un’intera società intende sopportare – evidente conseguenza dell’applicazione dei suddetti principi – non è questione meramente scientifica, bensì soprattutto di tipo politico-amministrativo[12], cosa che – come dicevamo – dimostra come il contributo del giurista sia imprescindibile.
In secondo luogo, esse conducono a riflettere sul fatto che, se è soprattutto nel diritto dell’ambiente che ha preso le mosse l’elaborazione della nozione di “rischio per il territorio”, questa circostanza ha tuttavia fatto emergere la delicata questione relativa agli strumenti ed ai metodi con cui le autorità preposte alla pianificazione urbanistica debbano tener conto di un catalogo di rischi – e delle conseguenti strategie in un’ottica precauzionale e preventiva – che sono stati individuati in una sede diversa da quella urbanistica.
Sotto questo punto di vista, fin dal 1989, con la legge n. 183, è stata riposta particolare fiducia nel piano di bacino. Il piano di bacino “idrografico”, che con il d.lgs. 152 del 2006 (Codice dell’ambiente), è diventato piano di bacino “distrettuale” alla luce di un’articolazione su distretti e non più sui bacini dei singoli fiumi, viene predisposto dalle Autorità di bacino distrettuale, con il compito di condizionare lo sviluppo urbanistico nel territorio di competenza dei vari comuni appartenenti al medesimo distretto in relazione all’intensità del rischio idrogeologico accertato.
L’art. 65 del Codice dell’ambiente lo definisce come “piano territoriale di settore” nonché “strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo e la corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato”[13]. È dunque il prodotto di un’attività di pianificazione plurifunzionale, con un carattere fortemente cogente: qualcuno ha in effetti parlato di “super piano” per il suo “imporsi” alla pianificazione territoriale ed urbanistica, alle altre pianificazioni di settore e talvolta anche direttamente ai cittadini privati[14].
In effetti, l’assetto idrogeologico costituisce ambito di competenza di diversi organi di governo e autorità. Tale materia è oggetto di una regolazione multilivello, con il coinvolgimento di una pluralità di figure istituzionali, rispetto alla quale la pianificazione territoriale e urbanistica si inserisce spesso con un ruolo di recepimento delle prescrizioni adottate, non solo al momento dell’elaborazione dei piani volti alla regolamentazione del territorio, ma tutte le volte in cui le previsioni in materia impongano una variante ai piani territoriali[15].
Come ha avuto modo di precisare recentemente la giurisprudenza amministrativa, le previsioni del piano di bacino producono effetti sugli usi del territorio e delle risorse naturali e sulla pianificazione urbanistica anche di livello attuativo, nonché su qualsiasi pianificazione e programmazione territoriale insistente sulle medesime aree. Nelle suddette aree devono dunque essere resi compatibili con le relative prescrizioni tutti gli atti di pianificazione, di concessione, autorizzazione, nulla osta ed equivalenti di competenza di province, comuni, comunità montane e le altre pubbliche amministrazioni[16].
D’altra parte, si noti che, con riferimento alla pianificazione di bacino, proprio il giudice amministrativo ha avuto occasione di effettuare un’applicazione molto rigorosa del principio di precauzione[17], riconoscendo – in ragione dei rischi per la sicurezza pubblica – la “rilevanza autonoma” delle norme del piano che individuano le caratteristiche d’instabilità idrogeologica di un’area[18]. Il loro richiamo ha costituito ad esempio elemento di per sé idoneo a fondare un diniego di permesso di costruire, bypassando il parere favorevole reso dagli organi consultivi per gli ambiti urbanistici ed ambientali[19].
In questo tipo di pianificazione vengono in particolare rilievo gli elementi di tipo conoscitivo: si tenga del resto presente che anche nei Rapporti ISPRA viene ribadita la centralità dell’attività conoscitiva ai fini degli interventi contro il rischio idrogeologico.
In effetti, con riferimento al piano stralcio per l’assetto idrogeologico del fiume Po (il PAI PO) approvato nel 2001 (i piani stralcio sono tappa intermedia rispetto al piano di bacino vero e proprio), si sono riscontrati buoni risultati in termini di collaborazione istituzionale tra l’Autorità di bacino ed i comuni ai fini della prevenzione del rischio idrogeologico, mediante la previsione di una particolare procedura di aggiornamento dei rispettivi quadri territoriali di riferimento. I comuni devono infatti verificare la compatibilità dei loro strumenti urbanistici alle previsioni del PAI, procedendo alle eventuali varianti di adeguamento, ed i relativi elaborati tecnici innestano a loro volta un processo di ricaduta sul PAI, perché consentono di aggiornarne il quadro delle conoscenze di settore a scala di distretto[20].
3. I possibili rimedi alle inefficienze: tra green economy e riaccentramento delle competenze.
Viste le premesse, cosa dunque non ha funzionato e cosa non sta funzionando?
