Piemonte e PNRR
Il Piemonte e il PNRR. Una nuova fase della programmazione regionale?
Carlo Alberto Barbieri[1], Giovanni Boggero[2] e Stefano Piperno[3]
L’approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), inizialmente da parte del Governo italiano il 25 aprile 2021, e, successivamente, su proposta della Commissione europea, ad opera del Consiglio dell’Unione europea il 13 luglio 2021, è avvenuta attraverso un processo accelerato che ha inevitabilmente ridotto, se non proprio quasi pretermesso, non solo i poteri di indirizzo dei Parlamenti, ma anche il ruolo svolto dai governi sub-nazionali, tanto locali, quanto regionali, nella sua elaborazione. A tal proposito, si osservi come il PNRR sia stato reso oggetto da parte del Ministro per gli Affari regionali di una mera informativa alla Conferenza Stato-Regioni il 28 aprile 2021. In tale sede, la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ha osservato come il Piano sia stato elaborato «senza procedere ad un opportuno confronto di merito con le stesse che avrebbe assicurato un allineamento e una coerenza anche con le programmazioni regionali»[4]. Non è questa la sede per svolgere valutazioni politiche in merito a questa scelta, rispetto alla quale vi è, comunque, da segnalare una continuità tra il Governo Conte II e il Governo Draghi – nonostante la teorica possibilità di un lavoro meno “accelerato” a partire dalla conclusione dei cd. “Stati generali” che evitasse di arrivare concitatamente nell’imminenza della scadenza UE – ma pensiamo che sia opportuno proporre qualche prima sommaria riflessione su come si sia sviluppato sinora il rapporto tra Governo e istituzioni regionali nella definizione del PNRR – basandosi sull’esperienza piemontese – e su quale possa essere la sua evoluzione. Il tema è molto rilevante perché, se è vero che il PNRR è considerato da molti una iniziativa straordinaria dell’UE per il tramite degli Stati membri, come tale non replicabile in futuro, vi sono almeno tre motivi, tra loro correlati, che ne giustificano un approfondimento anche per gli studiosi del regionalismo nel nostro Paese.
In primo luogo, il PNRR, nonostante la sua straordinarietà, è venuto a ricadere nel sistema della programmazione economica e di bilancio europea. Infatti, l’UE ha inserito il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (RRF), istituito tramite Regolamento (UE) 2021/241, all’interno delle procedure legate al meccanismo di coordinamento delle politiche di bilancio, economiche e sociali – meglio conosciuto come Semestre europeo – che formalmente si esaurisce a luglio di ogni anno per essere poi seguito dai semestri nazionali – adeguandone i termini. In particolare, gli Stati membri hanno dovuto redigere Piani nazionali per la ripresa e la resilienza (PNRR) al cui interno fosse prevista la programmazione strategica e il monitoraggio delle riforme strutturali raccomandate a livello europeo. Il Governo italiano ha così spostato il Piano nazionale delle riforme (PNR) – che nelle passate edizioni era una componente del Documento di economia e finanza (DEF) – all’interno del PNRR, con una sezione specifica dedicata principalmente all’attuazione delle riforme destinate a costituire le condizioni per una efficace attuazione delle politiche di spesa finanziate con il Next Generation EU. Parimenti, il PNRR è anche formalmente collegato alla nuova programmazione pluriennale dei fondi europei (2021-27).
Il secondo motivo è riconducibile ai contenuti delle riforme previste nella sezione a ciò dedicata nel PNRR. Queste sono identificate in quattro tipologie: riforme orizzontali o di contesto[5] (innovazioni strutturali dell’ordinamento d’interesse trasversale a tutte le missioni del piano) riforme abilitanti (interventi funzionali a garantire l’attuazione del piano) riforme settoriali, riforme di accompagnamento (riforme che, seppure non comprese nel perimetro del piano, sono destinate ad accompagnarne l’attuazione). L’ampio ventaglio di riforme previste coinvolge pressoché tutte le competenze regionali in quanto lo Stato, per il tramite del Governo, non agisce, né può agire sulla base di competenze rigidamente e precisamente attribuite, ma opera in un contesto di importanti materie concorrenti (art 117, co. 3 Cost.) sostanzialmente inattuato (mediante leggi di principi fondamentali, si pensi ad es. al governo del territorio) e di interferenze reciproche anche sulle rispettive materie esclusive, che lo rende dipendente dalle Regioni. Nel corso degli anni, la giurisprudenza della Corte costituzionale, volta a dirimere i conflitti di competenza tra Stato e Regioni, ha spesso rinviato al concetto di “materie trasversali” e all’esigenza di “leale cooperazione” ove si creino “intrecci inestricabili” tra materie attribuite alle competenze dell’uno o delle altre, ossia a degli accorgimenti necessari per fare fronte a questo modello di interdipendenza ormai dominante nei paesi più sviluppati (e non solo), anche se sempre caratterizzato da specificità nazionali.
