Tecnodiritto: una nuova frontiera tra neutralità, oracoli, giustificazioni

Nikolaj Vinai[1]

(ABSTRACT) ITA

Il presente lavoro indaga le complesse interazioni tra mondo del diritto e sviluppo delle nuove tecnologie con riferimento alla tenuta del sistema di democrazia rappresentativa, anche alla luce dell’emergenza pandemica da SARS-CoV-2. Il percorso si snoda attraverso una tripartizione, al fine di distinguere le sfaccettature dell’odierno atteggiarsi della scienza e della tecnica rispetto al diritto ed alle istituzioni nelle quali esso si cala e che provvede a disciplinare: si considerano il rapporto con la scienza, quello con le comunità epistemiche, infine quello con la tecnologia (internet, IA, Big Data, algoritmi). Faranno da fils rouges al discorso i nodi della neutralità, del “pericolo dell’oracolo”, della giustificazione del potere.

(ABSTRACT) ENG

The present work investigates the complex interactions between the world of law and the development of new technologies with reference to the resilience of the representative democracy system, also in the light of the SARS-CoV-2 pandemic emergency. The path is divided into three parts, in order to distinguish the facets of today’s attitude of science and technology with regard to the law and the institutions in which it falls and which regulates: we consider the relationship with science, the relationship with epistemics communities, finally the relationship with technology (internet, AI, Big Data, algorithms). The knots of neutrality, the “danger of the oracle”, the justification of power will be the fils rouges of the discourse.

SOMMARIO:

1. Premessa – 2. La scienza legittimante – 3 (segue). Lo scenario della scienza incerta – 4. Le comunità epistemiche: poteri e ruoli – 5. Una nuova dimensione: l’uomo nell’infosfera – 5.1. Oggettività dei dati e “numeri politici” – 5.2. Questioni di regolamentazione giuridica.

1. Premessa.

L’uso di un neologismo è una scelta spesso ingiustificata, potendo lo stesso concetto essere benissimo reso in altro modo, magari con una locuzione. Nel nostro caso nulla impediva di discutere di “diritto dell’età tecnologica” o di “diritto dell’era cibernetica” et similia. Ma l’aver adoperato la parola composta “tecnodiritto” ha una sua valenza semantica che rende questa scelta, forse, non così peregrina. Le espressioni “diritto dell’età tecnologica” o “diritto dell’era cibernetica” offrono l’idea di un sapere, il diritto, che entra in una nuova dimensione, in un diverso contesto: la modernità connotata dall’incessante cavalcata del progresso tecnologico. Invece, “tecnodiritto”, con la sua condensazione di senso e significato in un unico termine, trasmette l’immagine non di qualcosa che entra in qualcos’altro dovendo quindi imparare a rapportarsi con questo diverso qualcosa, bensì l’immagine di una trasformazione, di un mutamento genetico, di base, del diritto.

Per “tecnodiritto” deve, comunque, intendersi il diritto nella dimensione tecnico-informatica dell’uomo contemporaneo[2]; ma l’evoluzione che ciò comporta determina, o rischia di determinare, un cambiamento radicale del fenomeno giuridico[3]. Un evento di non poco momento che, dunque, merita di essere rimarcato.

La dimensione tecnico-informatica è il prodotto del progresso scientifico e del rapporto stretto, anzi strettissimo, che la scienza moderna intesse con la politica, dunque le istituzioni, dunque il diritto. Con la vita stessa dell’uomo contemporaneo. I periodi emergenziali fanno risaltare maggiormente movimenti già in atto nelle dinamiche sociali, così come la decisione sullo stato d’eccezione illuminava esplicitamente per Schmitt il carattere eterno della sovranità[4]. Ebbene, l’emergenza sanitaria dovuta al SARS-CoV-2[5] che ancora stiamo vivendo ha acceso l’attenzione sull’influenza crescente che i pareri esperti, i Big Data, l’intelligenza artificiale, la tecnologia hanno sui rapporti sociali, ivi compreso naturalmente il diritto.

Trattasi di un intreccio difficile da dirimere, refrattario a giudizi netti e lapidari. Per offrirne una rassegna il più possibile esaustiva (senza coltivare pretese di completezza) si è optato per una tripartizione del discorso che, pertanto, procederà dapprima esponendo alcune considerazioni generali sul rapporto tra diritto e scienza; successivamente si concentrerà sulla figura degli esperti, delle comunità epistemiche, ossia i soggetti della scienza; infine analizzerà alcuni aspetti della questione oggi più cruciale, quella relativa agli impatti della tecnologia, o della tecnica, ossia lo strumento della scienza contemporanea.

Il sentiero che percorreremo è diretto verso una terra di frontiera, verso un tempo di cambiamento di paradigma. In tale percorso si incroceranno tre snodi: l’autorevolezza connessa al concetto di neutralità; il “pericolo dell’oracolo” che nega l’anima stessa del diritto e dei regimi democratici (nonché della stessa scienza sperimentale); il nodo interno ed eterno di qualsiasi potere autoritativo, quello della sua legittimazione, per cui «qualsiasi Kratos[6] è chiamato a giustificarsi»[7].