Qualche tempo fa è stato messo in rilievo come anello debole del sistema fossero probabilmente le competenze dell’Autorità che predispone il piano (a prevalente composizione statale-regionale): era infatti ente di programmazione che, a ben vedere, non aveva alcun potere di gestione concreta del piano, perché tutto era affidato agli enti locali, destinatari diretti delle sue disposizioni, che vi dovevano dare attuazione con i tempi e le modalità tipici dell’attività politica[21].
Sul punto va tuttavia rilevato il recente intervento legislativo operato dal provvedimento sulla c.d. green economy: si tratta della l. 28 dicembre 2015, n. 221, recante disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali (c.d. Collegato ambientale 2015).
Il suo art. 51, nell’ottica del superamento della situazione di stallo in cui l’operatività delle Autorità di bacino distrettuale versava a seguito del primo decreto correttivo al Codice dell’ambiente, ha riscritto l’art. 63 del d.lgs. 152/2006, ridefinendo la struttura organica delle Autorità e prevedendo altresì la necessità che le regioni istituiscano specifiche Autorità di bacino per i distretti idrografici il cui territorio coincide con il territorio regionale, sottoposte alle funzioni di indirizzo e di coordinamento del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Il tempo dirà se l’intervento legislativo ha sortito un qualche positivo effetto sul problema più sopra evidenziato.
È stato peraltro evidenziato un secondo rilevante difetto del sistema di difesa idrogeologica, considerato “troppo teorico” e difficilmente conciliabile (a parte isolati esempi virtuosi, come visto col PAI PO) con la scarsa cultura della difesa del suolo che in effetti caratterizza l’ente locale, spesso più preoccupato del dibattito politico che non dei problemi di natura tecnica che riguardano il suo territorio[22]. E le conseguenze si sono viste.
Quanto precede confermerebbe l’assunto di coloro che sostengono come, attualmente, il disegno della città non sia pienamente confacente alle esigenze di sicurezza urbana, intesa soprattutto come sicurezza ambientale[23].
In quale direzione è dunque orientato il sistema?
Si noti in primo luogo come la stessa recente legge sulla green economy non abbia mancato di farsi carico della mitigazione del rischio idrogeologico.
Si consideri infatti che l’art. 52, l. 221/2015 ha previsto una specifica provvista finanziaria per interventi di rimozione o demolizione di opere ed immobili realizzati abusivamente in aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato: si tratta di fondi stanziati direttamente in favore del Ministero dell’ambiente, del territorio e del mare per interventi da effettuarsi ad opera degli enti locali[24]. Inoltre, l’art. 54 è intervenuto sull’art. 1 del d.p.r. 380/2001 (Testo unico dell’edilizia), introducendo espressamente la necessità che il medesimo rispetti la normativa di tutela dell’assetto idrogeologico, e sull’art. 20, l. 241/1990, disponendo che il meccanismo del silenzio-assenso in esso previsto non possa operare – tra gli altri – per gli atti e procedimenti riguardanti la tutela dal rischio idrogeologico.
A parte queste osservazioni, l’impressione più generale è che in materia di pianificazione contro il rischio idrogeologico la normativa più recente abbia inteso mettere in movimento una sorta di “meccanismo riaccentratore” delle competenze, con un’inversione di tendenza rispetto alle discipline della fine dello scorso decennio inneggianti al federalismo, specie demaniale[25].
Quanto si va dicendo sembra essere confermato già dal d.lgs. 23 febbraio 2010, n. 49 e s.m.i., di attuazione della direttiva 2007/60/CE relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di alluvioni[26].
Scopo della direttiva è quello di istituire un quadro per la valutazione e la gestione dei rischi di alluvioni al fine di ridurre le conseguenze negative per la salute umana, l’ambiente, il patrimonio culturale e le attività economiche connesse, affrontando il problema della gestione dei rischi in modo complessivo e disciplinando gli interventi di breve, medio e lungo termine.
In attuazione della direttiva, il d.lgs. 49/2010, utilizzando come terminale di riferimento i distretti idrografici previsti dal Codice dell’ambiente, affida alle Autorità di bacino distrettuali il compito di svolgere quattro rilevanti attività: la valutazione preliminare del rischio di alluvione (art. 4), l’individuazione del conseguente rischio potenziale significativo (art. 5), la relativa mappatura (art. 6) ed infine la predisposizione dei piani di gestione del rischio di alluvione (art. 7)[27], che riguardano tutti gli aspetti della gestione del rischio. I piani prestano particolare attenzione agli obiettivi di prevenzione, protezione e preparazione che devono essere ovviamente rispettati nel settore urbanistico e di gestione locale dell’emergenza (art. 7, comma 6), alle regioni restando unicamente il compito di occuparsi della parte dei piani relativa al sistema di allertamento per il rischio idraulico ai fini di protezione civile (art. 7, comma 3, lett b).