Complessivamente, nel Piano sono previsti 47 interventi legislativi di attuazione da qui al 2023 e 6 tra il 2023 e il 2026 (quindi anche a cavallo tra questa e la prossima legislatura): “vaste programme” – avrebbe detto qualcuno – al cui interno è difficile trovare qualcosa che non abbia importante riflesso sull’ordinamento regionale e sull’esercizio delle funzioni amministrative degli enti locali, con la conseguenza che occorrerà garantire efficienti strumenti di confronto e cooperazione tra centro e periferia nella definizione e attuazione delle riforme. Inoltre, visto il ruolo rilevante che avranno le Amministrazioni subnazionali nell’attuazione del PNRR, stupisce che l’ultimo provvedimento legislativo del quale è prevista l’adozione da parte del Governo (entro il marzo 2026) sia quello relativo al completamento del c.d. federalismo fiscale.
Questo aspetto non sembra sufficientemente approfondito all’interno del PNRR, ma non potrà non essere affrontato nella fase attuativa, rispetto alla quale il d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure) offre già un saggio della struttura di governance che il Governo si prepara a utilizzare. All’art. 2 esso, infatti, prevede una responsabilità dell’indirizzo in capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, presso la quale si insedierà una Cabina di regia, cui parteciperanno i Ministri e i Sottosegretari competenti per materia[6] e i Presidenti di Regione o Provincia autonoma, nella misura in cui siano esaminati interventi rientranti nelle loro competenze o, ancora, il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, quando siano coinvolte questioni riguardanti più Regioni. Al riguardo, un emendamento approvato in sede di conversione ha previsto il coinvolgimento nella Cabina di regia anche del Presidente dell’ANCI e del Presidente dell’UPI, secondo una tendenza ormai invalsa di raccordo diretto con le organizzazioni degli enti locali. La promozione delle opportune iniziative di raccordo da adottare in sede di Conferenza Stato-Regioni o Unificata spetta, invece, al Ministro degli Affari regionali, quando un intervento attuativo tocchi le competenze costituzionalmente attribuite a Regioni ed enti locali. Peraltro, pareri e previe intese in Conferenza Stato-Regioni sono altresì previste da altre disposizioni del decreto (artt. 15, co. 2; art. 38, co. 2 lett. c); art. 39, co. 1 lett. d); art. 57 e art. 59, co. 1). Un’ulteriore forma di consultazione delle istanze territoriali è prevista nell’ambito del cd. “Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale” di cui all’art. 3, che stabilisce che esso sia composto anche dai rappresentanti delle Regioni e degli enti locali e dei rispettivi organismi associativi. All’art. 12, il d.l. prevede, poi, una particolare articolazione dei poteri sostitutivi da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel caso di inadempimento, ritardo, inerzia regionale o locale con riguardo agli obblighi finalizzati all’attuazione degli interventi del Piano. L’art. 13 prevede, infine, dei meccanismi implicanti il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni allo scopo di superare l’eventuale dissenso tra livelli di governo in ordine all’attuazione degli interventi. La fase di “messa a terra” a livello regionale e locale del PNRR sarà, quindi, necessariamente limitata a una dimensione “discendente”, ossia attuativa degli interventi, mentre l’indirizzo spetterà inequivocabilmente a organi dello Stato (secondo un riparto tra Presidenza del Consiglio dei Ministri e Cabina di regia non meglio specificato), che pure dovranno tenere conto delle iniziative dei Presidenti di Regione o Provincia autonoma o delle organizzazioni degli enti locali e delle Regioni in sede di Cabina di regia.[7]