2. La scienza legittimante.

Il tentativo di capire e di spiegare l’influenza della scienza, dei suoi soggetti e dei suoi strumenti, sul mondo del diritto è destinato a rimanere infruttuoso se non si analizza il ruolo che la scienza stessa – rectius: il metodo scientifico – ha svolto nella legittimazione del diritto moderno.

Innanzitutto, una breve parentesi sul concetto di legittimazione. È possibile identificarne quattro fonti: legalità (ove l’autorità promana dall’agire conformemente ad uno schema giuridico considerato giusto dalla comunità); consenso (ove «i membri della comunità riconoscono l’autorità come legittima mediante uno scambio, anche simbolico, e delegano a essa il potere di agire come tale e per loro conto» condividendo un insieme di valori e di pratiche con cui conseguirli); traslazione (ove, anche attraverso il ricorso a simboli capaci di generare un “senso di autorità”, «l’autorità deriva dal trasferimento e dalla riallocazione di valori caratterizzati da un forte “potenziale accreditante” da un contesto extra-politico alla sfera politica»); fiducia (ove «l’autorità è legittimata in virtù di un “assenso duraturo” da parte dei singoli individui che la riconoscono come valida “non in virtù di un’adesione razionale”, esplicita e ponderata, ma in base ad assunti ereditati dal contesto sociale, familiare (una “morale comune”), e soprattutto dalla cultura politica»)[8].

Come si vedrà, è con riferimento a quest’ultima che la scienza, intesa come «repertorio [dei] saperi, legato a ragioni di natura tecnica, economica, morale, psicologica oppure di status»[9], giunge a dare legittimazione – potrebbe dirsi di riflesso – alla politica ed al diritto.

Orbene, come si è poco sopra già ricordato ogni regola ha bisogno in qualche modo di rinvenire una sua giustificazione. Il diritto intermedio a partire dalla Lucerna iuris e dai quattro “dottori”[10] fondava la sua autorevolezza sull’autorità del passato della Roma Imperiale: le disposizioni che si traevano dalle Institutiones di Gaio e più in generale dalla ricostruzione del testo dell’opera giustinianea vincolavano in forza della loro diretta provenienza da quel tempo remoto di superiore ed insuperato splendore e gloria nonché in forza della loro natura trascendente. Lo si poteva interpretare, manipolare (interpolare) – era l‘attività principale di glossatori, commentatori e giuristi di ius commune – ma doveva potersi sempre scorgere l’embrionale cordone con l’epica genitrice romana[11].

Successivamente, a cavallo tra quattro e cinquecento, l’umanesimo giuridico, procedendo sulla via della critica testuale delle fonti, dimostra «che il diritto romano giustinianeo era diverso da quello ‘classico’ (e per lo più a quest’ultimo inferiore), si doveva ammettere allora che il “corpus iuris” non solo perdeva quella ‘sacralità’ di cui era stato in precedenza ammantato, ma doveva anche essere – storicamente – considerato come la fonte di ‘una’ delle costruzioni e soluzioni possibili, certo non l’unica. […] Ne conseguiva che il diritto finiva con l’essere una scienza ‘umana’ […] senza nulla di immanente»[12]. Ciò apre ai tentativi di razionalizzazione del diritto in capo al Sovrano, che non sortiranno grande successo sino al mutamento di età con la codificazione, la fine dell’assolutismo politico e l’inizio dell’assolutismo giuridico[13].

Questo esperimento è andato consolidandosi tra XIX e XX secolo in coincidenza con il grande balzo del progresso scientifico. L’intersezione scienza-diritto trova emblematicamente ragion d’essere in questa fase: «i metodi scientifici, l’organizzazione della comunità scientifica, e le stesse metafore della scienza, infatti, sono stati punti di riferimento costanti della riflessione giuridico-politica nella costruzione teorica delle società liberal-democratiche, e nella formalizzazione del discorso e delle pratiche giuridiche»[14]. Nella chiarezza e nel rigore del metodo scientifico, nella sua neutralità, il diritto non più giustificato dalla tradizione del passato e dall’idea della sua trascendenza, cerca la sua autorevolezza; i giuristi si rilegittimano qualificandosi come scienziati-del-diritto[15].

Parimenti al metodo scientifico, anche la comunità scientifica intesa come organizzazione sociale ideale ha svolto un ruolo nella strutturazione delle società liberaldemocratiche, reso paradigmaticamente dall’immagine della scienza che dice il vero al potere[16]. Come è stato osservato, «gli standard di azione della scienza e della tecnica hanno acquisito importanza grazie alla loro capacità di soddisfare le esigenze politico-strategiche dell’idea liberaldemocratica di responsabilità e nel sostenere la credibilità dell’osservazione diretta come un fattore decisivo nei rituali liberaldemocratici di legittimazione»[17].

3 (segue). Lo scenario della scienza incerta.