È dunque stato affidato alle Autorità di bacino distrettuali il compito di svolgere le attività più rilevanti in materia, limitando di molto le competenze degli enti territoriali (regioni ed enti locali). Ed è stato nuovamente l’art. 51 del provvedimento sulla green economy a preoccuparsi di coordinare queste disposizioni con il Codice dell’ambiente, introducendo nell’art. 63, comma 10, d.lgs. 152/2006 l’elaborazione del piano di gestione del rischio di alluvioni tra gli specifici compiti delle Autorità di bacino, e nell’art. 117, la necessità che le suddette Autorità predispongano, nell’ambito dei piani di gestione costituenti articolazione interna dei piani di bacino distrettuale, il programma di gestione dei sedimenti a livello di bacino idrografico al fine di coniugare la prevenzione del rischio di alluvioni con la tutela degli ecosistemi fluviali[28].
4. Segue: La “nuova” governance delle politiche territoriali.
In secondo luogo, la principale preoccupazione che traspare dalla legislazione più recente non è tanto quella di reperire fondi per la salvaguardia del territorio, quanto piuttosto di “semplificare” ed “accelerare” sia la complessa governance delle politiche territoriali, troppo spesso attribuite ad una molteplicità di enti gestori, sia le procedure dei singoli lavori[29]. Di seguito alcuni dati normativi, tra i più significativi, a testimonianza di quanto si va dicendo.
Il d.p.c.m. 27 maggio 2014, ha istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri una “Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” (art. 1), al fine di garantire il necessario coordinamento degli interventi urgenti in materia, in modo da assicurare l’integrazione delle fasi relative alla programmazione e realizzazione concreta degli interventi di competenza dei diversi livelli di governo e di ogni altro soggetto pubblico e privato competente, nonché il razionale ed efficace utilizzo delle risorse disponibili (art. 2)[30].
Ancora, l’art. 10, comma 1, d.l. 91/2014 (c.d. Decreto competitività), convertito con modificazioni dalla l. 116/2014, ai fini di un sollecito svolgimento delle relative procedure, ha previsto il subentro dei Presidenti delle regioni, per il territorio di rispettiva competenza, in tutte le funzioni prima attribuite ai commissari straordinari delegati alla realizzazione degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico[31], completando in questo modo il percorso avviato dal d.l. 136/2013, convertito con modificazioni dalla l. 6/2014, attraverso la successione dei Presidenti di regione nella gestione dei fondi speciali prima attribuiti ai suddetti commissari, con il conseguente trasferimento ai bilanci regionali[32].
Infine, rilevanti novità provengono dal d.l. 133/2014 (c.d. Decreto Sblocca Italia) n. 133/2014, convertito con modificazioni dalla l. 164/2014.
Per l’art. 7, specificamente dedicato, tra l’altro, alla accelerazione degli interventi per la mitigazione del rischio idrogeologico, a partire dalla programmazione 2015 le risorse destinate al finanziamento degli interventi in materia sono utilizzate tramite accordo di programma sottoscritto dalla regione interessata e dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, che “definisce altresì la quota di cofinanziamento regionale”. Gli interventi sono “individuati” con d.p.c.m. su proposta del Ministro dell’ambiente (comma 2), il quale – si noti – avvalendosi dell’ISPRA e su parere favorevole dell’Autorità di distretto competente, provvede alla revoca anche parziale delle risorse assegnate alle regioni per la realizzazione di interventi che siano risultati difformi dalle finalità di mitigazione del rischio idrogeologico o per i quali non sia stato pubblicato il bando di gara o affidati i lavori al 30 settembre 2014 (comma 3).
La tendenza all’accentramento di queste disposizioni, che ragionevolmente si poteva immaginare come foriera di critiche da parte delle regioni[33], sembra essere confermata dalle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla regione Veneto nel gennaio del 2015 proprio nei confronti dei commi esaminati dell’art. 7, lamentando la violazione del principio di leale collaborazione, per non essere richiesto dal comma 2 il coinvolgimento regionale nella individuazione ministeriale degli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, nonché la manifesta irragionevolezza del comma 3 nella parte in cui prevede, in assenza di verifica concreta in contraddittorio con la regione, la revoca delle risorse ivi indicate.
La Corte costituzionale, con sentenza 13 aprile 2016, n. 83[34] ha peraltro ritenuto le due questioni non fondate. Non la prima, poiché “il coinvolgimento delle regioni può ritenersi implicitamente richiesto anche dalla disposizione impugnata”[35]; non la seconda, sia perché la partecipazione delle regioni sarebbe garantita per il tramite del parere obbligatorio delle Autorità di distretto (a composizione mista statale-regionale), sia comunque perché “in caso di revoca di risorse assegnate alle regioni e da tempo inutilizzate, le esigenze di leale collaborazione possono essere considerate recessive”[36].