Infine, il terzo motivo è direttamente collegato alla limitata “territorializzazione” del PNRR e delle sue missioni, ovverosia alla necessità di verificare la coerenza tra la strategia nazionale di sviluppo e quelle regionali (che dovrebbero essere in qualche misura almeno relazionate alla cospicua attività di pianificazione territoriale da tempo praticata dalle Regioni, anche se certamente da aggiornare e indirizzare rapidamente), cercando di comprendere se nel processo di definizione del PNRR nazionale abbiano avuto un peso le elaborazioni regionali o se, viceversa, la definizione dei progetti abbia seguito prevalentemente un approccio top-down con uno scarso coinvolgimento e utile apporto (se mai da pretendere) delle Regioni. A giudicare dai documenti presentati e da quanto emerso in sede di Conferenza delle Regioni e delle Province autonome,[8] il Governo ha seguito questa seconda strada, che si discosta da quella per la programmazione per l’impiego dei fondi strutturali per la politica di coesione basata, invece, su un approccio bottom-up, secondo la logica place based[9] a suo tempo definita e proposta per la programmazione europea 2014-20 dall’allora Ministro della coesione territoriale, Fabrizio Barca. Sinora, le Regioni, inclusa la Regione Piemonte, hanno sviluppato iniziative autonome in forme differenziate e alquanto “accelerate” per individuare specifici interventi nei propri territori, ma non è stato seguito un modello comune e coordinato a livello “orizzontale” in sede di Conferenza delle Regioni, e ciò ha probabilmente indebolito la loro posizione (prevalentemente troppo ricognitiva e non selettivo-finalizzata). D’altro canto, non risultano neanche indirizzi e orientamenti strategici con dettagli territoriali trasmessi dal Governo alle Regioni. Proprio quando scriviamo sembra che le singole amministrazioni centrali stiano incontrando le diverse commissioni della Conferenza delle Regioni per illustrare i contenuti del PNRR a livello tecnico e condividere le misure da mettere in campo. Ugualmente, attraverso ulteriori emendamenti all’anzidetto D.L n. 77/2021, dovrebbe essere rivalutato il loro ruolo nella Cabina di regia che governerà l’attuazione del PNRR.
È soprattutto su questo ultimo aspetto che è opportuno soffermarsi. Il rapporto tra programmazione nazionale e regionale è un tema che era stato affrontato ancora negli anni ’60, addirittura prima della istituzione delle Regioni a Statuto ordinario (si pensi alla “Nota Aggiuntiva La Malfa”, al “Piano Pieraccini” e soprattutto al “Progetto 80”…), con l’obiettivo di evitare, da un lato, che il piano nazionale risultasse una mera sommatoria di proposte regionali senza una strategia territoriale nazionale definita, dall’altro, che le Regioni diventassero meri terminali attuativi delle decisioni nazionali in un’ottica tipica forse del decentramento autarchico, ma non dell’autonomia e del regionalismo della Costituzione del ‘48 (poi rafforzato nel 2001). La realtà è che la programmazione in Italia non si è mai radicata come metodo sistematico di governo sia sul piano degli obiettivi, sia su quello degli strumenti sino a quando le regole della politica regionale europea sono diventate la vera ossatura della programmazione regionale. In particolare, esse hanno condotto alla definizione di quadri strategici (spesso più formali che sostanziali) che però raramente sono stati in grado di costituire una vera e propria “bussola” per tutte le politiche pubbliche regionali. Da questo punto di vista, il PNRR probabilmente costituisce una opportunità storica ed una autentica sfida per compiere dei passi in avanti nei rapporti tra programmazione nazionale e regionale (non trascurando la necessità anche di condivise Linee fondamentali di assetto del territorio nazionale, previste fin dal DPR 616/77 e mai praticate). Sinora, il Documento di economia e finanza (DEF) e, al suo interno, il Programma nazionale di stabilità (PNS) e il Programma nazionale di riforme (PNR), non si sono dimostrati una sede adeguata di verifica della coerenza interna e complementarietà delle politiche strategiche delle diverse Regioni all’interno delle priorità nazionali e regionali. La componente regionale del DEF si è sempre tradotta in un elenco degli interventi legislativi e amministrativi di ogni Regione che risultano correlati alle raccomandazioni europee, senza però delle valutazioni approfondite sui risultati ottenuti, né sui loro effetti in termini di sviluppo. A una attenta lettura dei vari documenti che si sono succeduti nel corso degli anni, compreso il più recente,[10] la componente regionale del DEF è più una razionalizzazione ex post degli interventi regionali (spesso un mero elenco di leggi) senza ancora un adeguato coordinamento a livello orizzontale (tra Regioni) e verticale tra Stato e Regioni (nonché tra Regioni ed enti locali). Non è quindi casuale che su questi aspetti il dibattito pubblico sia stato insufficiente anche in occasione dell’adozione del PNRR.