La tendenza poc’anzi descritta procede ancor’oggi, ma deve affrontare un cambiamento di paradigma che ha interessato l’esperienza scientifica ed ha aperto spazi per nuovi equilibri. La scienza contemporanea, rispetto a quella del XIX e della prima parte del XX secolo, ha mostrato, oltre ad un notevole incremento delle conoscenze, (e, forse, proprio in conseguenza di tale incremento) anche un consistente aumento della componente dell’incertezza. Questo fenomeno può essere indicato dall’espressione “scienza post-normale” in cui «i fatti sono incerti, i valori controversi, le poste in gioco elevate e le decisioni urgenti»[18]. In un contesto nel quale la conoscenza correlata a determinati sistemi non consente più una previsione certa dei fenomeni osservabili ed è necessario studiare i processi nel loro svolgersi per ottenere delle risposte, la normalità della scienza post-normale diviene una radicale incertezza[19].

Ne è derivata la costruzione di un linguaggio da parte del diritto, con cui trattare le incertezze della scienza post-normale, che rende plasticamente come gli equilibri tra scienza e diritto mutino nel verso non più di un rapporto lineare (come quello descritto nel paragrafo precedente attraverso l’immagine di Wildafsky per cui la scienza dice il vero al potere[20]), ma piuttosto di uno improntato alla «co-produzione» e, dunque, alla loro legittimazione reciproca[21].

Emergono così le nozioni di rischio, incertezza in senso proprio, ignoranza e indeterminazione. Il rischio si lega alla conoscenza delle variabili caratterizzanti un fenomeno determinato ed alla possibilità di quantificarne gli effetti, positivi o negativi. L’incertezza rimanda all’incapacità di dedurre la probabilità di un evento data la non conoscenza di come i parametri noti di un sistema si relazionano tra loro. L’ignoranza, muovendo da una parziale o totale non conoscenza delle variabili rilevanti, si traduce nell’incapacità di qualsivoglia quantificazione in relazione agli esiti. L’indeterminazione si riferisce all’incertezza che trova causa nelle relazioni tra esseri umani e sistemi tecnologici[22].

Pertanto, in un contesto che riconosce una vera e propria «riserva di scienza»[23], ovvero un ambito escluso dalla potestà normativa del legislatore[24] essendo rimesso alle valutazioni medico-scientifiche, entrano in gioco i principî della ragionevolezza scientifica e di precauzione. La ragionevolezza scientifica si traduce in un sindacato particolarmente “penetrante” del giudice costituzionale in caso di un «uso distorto della discrezionalità quando vi è un falsato utilizzo del sapere scientifico che non giustifica quella determinata scelta normativa ovvero quando il legislatore disciplina nel dettaglio e a maglie strette una materia ad alto contenuto scientifico». Il giudice delle leggi valuterà, allora, con uno scrutinio altrettanto stretto «l’arbitrarietà, l’irrazionalità, id est, l’irragionevolezza della scelta legislativa compiuta»[25].

Va ricordato come la giurisprudenza costituzionale riconosca in capo al legislatore la competenza piena e pressoché esclusiva a disciplinare fattispecie in cui vadano considerati elementi tecnico-scientifici[26] assumendo altresì «un atteggiamento di presunzione – seppure iuris tantum – dell’adeguatezza della legge regolatrice di una tale fattispecie»[27]. Presunzione, però, non assoluta, «bensì relativa, potendo essere oggetto, in determinate circostanze, di una diversa valutazione da parte del giudice costituzionale». Il sindacato “penetrante” della Corte, dunque, è circoscritto ai casi di mancanza dell’istruttoria tecnico-scientifica oppure di “evidente irragionevolezza” o “manifesta irrazionalità” della scelta legislativa. Ciò si traduce nel fatto che «la legge a contenuto tecnico-scientifico ha uno spazio di discrezionalità meno ampio rispetto a quello ordinariamente rimesso alle “altre” leggi, poiché essa deve essere previamente fondata su un’adeguata istruttoria tecnico-scientifica che, se non è svolta, può essere considerata come condizione di irragionevolezza e riverberarsi sull’illegittimità della stessa legge»[28].

Lo spazio normativo riconosciuto al legislatore, perciò, trova un argine, soprattutto laddove intervenga la scienza medica[29], nelle «valutazioni che, secondo legge, devono essere assunte nelle competenti sedi, [nella consapevolezza] dell’essenziale rilievo che, in questa materia, hanno gli organi tecnico-scientifici»[30]. Posizione ribadita dalla Corte costituzionale italiana anche in una sentenza del 2002: «Salvo che entrino in gioco altri diritti o doveri costituzionali, non è, di norma, il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e a quali condizioni. Poiché la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione, la regola di fondo in questa materia è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione»[31].

Queste parole della Consulta, oltre a dimostrare la sussistenza di una “riserva di scienza”, sottolineano (soprattutto nel loro incipit) altresì come la scienza non possa in alcun modo “smarcarsi” dal rispetto di principî e valori costituzionali[32], a riprova di quella circolarità nei rapporti di reciproca legittimazione tra diritto e scienza menzionata supra.