Proseguendo nell’esame delle nuove disposizioni di rilievo per i temi qui trattati, si noti come vengano introdotte norme di semplificazione delle procedure espropriative per la realizzazione delle opere di mitigazione del rischio idrogeologico.
In particolare, ai sensi dell’art. 7, comma 5, i Presidenti delle regioni, per le occupazioni d’urgenza e per le espropriazioni delle aree occorrenti per l’esecuzione degli interventi, emanato il relativo decreto, “provvedono alla redazione dello stato di consistenza e del verbale di immissione in possesso dei suoli anche con la sola presenza di due rappresentanti delle Regioni o degli enti territoriali interessati, prescindendo da ogni altro adempimento”, evidentemente anche in assenza del proprietario.
Inoltre, ai sensi dell’art. 9, per i lavori d’importo compreso fino alla soglia comunitaria, costituisce “estrema urgenza” la situazione conseguente ad apposita ricognizione da parte dell’ente interessato che certifica come indifferibili gli interventi funzionali – tra l’altro – alla mitigazione dei rischi idraulici e geomorfologici del territorio ed è prevista l’applicazione di disposizioni di semplificazione amministrativa e accelerazione delle procedure come l’attenuazione degli oneri di pubblicazione dei bandi relativi alla realizzazione dei lavori.
5. Rilievi conclusivi alla luce di riforme possibili e in atto.
Da tutto quanto precede, ecco allora quelle che sembrano essere le parole d’ordine dell’odierno scenario istituzionale relativo alla mitigazione del rischio idrogeologico: accentramento delle competenze e semplificazione/accelerazione delle procedure.
Scelte opportune?
La prima probabilmente sì. Vi è infatti da chiedersi se non valga la pena di valorizzare le competenze statali in un settore tanto nevralgico per l’interesse nazionale come quello della difesa del suolo, in un’ottica di risistemazione dei rapporti tra Stato e regioni che si impone anche alla luce della nuova revisione del Titolo V della Costituzione. Il riferimento è al disegno di legge di riforma costituzionale, d’iniziativa governativa, recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione”, approvato definitivamente in seconda deliberazione con la maggioranza assoluta dei componenti della Camera il 12 aprile 2016 (C. 2613-D) ed attualmente in attesa di consultazione referendaria.
Se allo Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., spetta ad oggi la potestà legislativa esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”[37], con l’art. 31 del disegno di legge la citata lett. s) viene riformulata – per quanto qui interessa – in“tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici; ambiente ed ecosistema”, mentre viene aggiunta una lett. u) che affida alla legislazione esclusiva statale le “disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile”. Si consideri poi che, secondo la nuova formulazione dell’art. 116, comma 3, Cost., prevista dall’art. 30, viene introdotto un nuovo limite alla possibilità per le regioni di conseguire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie della lett. s), costituito dall’“equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio”[38].
A favore di una tendenza “centralista” nella tutela dell’ambiente sembra del resto essersi posta nuovamente[39] la Corte costituzionale con la recente sentenza 1° giugno 2016, n. 126[40] che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 311, 1° comma, d.lgs. 152/2006, n. 152, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 9, 24 e 32 Cost., nonché al principio di ragionevolezza, nella parte in cui attribuisce al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, e per esso allo Stato, la legittimazione all’esercizio dell’azione per il risarcimento del danno ambientale, escludendo la legittimazione concorrente o sostitutiva della regione e degli enti locali sul cui territorio si è verificato il danno.
La Corte ricorda di aver già ritenuto, che in materia “la scelta di attribuire all’amministrazione statale le funzioni amministrative trova una non implausibile giustificazione nell’esigenza di assicurare che l’esercizio dei compiti di prevenzione e riparazione del danno ambientale risponda a criteri di uniformità e unitarietà, atteso che il livello di tutela ambientale non può variare da zona a zona e considerato anche il carattere diffusivo e transfrontaliero dei problemi ecologici, in ragione del quale gli effetti del danno ambientale sono difficilmente circoscrivibili entro un preciso e limitato ambito territoriale [corsivo aggiunto]”[41].
Un intervento frazionato e diversificato su base micro-territoriale, prosegue il Collegio, contrasterebbe con l’esigenza di una tutela sistemica del bene: “tutela che, al contrario, richiede sempre più una visione e strategie sovranazionali, come posto in evidenza, oltre che dalla disciplina comunitaria, dall’ultima Conferenza internazionale sul clima tenutasi a Parigi nel 2015, secondo quanto previsto dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”.
Sotto altro punto di vista, si è visto come un sistema di gestione dei rischi affidato unicamente agli enti locali si sia rivelato non del tutto efficiente (benché vada sottolineata l’importanza di un’imprescindibile funzione che essi dovrebbero comunque mantenere: quella di trasmissione delle conoscenze del loro territorio, come l’esperienza del PAI PO insegna). Né si pensi che ciò costituisca un vulnus al principio di sussidiarietà: è la natura stessa delle funzioni che ne giustifica l’ascesa verso l’alto, in un’ottica di adeguatezza!