In questo quadro, osservando il processo seguito in Piemonte a partire dalle prime bozze del PNRR nella seconda metà del 2020 emergono luci e ombre. La Regione Piemonte ha presentato già nel dicembre 2020 al Consiglio dei Ministri, per il tramite alla Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, 115 progetti per un totale di circa 13.3 miliardi di Euro, potenzialmente inseribili nel PNRR, senza chiari criteri di priorità e grado di “strategicità”, al di là di una approssimativa prima attribuzione alle missioni del PNRR. Dai documenti della Regione Piemonte risulta che la Conferenza delle Regioni ha poi inviato al Consiglio dei Ministri solo una tabella riassuntiva della proposta regionale articolata per missioni. Successivamente, la Giunta regionale ha svolto una serie di consultazioni con il partenariato regionale tra febbraio e marzo nelle Province piemontesi per la definizione dei programmi relativi ai fondi europei 2021-27 e anche per recepire proposte progettuali riconducibili alle linee prioritarie del PNRR, in modo da renderle disponibili per il Governo.[11] La consultazione ha consentito di censire un nuovo elenco di progetti Next Generation Piemonte articolati nelle sei missioni del PNRR[12] con un pacchetto di ben 2964 interventi (forse un po’ troppi, vista la reale consistenza e significatività rispetto alle finalità del PNRR di molti di essi) per un totale di circa 35 miliardi di Euro e per i quali occorrerà inevitabilmente individuare chiari criteri di selezione. Nel documento regionale, datato 6 maggio 2021, si sostiene che, dalla lettura della versione finale del PNRR nazionale, emergerebbero diversi progetti riconducibili alle prime richieste del territorio del dicembre 2020, ma per un osservatore esterno non è facile individuarli così come, a maggior ragione, non è semplice discernere i criteri che avrebbero portato al loro inserimento. Formalmente, tutti i progetti devono essere coerenti con gli assi strategici richiesti dalla UE. Quello che però non si coglie nei documenti nazionali e regionali è la consapevolezza del carattere multiregionale dello sviluppo in Italia e della conseguente necessità di politiche di tipo “meso” per ambiti che travalicano i confini amministrativi regionali e sub-regionali. Ugualmente, questa progettualità diffusa rischia di non cogliere le esigenze che sono emerse al fine di recuperare il divario piemontese rispetto alla ben superiore crescita avvenuta nell’ultimo ventennio in quello che è stato identificato come un nuovo “triangolo di sviluppo” incentrato su Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, con delle punte in Friuli-Venezia Giulia e nel Trentino-Alto Adige.