La ragionevolezza, di per se stessa un valore[33], entra in gioco anche nei contesti caratterizzati dall’incertezza dei presupposti scientifici: è il principio di precauzione, riconosciuto – come è noto – a livello internazionale dal Principio 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo del 1992. Quest’ultimo, diversamente dalla valutazione del rischio[34], si pone in un’ottica di prevenzione anticipando sensibilmente la soglia di tutela. Così facendo ne discende la legittimazione all’«uso di una discrezionalità molto ampia da parte della pubblica amministrazione: i “pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente”; l’“alto livello di protezione”; il “rischio”; la valutazione preliminare che deve essere non solo “scientifica” ma anche “obiettiva” che sono menzionati dall’art. 301 TUA consentono un elevato margine di manovra alle autorità tenute a darvi applicazione e, ovviamente, al giudice che venga chiamato a sindacare i relativi atti»[35].

Questi nuovi equilibri tra scienza e diritto (e istituzioni), ove la prima fornisce i dati su cui basare le decisioni e il secondo non soltanto seleziona quali di questi prendere in considerazione ma gode anche di margini di discrezionalità più o meno ampi onde far fronte alla normale incertezza della scienza post-normale, ancora non hanno pienamente sedimentato all’interno della cultura collettiva degli Stati costituzionali di democrazia pluralista. Di qui almeno una porzione significativa delle ambiguità ed incomprensioni da parte dell’opinione pubblica che hanno contrassegnato l’apporto degli esperti nella predisposizione delle decisioni pubbliche durante l’emergenza pandemica da Covid 19.

4. Le comunità epistemiche: poteri e ruoli.

«L’esperto è colui cui è delegato il “rischio di commettere errori”»[36]. Quest’affermazione segna ad un tempo tanto la funzione, e quindi il ruolo sociale, quanto il potere delle comunità epistemiche.

L’influenza degli esperti sulla società è andata crescendo col crescere della complessità e pervasività delle scoperte della tecnoscienza, ed oggi è evidente, ad esempio, nei c.d. indicatori di governance. Si pensi – solo per citare un caso – alla rilevanza per gli Stati delle valutazioni delle società di rating[37]. Il “potere” degli esperti risiede in quella delega di rischio a commettere errori. Sono delegati in quanto detengono un sistema di conoscenze e competenze che conferisce legittimità ai loro responsi: sono in grado, in altri termini, di giustificare i loro pareri attraverso delle giustificazioni scientifiche, quindi provate, quindi oggettive[38]. Il parere, in quanto “giustificato”, vale di più di una mera opinione: basti pensare al giudice che può sempre discostarsi da quanto contenuto in una perizia scientifica, dovendone, però, fornire un’adeguata motivazione. Questo “potere”, che discende dalla natura stessa dell’esperto, «risulta difficilmente controllabile da chi non fa parte di quella comunità epistemica […] soltanto un esperto può valutare, con cognizione di causa, l’operato di un altro membro della medesima comunità epistemica»[39]. Per la banale ed autoevidente ragione che chi non ne fa parte, non-è-esperto[40].

Si pone, allora, per lo Stato costituzionale il problema di controllare questo potere: se ogni Kratos deve giustificarsi, non è sufficiente che esso si giustifichi sulla base di un’asserita oggettività – neutralità – validata esclusivamente all’interno della comunità da cui è scaturita. Il controllo dovrebbe avere una base necessariamente più “diffusa”. La questione si riflette in quella dell’irresponsabilità dell’esperto. Quest’ultima consiste, innanzitutto, in una forma di irresponsabilità verso la società. Lo si è già detto: i cittadini, ivi compresi i mezzi d’informazione, non posseggono le competenze tecniche necessarie per comprendere, giudicare, contestare l’operato di un esperto. Ciò non significa che, talvolta, non si tenti di farlo comunque, ma la difficoltà di riuscirci in modo logico e razionale conduce spesso a forme di inquinamento del confronto dialettico con violazione delle regole del corretto argomentare[41]. Un esponente politico italiano, in una trasmissione televisiva, asserì l’inutilità assoluta se non addirittura la dannosità delle politiche di confinamento nel fronteggiare la diffusione del Covid 19 contro il parere di uno scienziato, che sosteneva il contrario. L’esponente politico, tra l’altro, per suffragare la sua tesi citava, documenti alla mano, un lavoro recentemente pubblicato di un altro esperto, un docente dell’Università di Stanford, il quale provava, attraverso lo studio comparato degli effetti di tutte le politiche pubbliche di quel tipo poste in essere nei vari paesi che avevano dovuto fronteggiare l’emergenza pandemica, incontrovertibilmente quanto da lui sostenuto. La settimana seguente il conduttore della trasmissione, non essendo in grado di dire quale dei due esperti avesse ragione in merito alla suesposta querelle, intervistò direttamente il docente di Stanford. Quest’ultimo spiegò come il suo studio dimostrasse che politiche di confinamento draconiane non erano idonee a conseguire il risultato desiderato più di politiche meno rigorose basandosi, però, su dati teorici e non raccolti dalle esperienze dei vari paesi colpiti dalla pandemia. Tale studio dimostrava, pertanto, che teoricamente confinamenti più blandi potevano ottenere risultati uguali o anche migliori nel controllare la trasmissione virale, considerato il convergere di altri elementi quali l’insofferenza di una parte della popolazione in caso di restrizioni troppo rigorose o troppo protratte nel tempo et similia. Ma, trattandosi di astrazioni, nulla escludeva, nel caso concreto, che in alcune realtà territoriali le cose andassero diversamente e che quindi politiche di confinamento estremamente rigide potessero conseguire l’affievolimento della trasmissione virale in tempi più brevi o in modo più duraturo. Il docente di Stanford concludeva così che l’affermazione secondo la quale “le stringenti politiche di confinamento adottate in numerosi Stati europei erano state concretamente inutili o addirittura dannose” non era in alcun modo desumibile, né provata, dal suo studio[42].