L’opportunità di un ambito sovra-comunale nella gestione del rischio idrogeologico sembra essere confermata anche dall’ampio dibattito avente ad oggetto la soppressione delle province, prevista dal disegno di legge di riforma costituzionale da ultimo citato.
La l. 56/2014 (c.d. Legge Delrio), nel dettare disposizioni in materia di città metropolitane, si pone come un “ponte” fra la Costituzione esistente e quella futura, senza comunque violare l’ordinamento costituzionale attualmente in essere[42].
L’art. 1, comma 44, della legge ha attribuito a queste ultime le “funzioni fondamentali” delle province, quelle attribuite alla città metropolitana nell’ambito del processo di riordino delle funzioni delle province ai sensi dei commi da 85 a 97 del medesimo art. 1, nonché quelle di pianificazione territoriale generale e di adozione e aggiornamento annuale di un piano strategico triennale del territorio metropolitano, che costituisce atto di indirizzo per l’ente e per l’esercizio delle funzioni dei comuni e delle unioni di comuni compresi nel predetto territorio[43].
Le città metropolitane sono definite enti territoriali di area vasta aventi tra le proprie finalità istituzionali la cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano (art. 1, comma 2)[44], finalità che costituiscono la loro caratteristica fondamentale prima ancora delle funzioni e che diventano il parametro di legittimità e la base giuridica di ogni attività posta in essere dalla città nell’esercizio delle sue funzioni[45]. È soprattutto in questo che la città metropolitana si differenzia dalla vecchia provincia, rispetto alla quale assume un assetto e ruolo rinnovati nell’architettura istituzionale dell’ordinamento nazionale degli enti locali, come ha recentemente avuto modo di precisare il Consiglio di Stato[46].
Proprio perché il compito dell’ente metropolitano è definire un progetto di sviluppo strategico del suo territorio, “la città non può trovare nei comuni, in basso, e nella regione, in alto, i “confini” istituzionali della propria attività, ma può e deve intessere relazioni con istituzioni e soggetti che vanno anche oltre la stessa dimensione statale”
[1] Professore associato di Diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Brescia.
[2]Così, efficacemente, A. Abrami, La sistemazione idrogeologica del territorio nell’attualità, in Riv. dir. agrario, 2014, f. 4, 1.
[3]Ancora A. Abrami, op. loc. cit., 1-2.
[4]Il Rapporto è consultabile su www.isprambiente.gov.it .
[5]C. Iaione, La città come bene comune, in Aedon, n. 1/2013, 1.
[6]M. Cammelli, Città d’arte tra autonomia e regimi speciali, in Aedon, n. 2/2015, n. 1.
[7]J. Morand-Deviller, Droit de l’urbanisme, Dalloz (Parigi), 2008, 7 ss.
[8]R. Lombardi, La tutela delle posizioni giuridiche meta-individuali nel processo amministrativo, Torino, 2008, 2 ss., che sul punto richiama U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, trad. it., Roma, 2000, passim.
[9]M. Cafagno, principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, 245-246.
[10]F. de Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005, 126.
[11]R. Ferrara, I principi comunitari della tutela dell’ambiente, in Aa.Vv., La tutela dell’ambiente, a cura di R. Ferrara, Torino, 2006, 14, che di precauzione e prevenzione sottolinea un ruolo egemone, nel complesso dei valori positivi europei della tutela ambientale, reso evidente dalla stessa ordinazione su scala gerarchica dei principi all’interno della norma del Trattato. Sulla portata di questo principio, considerata comunque ben più ampia rispetto al mero settore del diritto dell’ambiente, A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006, 72 ss.
[12]Sul punto, G. Manfredi, Cambiamenti climatici e principio di precauzione, in Riv. quadrim. dir. amb., 2011, 35-36, che da questa conclusione ricava altresì la necessità che ad occuparsi di siffatte questioni siano soggetti dotati di una legittimazione derivante dall’intera società.
[13]Il piano di bacino, pertanto, ha sostanzialmente tre funzioni: una funzione conoscitiva; una funzione normativa e prescrittiva; una funzione programmatica, che fornisce le possibili metodologie d’intervento finalizzate alla mitigazione del rischio. Sul punto, già Corte cost., 30 luglio 2009, n. 254, in Giur. cost., 2009, 3479 e, successivamente, T.a.r. Molise, sez. I, 9 marzo 2012, n. 92, in www.ambientediritto.it ..