Ma vi è un secondo profilo sinora non sufficientemente considerato all’interno del processo di definizione del PNRR. La Regione Piemonte si trova ad operare all’interno di un sistema di enti locali articolato in almeno tre tipologie di soggetti, il Comune centrale metropolitano (Torino), le città medie (anche non capoluogo), i “Comuni polvere” (la stragrande maggioranza dei 1181 Comuni piemontesi), presenti sia nelle aree montane sia al di fuori di esse. Il coordinamento delle attività di queste varie tipologie di enti risulta molto complesso anche a causa dell’indebolimento istituzionale delle Province dopo la riforma Delrio del 2014, il non ancora sufficiente “decollo” della Città metropolitana e per via del fatto che la Regione che non è riuscita a colmare questo vuoto con la legge n. 23/2015 (che, a distanza di ormai sei anni, andrebbe rivista). In questo modo, si è vista scarsa integrazione tra Comune centrale della Città metropolitana e resto dei Comuni, ma anche tra città medie e Comuni contermini, e tra aree montane e non montane. Si è, in definitiva, assistito all’appannamento della logica dell’”area vasta”, ovvero di quelle dimensioni intermedie e di pianificazione del territorio minime per garantire un maggiore coordinamento degli enti locali. Viceversa, occorrerebbe rilanciare la missione istituzionale, in primis legislativa e di programmazione, della Regione volta alla identificazione delle articolazioni sub regionali dello sviluppo e al loro aggiornamento nel tempo, aggiornando la pianificazione regionale (il PTR è del 2011) ed utilizzando anche elaborazioni recenti, utili per identificare priorità rispetto ai progetti presentati, come, a titolo esemplificativo, il recente II Piano strategico della Città metropolitana di Torino. Esse possono costituire punto di riferimento per promuovere politiche di sviluppo “orientate ai luoghi”, coerenti con una riforma dell’organizzazione territoriale amministrativa del nostro Paese (trasformazione delle Province, aggregazione dei Comuni attraverso fusioni e soprattutto unioni, altre forme di cooperazione) che, soprattutto, evitino la dispersione degli interventi. Nello stesso tempo possono garantire un maggiore coordinamento nella fase attuativa del PNRR. Nel PNRR vi sono poi numerose azioni di riforma e misure che richiedono interventi di questo tipo: un esempio per tutti è rappresentato dal rilancio della Strategia nazionale per le aree interne (SNAI), attraverso misure a supporto del miglioramento dei livelli e della qualità dei servizi scolastici, sanitari e sociali, per cui il PNRR, insieme ai fondi FSC, dovrebbe mobilitare risorse per 2,1 miliardi di euro.
Un terzo ambito di riflessione è legato alle politiche sanitarie. L’ultima fase delle politiche regionali di programmazione era stata caratterizzata dal fatto che queste si basavano prevalentemente sugli interventi finanziati dai fondi europei, senza un legame con le politiche ordinarie regionali, in particolare quelle sanitarie che costituiscono il “core” delle loro funzioni amministrative. Il fatto che una delle missioni del PNRR sia relativa alla “Salute” consentirà di sviluppare interventi in un quadro integrato con le altre missioni, superando i vizi di eccessiva settorialità di altre fasi della programmazione regionale. Ugualmente, si potranno chiarire i reciproci ruoli di Stato e Regioni, ruoli che hanno suscitato molte polemiche nel corso della pandemia, confermando l’importanza di fare funzionare bene le “istituzioni della cooperazione”, ovvero gli organismi misti tra Stato, Regioni ed autonomie locali, per la gestione delle politiche pubbliche. Su tali ruoli pesa, comunque, la sentenza n. 37/2021 della Corte costituzionale che, nel ricondurre ogni misura di contrasto alla pandemia, alla profilassi internazionale di cui alla competenza legislativa dello Stato, sembra aver posto le basi per una generale reinterpretazione del Titolo V della Costituzione, volto, cioè, a enfatizzare il ruolo di indirizzo e coordinamento dello Stato a discapito dell’autonomia regionale.[13]
In conclusione, si apre una fase attuativa del PNRR in cui il ruolo delle Regioni e delle altre autonomie territoriali (soprattutto i Comuni) e funzionali (come le università e le scuole) è destinato a crescere. Il Governo stimava in aprile che il valore degli interventi la cui realizzazione compete a Regioni ed enti locali sia superiore a 71 miliardi circa su 192 miliardi totali (il 37 per cento). Molti interventi previsti devono però essere ancora individuati a livello territoriale, anche se nei documenti governativi si stima che non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili (circa 82 miliardi) andrà alle Regioni del Mezzogiorno.
Le Regioni che si presenteranno con richieste legate a schemi strategici di sviluppo e priorità limitate ben chiare saranno avvantaggiate. Il Piemonte, tra esse, dovrà trovare il coraggio di individuare meglio alcuni specifici interventi prioritari e di adeguato impatto – in aggiunta a quello che emerge dalla bozza di Documento strategico unitario 2021-27 – che consentano di valorizzare i fattori di competitività del suo territorio per attrare nuovi investimenti, evitando il rischio di una eccessiva dispersione progettuale. Ad esempio, il processo di trasformazioni produttive in atto nella Regione suggerirebbe soprattutto un forte impegno per la localizzazione di diversi centri di ricerca (intelligenza artificiale, transizione digitale, ecc.), recuperando il ritardo accumulato rispetto ad altre Regioni come l’Emilia-Romagna e la Lombardia. Ragionamenti simili si potrebbero fare per la logistica e gli altri settori produttivi con migliori prospettive di sviluppo per il Piemonte. Nei prossimi mesi sarà comunque importante valutare il flusso di investimenti prevedibili nel territorio regionale nel periodo del piano e valutarne l’impatto. Si apre così una fase di possibile reale rilancio della programmazione regionale nella fase attuativa del PNRR che è anche una occasione per una rivitalizzazione delle istituzioni regionali che hanno visto il loro 50esimo anniversario offuscato dalla crisi pandemica senza la possibilità di una seria riconsiderazione del loro ruolo (alla luce anche della avvenuta conferma della riforma del Titolo V conseguente al referendum del 2016). Sarà responsabilità delle Regioni non perderla e dello Stato garantire che si realizzi.