A parte ciò, resta la difficoltà reale di «giudicare come agisce un esperto, nell’esercizio delle sue funzioni. Non esiste manifestazione più evidente della “tirannia” degli esperti», è stato sottolineato.

Gli esperti vantano una sorta di irresponsabilità anche di fronte al potere politico. Basando, infatti, i propri pareri sulla neutralità del rigore del metodo scientifico, «si sottraggono alla dialettica politica, per apparire come “oracoli” super partes, capaci di risolvere qualsiasi situazione di stallo, anche nei momenti di emergenza»[43]. Emerge qui il tema del “pericolo oracolare” che sarà affrontato più avanti.

Una certa dottrina interpreta ciò che si è definito “potere” degli esperti come un gioco strategico teso al dominio, sfruttando il proprio vantaggio competitivo derivante dall’asimmetria informativa e conoscitiva al fine di mantenere il potere e, dunque, il proprio ruolo nella società[44]. Se ciò – come si evince da quanto precede – ha indubbiamente un fondamento, l’accostare termini come “potere” e “tirannia” a chi detiene competenze e conoscenze specifiche, anziché salvaguardare l’animo democratico di un regime può rischiare di metterlo in discussione.

Innanzitutto, il potere degli esperti trova spazi per espandersi nel ritiro della politica; ma va compreso di quale tipo di “ritirata” si tratti. È una ritirata strategica che cela l’ambizione di appropriarsi della neutralità del metodo scientifico, della fiducia di cui è depositaria la scienza. Una deresponsabilizzazione della politica che si traduce in una politicizzazione della scienza: «tutto questo trasforma i tecnici in dei “parafulmini della politica”, attraverso cui giustificare e spiegare ai cittadini, per esempio, le ragioni alla base dell’introduzione di misure impopolari, come le politiche di austerity oppure il lockdown degli ultimi mesi. Se le cose vanno bene, i cittadini-elettori premieranno le forze politiche che hanno saputo ascoltare le indicazioni della scienza; se vanno male, invece, sarà stata tutta colpa dei tecnocrati»[45].

Questo fenomeno, di “cattura” e coinvolgimento dell’esperto da parte della politica, “desacralizza” la neutralità del metodo scientifico aprendo brecce in merito alla giustificazione degli stessi giudizi scientifici; ciò aumenta la confusione e l’anarchia all’interno del sistema con esiti che è poi difficile recuperare: si pensi alla querelle sulla sicurezza di alcuni vaccini anti-Covid che ha prodotto insicurezze in alcuni strati della popolazione in alcune zone del nostro paese, con conseguenti ritardi e complicazioni nella campagna vaccinale, che avrebbe, invece, dovuto essere il più celere possibile. La responsabilità è da imputare alle dichiarazioni, certamente con diversi accenti e sfumature, di esperti e autorità regolatorie, od alla strumentalizzazione politica e mediatica (improntata alla ricerca del sensazionalismo) di quelle dichiarazioni?

Le scalfitture anticipatrici di queste brecce non vanno ricercate – almeno non solamente – nell’inedita esposizione mediatica degli esperti, quanto piuttosto in quella che si è definita politicizzazione della scienza funzionale a rilegittimare la politica in occasione di decisioni ad alto tasso tecno-scientifico. Il dissenso tra gli scienziati ha fatto – e continua a fare, il che è preoccupante – scalpore a vari livelli: dal dibattito quotidiano dei cittadini, al dibattito pubblico mediato dai mezzi d’informazione, al dibattito nelle sedi istituzionali. Detto scalpore è alquanto ingiustificato[46] se si pone mente alla normale incertezza della scienza post-normale, di cui precedentemente si è discusso. Ciò riposa su di un difetto di comprensione in merito alla natura del fenomeno scientifico odierno invalso nelle nostre società – “società del rischio” sono state definite[47] –, ancora indissolubilmente legato ad «una concezione di stampo positivista sul ruolo della scienza. Nonostante svariati autori abbiano dimostrato come questa concezione risulti non solo falsa, ma anche forviante, molte persone sono ancora convinte che il metodo scientifico conduca sempre e comunque a certezze inconfutabili. La scienza – al pari della tecnica [si tornerà sul punto nell’ultima parte di questo contributo – vedi infra §. 5 -] – si configura tuttora, sia agli occhi dell’opinione pubblica sia di buona parte di coloro che operano all’interno delle arene decisionali, come l’unica strada per superare qualsiasi criticità e vincere ogni sfida. In base a questa idea distorta della scienza, non possono esistere contrasti all’interno della comunità scientifica – per definizione, una sola comunità – dal momento che tutti i suoi membri seguono in modo rigoroso lo stesso metodo»[48]. Ciò non significa – beninteso – legittimare il c.d. relativismo scientifico – limitrofo al “pensiero magico” e totalmente estraneo al metodo scientifico ed a qualsivoglia razionalità –, ma accettare che la natura della scienza post-normale (quella autentica e non le sue grottesche caricature) è di convivere con un certo tasso di incertezza delle soluzioni, eventualmente non chiare o univoche.