[14]Su questi temi, S. Cimini-R. Di Pace, La gestione delle risorse idriche e la tutela del suolo dal rischio idrogeologico, in Aa.Vv., Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da R. Ferrara-M.A. Sandulli, Vol. II. I procedimenti amministrativi per la tutela dell’ambiente, a cura di S. Grassi-M.A. Sandulli, Milano, 2014, 521 ss., S. Civitarese Matteucci, Governo del territorio e ambiente e E. Braido-A. Farì, Difesa del suolo e tutela delle acque, entrambiin Aa.Vv., Diritto dell’ambiente, a cura di G. Rossi, Torino, 2015, rispettivamente, 235 ss. e 330 ss. Sia altresì consentito rinviare a P. Lombardi, La difesa del suolo, in Aa.Vv., Trattato di diritto dell’ambiente cit., Vol. III. La tutela della natura e del paesaggio, a cura di A. Crosetti, Milano, 2014, 667 ss.
[15]Così T.a.r. Puglia, Bari, sez. III, 9 luglio 2015, n. 1002, in www.giustizia-amministrativa.it .
[16]T.a.r. Sardegna, sez. II, 13 gennaio 2014, n. 18, in Foro amm., 2014, 234.
[17]Interessante è altresì la particolare applicazione del “principio di responsabilità” che ha effettuato in tema di rischio idrogeologico l’art. 67 del Codice dell’ambiente. Quest’ultimo prevede che le Autorità di bacino debbano approvare piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico; il comma 6 stabilisce che le regioni devono predisporre un piano di adeguamento delle infrastrutture e per la concessione di incentivi finanziari per la rilocalizzazione delle attività produttive e delle abitazioni private, concludendo che, qualora “i soggetti interessati non si avvalgano della facoltà di usufruire delle predette incentivazioni, essi decadono da eventuali benefici connessi ai danni derivanti agli insediamenti di loro proprietà in conseguenza del verificarsi di calamità naturale”. Come ha avuto modo di precisare il T.a.r. Piemonte, sez. II, con la sentenza 28 novembre 2013, n. 1277 (inwww.ambientediritto.it), la disposizione non impone comunque l’obbligo di rilocalizzazione: conseguentemente, chi non usufruisce degli incentivi perde la facoltà di ottenere, nel futuro, indennizzi per danni che dovessero derivare sui loro immobili da eventi naturali, ma non verrà espropriato.
[18]Ne consegue che il rilascio dei titoli edilizi è subordinato alla verifica di compatibilità non solo con la disciplina urbanistica ma anche con la disciplina del piano di bacino (T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, 8 maggio 2013, n. 441, in www.ambientediritto.it).
[19]T.a.r. Liguria, sez. I, 28 dicembre 2005, n. 1874, in Foro amm. T.A.R., 2005, 3869, Id., 17 marzo 2006, n. 252, ivi, 2006, 933, Id., sez. II, 14 aprile 2009, n. 772,ivi, 2009, 1058. In particolare, il divieto di nuove edificazioni posto dal piano di bacino, che costituisce evidentemente atto necessitato (T.a.r. Sicilia, Palermo, sez. III, 31 agosto 2011, n. 1571, in www.ambientediritto.it), deve essere riferito all’insediamento sul territorio di nuove strutture in grado di alterare la stabilità del suolo e il deflusso delle acque. Non può, invece, essere considerata nuova edificazione la sistemazione di locali già esistenti, neppure se da tale sistemazione derivi una diversa destinazione d’uso o la modifica degli indici edificatori di zona (T.a.r. Lombardia, Brescia, sez. II, 8 maggio 2013, n. 441 cit.).
Degna di nota è anche Cons. Stato, sez. V, sent. 10 settembre 2009, n. 5424, in Foro amm. C.d.S., 2009, 2015, che ha riconosciuto come legittimo il diniego del nulla-osta per la realizzazione di un complesso edilizio in un terreno ricadente in zona sottoposta a vincolo idrogeologico, disattendendo un parere favorevole che era stato rilasciato per la stessa area, in sede di esame di un piano di lottizzazione approvato circa 30 anni prima, ma rimasto ineseguito. La circostanza che un parere favorevole fosse stato espresso in precedenza, infatti, non può esaurire il potere-dovere dell’amministrazione di verificare l’attualità e la concretezza dell’interesse pubblico, tanto più che, essendo trascorsi circa trent’anni dal precedente parere, era più che ragionevole ritenere che i luoghi potessero essere stati modificati o trasformati e che non potesse essere considerato cristallizzato un sorta di affidamento, definitivo ed immutabile. D’altra parte, più di recente, Cons. Stato, sez. IV, 13 ottobre 2014, n. 5045 (in www.giustizia-amministrativa.it) ha ribadito che la sussistenza di un vincolo idrogeologico è circostanza preclusiva della realizzazione di ogni attività che pregiudichi la stabilità dei suoli e l’equilibrio idrogeologico della zona vincolata, in quanto la finalità del vincolo è quella di prevenire smottamenti e movimenti franosi dei suoli. Ancora, T.a.r. Toscana, sez. III, 7 ottobre 2015, n. 3 (in www.giustizia-amministrativa.it), ha ricordato che per le opere abusive in zona sottoposta a vincolo idrogeologico il rilascio della concessione in sanatoria è espressamente subordinato al parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela del vincolo. Infine, per un provvedimento di sospensione di un permesso di costruire carente del presupposto parere che doveva essere rilasciato ai sensi del piano di assetto idrogeologico dall’Autorità di bacino regionale del Lazio, trattandosi di area che risultava, ai sensi del depositato certificato di destinazione urbanistica, “area di attenzione per pericolo di inondazione”, T.a.r. Lazio, Latina, sez. I, ord. 13 settembre 2012, n. 296, in www.giustamm.it.