- Già Professore Ordinario di Urbanistica, Dipartimento Interateneo Scienze Progetto e Politiche per il Territorio-DIST, Politecnico e Università di Torino; Presidente INU Piemonte e valle d’Aosta. ↑
- Ricercatore a t.d. in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Torino. ↑
- Collaboratore dell’IRES, Istituto di Ricerche Economico Sociali del Piemonte e del Centro studi sul federalismo. ↑
- Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Informativa sul PNRR, 21/49/CU1/C2-C3. ↑
- Tra le riforme abilitanti e tra le riforme di accompagnamento al PNRR, in conformità agli obiettivi europei, il Governo si impegna ad approvare una legge sul consumo di suolo (superando di fatto le proposte giacenti in Parlamento), che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo di suolo; inoltre si impegna alla Semplificazioni in materia di edilizia e urbanistica e di interventi per la rigenerazione urbana, senza indicare però, rispetto a tali rilevanti impegni, la necessità e utilità di inquadrarla nella ancora mancante Legge di principi del governo del territorio. ↑
- Il rischio di uno “spacchettamento” per Dicasteri e competenze settoriali (attitudine prevalete dello Stato), avrebbe dovuto chiamare esplicitamente e innovativamente in causa il CIPE (anzi CIPESostenibile) e magari attivare quel CIPU (per le Politiche Urbane) istituito ma mai attivato operativamente. ↑
- Cfr. M. Ferrara, Il NRRP nei provvedimenti del Governo Draghi, tra centralismo della governance e questioni di genere ancora aperte, in Orizzonti del Diritto pubblico, 14 giugno 2021. ↑
- Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, Posizione sul decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77, recante “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure” Parere, ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, Punto 4) O.d.g. Conferenza Unificata, 21/101CU4/C1-C3. ↑
- F. Barca, An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A place-based approach to meeting European Union challenges and expectations, in EERI Research Paper, Economics and Econometrics Research Institute (EERI), Brussels, 2008. ↑
- Contributo delle Regioni e delle Province autonome al Programma Nazionale di Riforma (PNR) 2021, reperibile al seguente indirizzo https://www.tecnostruttura.it/cms/file/DOCUMENTI/3851/PNR-2021-DEFINITIVO.pdf (ultimo accesso 21 luglio 2021). ↑
- Programmazione 2021-2027: la consultazione del partenariato regionale, reperibile al seguente indirizzo: https://www.regione.piemonte.it/web/temi/fondi-progetti-europei/programmazione-2021-2027-consultazione-partenariato-regionale# (ultimo accesso 21 luglio 2021). ↑
- Next Generation Piemonte: https://www.regione.piemonte.it/web/sites/default/files/media/documenti/2021-06/Next-generation-Piemonte_censimento-progetti-6.5.21.pdf (ultimo accesso 21 luglio 2021). ↑
- Sulla sentenza si vedano: G. Boggero, In pandemia nessuna concorrenza di competenze. La Corte costituzionale promuove un ritorno al “regionalismo della separazione”, in Forum di Quaderni costituzionali, n. 3/2021; C. Caruso, Il regionalismo autarchico è incostituzionale: dal Giudice delle leggi una pronuncia che mette ordine nella gestione territoriale della pandemia, in Questione Giustizia n. 1/2021; G. Menegus, Osservazioni sulla prima sospensione cautelare (ordinanza n. 4/2021) di una legge regionale da parte della Corte costituzionale (e sulla sent. n. 37/2021), in Forum di Quaderni costituzionali, n. 2/2021. ↑