Solo una corretta comprensione della natura della scienza contemporanea, da parte dei cittadini prima ancora che dei soggetti politici, può consentire di identificare il ruolo che le comunità epistemiche rivestono – e debbono rivestire – nelle loro relazioni col diritto e con le istituzioni; i “poteri” degli esperti devono essere inquadrati in questa cornice. Difatti, la presa d’atto dell’incertezza scientifica – di cui non si è ancora abbastanza coscienti – non può tradursi nella negazione del valore della scienza, in un indulgere in posizioni insensatamente anti-scientifiche – aperte dal relativismo scientifico –, che rischiano di condurre all’arbitrio dei decisori politici non arginato da un minimale apporto di competenze e conoscenze qualificate[49]: la frase di Luigi Einaudi «conoscere per deliberare», era di buon senso allora come oggi.

In fondo è la stessa Carta Costituzionale a tracciare un percorso che non vede le istituzioni avulse dal confronto con i saperi esperti, ma anzi prevede strumenti volti alla «creazione di un flusso informativo […] tra i parlamentari e i soggetti esperti esterni alle due Camere, che incide sull’esercizio della funzione legislativa»[50]. Lo stesso può dirsi a livello governativo, tanto per le decisioni del Consiglio dei Ministri che per l’azione della pubblica amministrazione. E tutto ciò non solo durante il protrarsi di fasi emergenziali (con il corollario di task-force e comitati tecnici di varia specie), ma nella stessa fisiologia del sistema.

Questo “flusso informativo” trova, però, nella Costituzione un limite gerarchico non eludibile: i padri costituenti «alla contrazione autocratica del potere, nell’ipotesi di emergenza [preferirono] la puntuale previsione di specifici modi di applicazione di princìpi e regole costituzionali, quando alcuni beni collettivi (salute, sicurezza, pacifica convivenza) fossero gravemente minacciati»[51]; la cennata gerarchia è da ritenersi valida a maggior ragione nelle fasi di funzionamento fisiologico delle istituzioni. Ne consegue che la scelta insita nelle deliberazioni statuali deve sempre essere politica, ossia inscritta all’interno del circuito di legittimazione e rappresentanza democratica, ottica in cui si dispiega il controllo del corpo elettorale e dell’opinione pubblica. La politicità delle deliberazioni pubbliche contrassegna anche i contenuti di queste ultime, il che significa che spetta alle istituzioni politiche il compito di individuare un equilibrio soddisfacente tra i vari interessi in gioco, eventualmente bilanciando le risultanze scientifiche con gli interessi economici e sociali. Al contempo, però, il decisore politico, proprio per rispondere adeguatamente ai bisogni della comunità (all’agathon, potrebbe – e dovrebbe – dirsi), non può semplicemente ignorare l’apporto conoscitivo degli esperti, che è essenziale per la suddetta adeguatezza, sotto entrambi i profili della politicità esaminati.

Solo in una cornice di leale collaborazione tra i soggetti detentori di potere (politico, scientifico, tecnico, culturale)[52] una democrazia può tradursi in uno Stato funzionante in grado di reagire e trovare risposte ai problemi che gli si frappongono quotidianamente (non solo quindi di natura pandemica)[53].

Fatalmente questa concezione si scontra con il discredito delle élites oggi imperante[54]. Ma il problema della mediazione tra popolo e istituzioni[55], centrale nella democrazia rappresentativa[56], che una certa linea di pensiero vorrebbe superato in virtù delle prospettive dischiuse dalle nuove tecnologie[57] – se ne discuterà nel prossimo paragrafo –, rimane ineluttabilmente aperto così come rimane altrettanto ineluttabile la compresenza nella società di governati e governanti.

In fondo, il rapporto tra i primi ed i secondi, tra la guida ristretta della comunità e la comunità stessa, è un tema che affonda le sue radici nell’antichità, nella prima concettualizzazione di demokratia: già nella Repubblica Platone prospettava per la polis un governo dei filosofi (ossia una minoranza di aristoi: migliori per qualità, conoscenze, competenze), intesi come coloro che perseguono necessariamente l’agathon e che non possono non perseguirlo perché saggi, cioè giusti, cioè tendenti al bene. Anche qui la figura dell’oracolo, sicuramente molto rilevante nel mondo greco, aveva connotati ambigui, come nel mito di Edipo dove l’accettazione del vaticinio immotivato della Pizia conduceva alla verificazione di quanto divinato portando il figlio ad uccidere il padre e a giacere con la madre: la negazione della libertà dell’uomo[58].

