Introduzione
Annamaria Poggi1
1. Il superamento del bicameralismo paritario: il filo rosso di tutti i tentativi di riforma costituzionale
Il superamento del c.d. bicameralismo perfetto costituisce indubbiamente una costante delle varie fasi (dei tentativi) del riformismo istituzionale nel nostro Paese. Le ragioni di un tale superamento, mentre hanno trovato costantemente radice nella volontà di rendere più efficiente la forma di governo parlamentare, si sono piegate da un certo punto in poi, e precisamente dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, alle esigenze del decentramento secondo motivazioni diverse, quando connesse all’idea di una differente legittimazione del Parlamento, quando, invece all’esigenza di introdurre la logica autonomistica nel procedimento legislativo.
Basta ripercorrere velocemente le varie e differenti fasi dei tentativi di riforma sul punto per cogliere la storia dell’intreccio tra gli scopi sopra evidenziati.
Nella relazione della Commissione Bozzi (presentata il 25 gennaio 1985) le due Camere venivano differenziate funzionalmente, assegnando alla Camera dei deputati una prevalenza nell’esercizio della funzione legislativa e al Senato una prevalenza nell’esercizio della funzione di controllo.
Nella legislatura successiva, la X, venne discusso un Progetto di revisione costituzionale che andava sostanzialmente nella stessa direzione e che introduceva una soluzione procedimentale ispirata al c.d. “principio della culla” in base al quale tutti i progetti di legge, non definiti tassativamente bicamerali, avrebbero dovuto essere esaminati e approvati da una sola Camera (quella di presentazione), mentre all’altra veniva riservata la facoltà di richiedere, con deliberazione a maggioranza semplice, il riesame del testo approvato. Contestualmente si introduceva, anche, un principio di specializzazione della competenza normativa delle due Camere, connessa con il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni.
L’ultimo progetto di riforma curvato quasi completamente sul nesso tra superamento del bicameralismo perfetto e razionalizzazione della forma di governo parlamentare è quello elaborato dalla Commissione De Mita-Jotti che puntava essenzialmente a restringere il rapporto fiduciario ad una sola delle due Camere che avrebbe eletto e revocato il Presidente del Consiglio dei ministri.
Il Comitato Speroni, insediato il 14 luglio 1994 (in piena crisi di legittimazione del sistema dei partiti della c.d. Prima Repubblica e con l’emersione prorompente della Lega Nord quale novità del panorama politico italiano) introduce pesantemente il tema della differenziazione di “legittimazione” tra le due Camere, lasciando sullo sfondo il tema della forma di governo.
La Commissione bicamerale D’Alema (il cui progetto di legge di riforma costituzionale venne approvato definitivamente il 4 novembre del 1997, per poi naufragare quando le profonde differenze delle vedute fra le forze politiche provocarono l’interruzione dell’iter del processo di riforma il 9 giugno 1998) tornava all’idea di differenziazione funzionale, assecondando nel contempo le ragioni delle autonomie locali.
Veniva, infatti, profondamente modificato il procedimento legislativo, prevedendo tre percorsi diversi, a seconda della tipologia di legge.
In primo luogo si prevedevano le leggi bicamerali paritarie la cui approvazione avrebbe dovuto avvenire da parte di entrambe le due Camere su un identico testo.
La novità era costituita dalle c.d. leggi bicamerali non paritarie e cioè leggi in materie espressamente enumerate, di interesse per il sistema delle autonomie, che dovevano essere approvate da entrambe le Camere, ma in caso di introduzione di modifiche da parte del Senato, la Camera avrebbe dovuto deliberare in via definitiva. Inoltre solo per l’esame di tali leggi il Senato deliberava in sessione speciale a composizione “mista”, integrato da 200 consiglieri regionali, provinciali e comunali, eletti da appositi collegi elettorali in ciascuna regione in numero pari ai rispettivi senatori.
Infine si prevedevano le leggi monocamerali, di competenza della sola Camera dei deputati.