[20]Su questo procedimento, sia consentito rinviare a P. Lombardi, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati: la difesa del suolo quale archetipo di virtuose forme di cooperazione tra distinti ambiti di amministrazione, in Riv. giur. edil., 2010, 106 ss.
[21]A. Abrami, La sistemazione idrogeologica del territorio nell’attualità cit., 9.
[22]A. Abrami, op. loc. cit., 10.
[23]Si veda sul punto la relazione di C. Videtta, La sicurezza nella città e la sicurezza della città, svolta in occasione del medesimo evento dal quale ha avuto origine questo scritto.
[24]A sua volta, l’art. 55, al fine di consentire la celere predisposizione del piano nazionale contro il dissesto idrogeologico, favorendo le necessarie attività progettuali, ha istituito, presso il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, il Fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico.
[25]Su questa specifica disciplina, sia consentito rinviare a P. Lombardi, Il governo del territorio tra politica e amministrazione, Milano, 2012, 286 ss.
[26]In materia, S. Cimini-R. Di Pace, La gestione delle risorse idriche e la tutela del suolo dal rischio idrogeologico cit., 521 ss. e F. Lettera, Le inondazioni: il rischio di alluvione: direttiva 2007/60/CE e diritto interno, in Riv. amm. Rep. it., 2013, 237 ss.
[27]Il termine di pubblicazione dei piani era fissato al 22 dicembre 2015. Sono, ad esempio, del 17 dicembre 2015 la deliberazione n. 4/2015, con cui il Comitato istituzionale dell’Autorità di bacino del fiume Po ha adottato il Piano di Gestione del Rischio di Alluvioni del Distretto Idrografico Padano, e la deliberazione n. 231/2015, con la quale il Comitato Istituzionale dell’Autorità di bacino del fiume Arno ha adottato il Piano di gestione del rischio di alluvioni del Distretto Idrografico dell’Appennino Settentrionale.
[28]Si noti che, per espressa previsione del novellato art. 117, i programmi di gestione dei sedimenti concorrono all’attuazione dell’art. 7, comma 2, del decreto c.d. Sblocca Italia di cui si sta per dare conto nel testo, che individua come prioritari, tra le misure da finanziare per la mitigazione del dissesto idrogeologico, gli interventi integrati che mirino alla riduzione del rischio e alla tutela e recupero degli ecosistemi e della biodiversità.
[29]F. Manganaro, Le novità del decreto Sblocca Italia – Servizio idrico integrato e mitigazione del dissesto idrogeologico, in Giur. it., 2015, 1, 234 ss. Per l’approfondimento della normativa in questione, anche M. Zortea, Dissesto idrogeologico: le novità nel d.l. n. 91/2014 e n. 133/2014, in Ambiente e sviluppo, 2014, 791 ss.
[30]Si noti ad esempio che la suddetta Struttura di missione, ai sensi dell’art. 7, comma 8, del decreto c.d. Sblocca Italia, deve essere necessariamente coinvolta nella distribuzione della somma in esso prevista per fronteggiare le situazioni di criticità ambientale delle aree metropolitane interessate da fenomeni di esondazione ed alluvione.
[31]Il comma 11-bis dell’articolo in esame è altresì intervenuto nel prorogare dal 22 giugno 2015 al 22 dicembre 2015 il termine di pubblicazione dei piani di gestione del rischio di alluvione.
[32]Proprio l’entrata in vigore dell’art. 10 d.l. n. 91 del 2014 ha consentito alla Corte costituzionale di dichiarare, con sentenza 26 febbraio 2015, n. 17 (in Giur. cost., 2015, 1, 124), la cessazione della materia del contendere con riguardo alla questione di legittimità costituzionale promossa dalla regione Campania nei confronti delle disposizioni del d.l. 136/2013 che hanno previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2015, l’automatico subentro delle regioni nei rapporti attivi e passivi e nelle attività pendenti dei commissari delegati per la prevenzione del rischio idrogeologico. Infatti, nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, il citato art. 10 è intervenuto – a giudizio della Corte – in modo pienamente satisfattivo delle ragioni della ricorrente, garantendo che le procedure di subentro nelle gestioni commissariali non gravino in alcun modo sui bilanci regionali e così preservando l’autonomia amministrativa e finanziaria regionale ed il rispetto del principio di corrispondenza tra risorse e funzioni attribuite all’ente territoriale.