5. Una nuova dimensione: l’uomo nell’infosfera[59].

Il diritto non è uno strumento necessariamente a tutela della libertà umana; può, anzi, essere un cappio che la soffoca, un martello che la umilia, una gabbia che la sorveglia o la costringe. In uno Stato di democrazia pluralista la presenza di una Costituzione rigida ha il precipuo compito di impedire ciò, orientando il diritto, più che verso la libertà, verso la dignità umana, ovverosia apprestando dei confini capaci di arginare – parafrasando Montesquieu – i due pericoli esiziali della democrazia: la corruzione portata dallo spirito della diseguaglianza e quella portata dallo spirito dell’eguaglianza estremistica[60]. È appena il caso di aggiungere che l’eguaglianza estrema è l’anticamera della diseguaglianza, così come una libertà illimitata è lo specchio della negazione della libertà medesima[61]. In questo discorso giocano oggi un ruolo preponderante le nuove tecnologie.

La tecnologia – nuova forma di una cosa antica, la tecnica[62] – è figlia della logica computazionale e dell’ambizione alla mathesis universalis appartenenti alla storia della scienza moderna; «tuttavia, la crisi della scienza nell’epoca contemporanea ha accelerato lo sviluppo delle tecnologie digitali e ha globalizzato gli studi e le applicazioni dell’informatica e della robotica, influenzando in modo imprevisto molteplici pratiche sociali, tra le quali anche il diritto»[63]. Pertanto, non solo il diritto ma anche la scienza stessa subisce i contraccolpi dell’era cibernetica[64] segnata dall’evoluzione tecnologica. Nel senso che la scienza, rispetto al ruolo sociale assunto nel XIX e XX secolo, sconta una battuta d’arresto[65], mentre la tecnologia la sopravanza e continua nella sua opera di rimodellamento della realtà[66].

Nonostante ciò, il rapporto filiale tra tecnologia e scienza è alla base della sua affermazione e diffusione nella contemporaneità: la funzione legittimante della scienza – lo si è visto – vale come forma di giustificazione del potere, laddove, però, il potere non è esclusivamente quello delle istituzioni statali o degli attori politici, bensì quello di qualsiasi soggetto capace di influenzare direttamente o indirettamente le decisioni sulla vita della collettività. Le nuove tecnologie sono diventate ormai parte integrante della comunicazione pubblica e privata, potrebbe dunque dirsi parte integrante della stessa formazione del pensiero: grazie alla rete ci si informa, grazie alla rete si interagisce con altri che condividono o contrastano le nostre idee, grazie alla rete si dispone di una conoscenza pressoché infinita di cui a volte si ritiene di poter liberamente usufruire e padroneggiare.

Tutto ciò che è tecnica è anche oggettivo (neutrale) proprio perché è scientifico. A ben guardare, la metodologia alla base di tale asserzione è la stessa che si è già avuto modo di analizzare precedentemente: è un’appropriazione che questa volta non avviene tramite una ritirata strategica, bensì attraverso un balzo in avanti della tecnica rispetto alla stessa scienza costruito sull’immedesimazione della prima rispetto alla seconda, strumentale a guadagnarsi quella forma di legittimazione che è la fiducia, celando una sorta di emancipazione della tecnica rispetto ai confini dell’esperienza scientifica. La tecnologia da strumento della scienza, diviene strumento “scientifico” a servizio dei poteri che riescono a servirsene. È questo, in realtà, un fenomeno che è sempre accaduto sin dall’antichità; la novità del nostro tempo è la diffusione senza precedenti di queste tecnologie tra le popolazioni, capaci ormai di arrivare a ciascun singolo individuo.

La questione è questa: la tecnologia, in quanto strumento scientifico, ha sì l’astratta possibilità di essere oggettiva e quindi neutrale, ma a non essere neutrale è l’uso che se ne fa, proprio in quanto strumento. Invece, questa componente legata all’utilizzo dello strumento tecnico viene come assorbita dalla natura scientifica della tecnica: la giustificazione dell’impiego sempre più massivo di tali strumenti riposa sulla fiducia nel loro carattere scientifico[67] da parte della collettività, dimenticandosi però che la scientificità di un risultato scaturisce dal rispetto di una determinata procedura, dall’aver osservato tutti i passaggi necessari con trasparenza e rigore. Le modalità di selezione dei dati, le regole secondo cui sono impostati gli algoritmi et similia, sono a volte opachi ed è in questa opacità che si cela l’uso della tecnologia non necessariamente solo da parte della politica, ma da parte del potere.

Il discorso sulla scienza sta, dunque, sullo sfondo, costituisce la premessa del discorso sulla tecnica. I temi della neutralità e della legittimazione (giustificazione) indagati in relazione alla scienza ed alla comunità scientifica ritornano con riferimento alla tecnica, che è cosa a sé rispetto alla scienza ma che trae fondamentalmente da questa la propria autorevolezza (giustificazione). Le nuove tecnologie, con la loro pervasività e capacità di influenzare le scelte e dunque la vita delle persone su scala nettamente maggiore, rappresentano la nuova frontiera in cui situare queste riflessioni, tenendo a mente che è questa la dimensione – quella dell’infosfera – in cui esiste l’uomo contemporaneo, ed in cui debbono esistere le sue pratiche sociali, ivi compreso il diritto.