Si trattava con tutta evidenza di una mediazione politica tra le esigenze di funzionalità del parlamentarismo (leggi monocamerali, fiducia monocamerale) e la richiesta di partecipazione dei territori alle decisioni politiche statali maggiormente influenti sulle competenze di questi ultimi. Ciò spiega il motivo il testo prevedeva l’elezione a suffragio universale e diretto di entrambe le Camere e il Senato continuava ad essere eletto su “base regionale”, assegnando a ciascuna regione un certo numero fisso di senatori indipendentemente dalla relativa popolazione. Lo scopo, infatti, non era quello di rappresentare al centro i territori, bensì quello di portare al centro le istanze dei territori quando ve ne fosse stato bisogno, e cioè in relazione a provvedimenti normativi incidenti sul sistema autonomistico.
Va ancora rammentato che per la prima nella storia repubblicana, un’ipotesi di riforma costituzionale veniva pensata e accompagnata da un imponente impianto legislativo (le c.d. riforme Bassanini) indirizzato agli stessi obiettivi.
La revisione del Titolo V di li a poco affronterà alcuni nodi, lasciandone completamente insoluti altri e, in particolare quello del bicameralismo e del procedimento legislativo, anche per l’ostinata e pervicace resistenza dei Senatori a vedersi “declassati” in una Camera cui, evidentemente, non attribuivano la stessa autorevolezza della Camera dei deputati.
Si trattò di una revisione costituzionale poco “pensata” e cui si attribuì più peso di quanto avrebbe potuto averne, considerato che essa era immaginata conchiusa in se stessa e ininfluente sull’assetto statale centrale. Ad essa, in sostanza, si poteva rivolgere la stessa critica che Massimo Severo Giannini aveva rivolto all’impianto del d.P.R 616 del 1977: voler fortificare il sistema autonomistico senza “allegerire” il centro di compiti e funzioni. Ad un indubbio rafforzamento del sistema autonomistico (potere legislativo e amministrativo), infatti, non corrispose un’incidenza altrettanto significativa sugli snodi di tenuta del sistema, tra cui la riforma del bicameralismo ovvero dei processi legislativi su materie statali di interesse del sistema stesso. Inoltre, ciò che è più grave, si giunse ad una revisione costituzionale imposta dall’allora maggioranza governativa di centro sinistra, che diede il via all’idea di riforme costituzionali di “parte”.
Così a distanza di qualche anno, nel 2005, l’allora maggioranza di centro destra giunse all’approvazione parlamentare di un testo di legge costituzionale recante “Modifiche alla parte II della Costituzione”(A.S. 2544) che si componeva di 57 articoli ed affrontava varie tematiche relative alla parte seconda della Costituzione: Parlamento, Presidente della Repubblica, forma di governo, riparto attribuzione tra Stato, Regioni ed enti locali, composizione della Corte Costituzionale.
L’approvazione definitiva in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi, consentì la sottoposizione del testo al referendum popolare, il cui esito fu di non conferma (i no all’approvazione della legge furono pari al 61,3% mentre i si al 38,7%). Si sarebbe trattato, in caso contrario, di una sorta di riscrittura di quasi tutta la Seconda Parte della Costituzione, sostanzialmente voluta da una sola coalizione politica.
Per quanto concerne il tema di interesse, veniva modificato profondamente il sistema del bicameralismo paritario in direzione di un diverso modello in cui la funzione politica di governo era demandata esclusivamente alla Camera dei deputati, mentre il secondo ramo del Parlamento, definito “Senato federale”, si caratterizzava quale raccordo tra Stato centrale e sistema delle autonomie. In particolare, per quanto riguarda il Senato, di esso si confermava l’elezione a suffragio universale e diretto su base regionale che avrebbe dovuto avvenire contestualmente all’elezione del rispettivo Consiglio regionale e i senatori sarebbero rimasti in carica fino all’elezione del successivo Consiglio regionale (pertanto il Senato nel suo complesso non avrebbe più avuto una durata predefinita, ma sarebbe stato soggetto a rinnovi parziali).