[33]Dalla lettura delle disposizioni in commento aveva già previsto la possibile insorgenza di conflitti tra Stato e regioni F. Manganaro, op. loc. cit., 234 ss.
[34]In www.giurcost.org..
[35]Punto 2, 4° capoverso, della parte in diritto.
[36]Punto 4.2, 1° capoverso, della parte in diritto. Per un’ulteriore pronuncia, questa volta di incostituzionalità, che ha riguardato l’art. 7 del decreto Sblocca-Italia sotto il profilo della violazione della competenza legislativa primaria della provincia autonoma di Trento in materia di organizzazione del servizio idrico nella parte in cui menziona le province autonome, accanto alle regioni, tra i soggetti chiamati ad assegnare agli enti locali un termine per l’adesione agli enti di governo dell’ambito territoriale ottimale (ATO), si veda la di poco precedente sentenza Corte cost. 10 marzo 2016, n. 51, in www.giurcost.org.
[37]Sul punto, ancora opportunamente, A. Abrami, op. loc. cit., 12.
[38]Sottolinea in materia di ambiente lo spirito centralista della riforma costituzionale R. Bifulco, La tutela dell’ambiente alla luce della nuova riforma costituzionale e dell’abolizione delle province, Relazione tenuta al Convegno dell’Associazione Italia di Diritto dell’Ambiente sul tema “Il Testo unico dell’ambiente a dieci anni dalla sua approvazione” (Roma, 9-10 giugno 2016), in corso di pubblicazione. L’Autore ricorda come del resto la Corte costituzionale, fin dalla sentenza 14 novembre 2007, n. 378 (in Foro amm. C.d.S., 2007, 3017), abbia precisato come la “disciplina unitaria del bene complessivo ambiente”, rimessa in via esclusiva allo Stato, prevalga su quella dettata dalle regioni o dalle province autonome in materie di competenza propria ed in riferimento ad altri interessi. Su questo specifico punto, si vedano peraltro le considerazioni che stanno per essere riportate nel testo.
[39]Si veda la nota immediatamente precedente.
[41]Il riferimento è alla sentenza 23 luglio 2009, n. 235, in Foro amm. C.d.S., 2009, 1622.
[42]F. Pizzetti, La legge Delrio: una grande riforma in un cantiere aperto, il diverso ruolo e l’opposto destino delle città metropolitane e delle province, in AIC Associazione Italiana dei Costituzionalisti, n. 3/2015, 3. Per alcune riflessioni critiche sulla legge Delrio, P. Pantalone, Città metropolitane e riordino degli enti di area vasta: forse è la volta buona?, in Dir. economia, 2015, 121 ss.
La Corte costituzionale, con la sentenza 26 marzo 2015, n. 50 (consultabile sul sito www.giurcost.org con l’elenco degli scritti di approfondimento in materia) ha già avuto modo di farne salvi i contenuti quanto all’istituzione e alla disciplina delle città metropolitane, all’individuazione del relativo territorio ed al modello di governo di secondo grado ivi contemplato. Si rilevi poi che, con ordinanza del T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III, 28 aprile 2016 n. 841 (in www.lexitalia.it), è stata sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 126, 128, 129, 130 del c.p.a. (d.lgs. 104/2010), in relazione agli artt. 3, 24 e 114 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono la loro applicabilità anche alle elezioni per la costituzione del consiglio metropolitano, introducendo un trattamento processuale diverso nel caso di impugnazione delle elezioni delle città metropolitane rispetto alle elezioni delle province.
[43]Sulle funzioni della città metropolitana, F. Pizzetti, La riforma degli enti territoriali. Città metropolitane, nuove province e unione di comuni, Milano, 2015, 81 ss. e Aa.Vv., Il nuovo governo dell’area vasta. Commento alla legge 7 aprile 2014, n. 56, a cura di A. Sterpa, Napoli, 2014, 137 ss.
[44]Sulla rilevanza dell’area vasta nella funzione di pianificazione riconosciuta dalla legge Delrio alla città metropolitana, G.F. Cartei, Il problema giuridico del consumo del suolo, in Riv. it. dir. pubb. comunit., 2014, 1291 ss.
[45]F. Pizzetti, Le città metropolitane per lo sviluppo strategico del territorio: tra livello locale e livello sovranazionale, in www.federalismi.it e Id., La legge Delrio: una grande riforma in un cantiere aperto, il diverso ruolo e l’opposto destino delle città metropolitane e delle province cit., passim.
[46]Il riferimento è a Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2016, n. 1653, in www.lexitalia.it.