Per quanto, poi, riguardava il procedimento legislativo, veniva introdotto un criterio generale in base al quale il procedimento legislativo era di norma e in prevalenza monocamerale e tale per cui:
- la Camera dei deputati avrebbe esaminato i progetti di legge nelle materie (espressamente elencate nella Costituzione) di competenza legislativa statale esclusiva;
- il Senato federale avrebbe, invece, esaminato quelli concernenti la determinazione dei principi fondamentali nelle materie (indicate dalla Costituzione) di competenza legislativa concorrente tra Stato e Regioni.
L’esito del referendum, per un verso, e la necessità per l’altro di reintervenire sul Titolo V, questa volta evitando gli errori del passato, fecero si che solo l’anno successivo si giungesse alla stesura di un provvedimento (conosciuto come “bozza Violante”), che costituiva il testo unificato adottato dalla I Commissione Affari Costituzionale della Camera dei Deputati (3 ottobre 2007), frutto di una complessa mediazione intervenuta tra varie parti politiche.
Gli aspetti più salienti della riforma riguardavano la forma di Governo, la composizione e le funzioni del Parlamento e la previsione del Senato Federale.
In particolare il Senato aveva natura e funzioni di camera territoriale, non poteva votare la fiducia al Governo e non poteva essere sciolto dal Presidente della Repubblica. I senatori (ridotti a 180) avrebbero dovuto essere eletti dai Consigli regionali e dai Consigli delle autonomie locali (elezioni di secondo grado), tra i propri componenti, con voto limitato, al fine di garantire la rappresentanza delle minoranze.
Venivano poi previsti tre procedimenti per l’esercizio della funzione legislativa dello Stato.
Il primo (procedimento bicamerale paritario) avrebbe trovato applicazione solo per una limitata ed enumerata serie di provvedimenti, estranei all’indirizzo politico governativo. Il secondo (procedimento a prima lettura del Senato) veniva pensato per le leggi in materia di principi fondamentali della materia. I relativi progetti di legge, poi, sarebbero stati individuati dai Presidenti delle due Camere, d’intesa fra loro. Il testo approvato dal Senato federale sarebbe poi stato trasmesso alla Camera dei deputati, alla quale spettava l’esame in seconda lettura e l’approvazione in via definitiva, escludendo così ogni ipotesi di “navetta”). Il terzo, infine (procedimento a prevalenza di Camera)sarebbe stato applicato: in tutti gli altri casi.
La discussione parlamentare si interruppe alla Camera il 13 novembre 2007, a causa dello scioglimento anticipato della legislatura.
Nel 2008 si riavviava un altro iter parlamentare che condusse nel 2012 all’approvazione di un testo unificato il 18 aprile 2012, (c.d. “testo ABC”), successivamente modificato dalla I Commissione del Senato ed approvato il 29 maggio 2012.
L’Assemblea del Senato il 25 luglio 2012 approvò un testo che, tuttavia, in particolare per la parte relativa alla forma di governo e all’istituzione del Senato federale, si discostava dal testo sul quale le forze parlamentari avevano già raggiunto un’intesa che riduceva il numero dei parlamentari, superava il bicameralismo perfetto e rafforzava i poteri del Premier. Pertanto la discussione non ebbe più seguito.
2. La Commissione (dei saggi) per le riforme costituzionali e il superamento del bicameralismo paritario: la sintesi di un lungo percorso.
Il lungo percorso sopra rammentato consente di meglio comprendere la scelta operata sul tema dalla Commissione per le riforme costituzionali istituita dal Presidente Letta l’11 giugno 2013. E cioè la scelta di sistematizzare il dibattito decennale sul superamento del bicameralismo attraverso la configurazione di più alternative possibili, a volte anche configgenti e rispetto alle quali solo la politica è legittimata ad effettuare una scelta.
Riporto di seguito il passo della Relazione finale da cui emergono in sintesi tali alternative:
“1. La Commissione si è innanzitutto pronunciata, con un’opinione unanime, in favore del superamento del bicameralismo paritario. A tal fine sono state prospettate due ipotesi: il bicameralismo differenziato e il monocameralismo.
2. È largamente prevalente l’ipotesi di introdurre una forma di bicameralismo differenziato per attribuire al Senato della Repubblica la rappresentanza degli enti territoriali, intesi sia come territorio che come istituzioni, e alla Camera dei Deputati il rapporto fiduciario e l’indirizzo politico. Questa scelta è frutto di due motivazioni : a) la necessità di garantire al governo nazionale una maggioranza politica certa, maggiore rapidità nelle decisioni, e dunque stabilità; b) l’esigenza di portare a compimento il processo di costruzione di un sistema autonomistico compiuto, con una Camera che sia espressione delle autonomie territoriali. Il Parlamento continuerebbe ad articolarsi in Camera e Senato, ma i due organi avrebbero composizione e funzioni differenziate. Entrambe le Camere, secondo tale ipotesi, votano le leggi nelle forme previste dalla Costituzione, controllano l’azione del governo e valutano le politiche pubbliche, con una prevalenza della Camera nell’esercizio della funzione legislativa e del Senato nell’esercizio di alcune funzioni di controllo. La Commissione si è soffermata in primo luogo sull’alternativa tra elezione diretta ed elezione indiretta dei membri del Senato, valutando soluzioni tra loro differenti:
a) In astratto i Senatori possono essere
- eletti dai cittadini;
- eletti dai Consigli regionali;
- membri di diritto in forza degli uffici ricoperti nelle Regioni (Presidente della Regione) e (secondo alcuni) nei Comuni;
b) qualora si optasse per la seconda soluzione, i Consigli regionali potrebbero eleggere i Senatori al proprio interno o al di fuori del Consiglio;
c) potrebbero fare parte del Senato o solo gli eletti dai Consigli regionali, visto il ruolo che le Regioni assumono nella forma dello Stato, o anche rappresentanti dei Comuni, data la loro specificità nella storia italiana;
d) se dovessero far parte del Senato anche i rappresentati dei Comuni, occorrerebbe decidere le modalità della loro elezione.
3. Un’altra opinione, che ha raccolto consensi in Commissione, si è espressa per il monocameralismo, da realizzare unificando le due Camere che oggi godono di pari dignità costituzionale. Questa opzione garantirebbe una maggiore semplificazione del sistema istituzionale e quindi una migliore stabilizzazione della forma di governo. Il monocameralismo avrebbe inoltre, secondo i sostenitori, il vantaggio di rendere più agevole il processo di riforma che, senza una scelta di prevalenza tra le due Camere, incontrerebbe presumibilmente minori resistenze. Questa opzione comporta la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze Stato-Regioni-Enti Locali”.
A queste opzioni se ne aggiunge un’altra che seppure non citata nella Relazione finale è stata avanzata nel corso del dibattito e cioè quella di un Senato differenziato non per rappresentanza territoriale o istituzionale, bensì per funzioni. Si tratta di un opzione che, come rammentato nel paragrafo 1, è stata la base dei tentativi di riforma sino al 1994.
Ognuna di esse ha pregi e difetti e comporta scelte diverse. Indubbiamente tutte ambiscono alla razionalizzazione della forma di governo parlamentare, ma non necessariamente tutte accedono all’idea di una seconda Camera di rappresentanza dei territori.
I tre saggi che seguono, quello di Pietro Ciarlo e Giovanni Pitruzzella quello di Mario Dogliani ed, infine, quello di Lorenza Violini danno conto delle tre diverse scelte e ne configurano le conseguenze istituzionali.
1. Professore ordinario di Diritto pubblico, Università degli Studi di Torino