Pertanto, la tecnologia, innestandosi sul diritto, come su qualunque altra cosa, lo riconfigura: nell’«età dei diritti»[68] la proliferazione di questi (siano essi individuali o collettivi) li ha resi «veleno e cura del loro stesso veleno»[69]; i diritti e le libertà, da armi dei cittadini non più sudditi contro il potere, corrono il rischio, nel loro espandersi e sminuirsi, se non di porsi al servizio dei moderni poteri, di armare la mano dei cittadini contro se stessi[70]. E ciò anche grazie alle tecnologie[71]. Queste ultime, infatti, tendono a divenire sempre più soggetto anziché mezzo, in un certo senso lo strumento (della scienza ma anche, ormai, come scritto pocanzi, di qualsiasi persona) “cattura” il soggetto: «le conoscenze sulla base delle quali gli agenti umani prendono le loro decisioni sono fornite in misura sempre maggiore da sistemi tecnologici (più o meno) automatizzati»[72].

Ci si potrebbe domandare per quale motivo ciò non ingenera adeguate preoccupazioni nella collettività. La risposta è: perché quelle conoscenze sono considerate oggettive, si basano su dati asseritamente neutrali, quindi non intaccano in alcun modo la libertà delle nostre scelte, non ci dicono cosa fare, non negano la nostra libertà. In altri termini, non sono oracoli.

5.1. Oggettività dei dati e “numeri politici”.

Un qualsiasi strumento tecnico – lo si accennava nel precedente paragrafo – di per sé è neutrale, è l’uso che se ne fa che può dare luogo ad un giudizio di natura assiologica; è una comune asserzione di buon senso. Il punto è comprendere chi fa uso di che cosa. La rete non può usare gli uomini: sino a quando non si giungerà allo scenario un poco inquietante della singolarità tecnologica[73], essa non possiede una propria volontà. Ma, dunque, a quale “volontà” risponde la rete? A quella degli uomini che la utilizzano o a quella degli uomini che la strutturano, che la impostano?

La convergenza tra rete e Intelligenza Artificiale[74] (d’ora in poi IA) dà origine ad un curioso meccanismo: internet, grazie ai suoi utenti integrati in un’infrastruttura globale universale, offre quantità pressoché infinite di dati personali[75] (i c.d. Big Data[76])[77]. Queste immense quantità – condizione essenziale per il funzionamento stesso dell’IA – vengono elaborate grazie alla straordinaria capacità di calcolo odierna[78] dell’IA, che opera tramite algoritmi[79]. In questo modo i Big Data divengono pienamente sfruttabili dalla rete. Questo circolo di dati ed informazioni (“grezzi” ed elaborati) che si autoalimenta apre ad una pervicace capacità delle tecnologie di influenzare o condizionare l’opinione pubblica[80], aumentando «le opportunità di controllo e manipolazione degli individui [e] prospettando nuovi pericoli per i valori sociali e i diritti fondamentali»[81].

È innegabile che le nuove tecnologie possano consentire un ampliamento degli spazi di libertà degli individui, una maggiore efficienza dei servizi offerti ai cittadini dalle pubbliche amministrazioni[82], un miglioramento sotto certi aspetti delle condizioni di vita. Ma è altrettanto innegabile che esista un lato oscuro[83] che parimenti merita di essere indagato.

Sotto il termine profilazione[84] riposa l’idea di classificare attraverso inferenze[85] gli individui sulla base dei loro dati personali per poter prevedere o influenzare i loro comportamenti. Queste informazioni, che erano considerate di scarto, divengono nuove e preziose merci – «la quarta merce fittizia»[86] – utili, sul versante privato, per la predisposizione di pubblicità mirate o micro-mirate atte a indirizzare e suscitare i consumi con una pervasività sconosciuta alle più tradizionali tecniche di marketing; sul versante pubblico, per la diffusione di fake news e di bot politici strumentali alla manipolazione dell’opinione pubblica ed all’inquinamento del dibattito sociale: si pensi al caso Cambridge Analytica[87]. In entrambi è evidente la menomazione di libertà e diritti quali la capacità di autodeterminarsi o la privacy e la conseguente restrizione degli spazi di libertà personale.

La dimensione dell’infosfera si traduce così, nel primo caso, in quello che è stato definito «capitalismo di sorveglianza», nel secondo, nel c.d. «Stato di sorveglianza»[88].

Come accennato poc’anzi il tema della sorveglianza è inestricabilmente connesso con quello dell’autonomia decisionale del soggetto. Il punto dirimente diviene, allora, se la decisione algoritmica, se la scelta individuale o politica fondata e giustificata dai dati, possa o meno essere discriminatoria in se stessa. Essendo l’algoritmo una formula matematica sì, ma pur sempre costruita dagli uomini[89], esso assume le fattezze inevitabili di un mediatore che veicola i pregiudizi (c.d. bias, ossia distorsioni) degli uomini che li progettano[90]. Un mediatore, però, subdolo in quanto occulto, in quanto ammantato da un’aurea di neutralità (derivata – come s’è detto – dalla sua natura tecnica, ossia scientifica, ossia asseritamente oggettiva, provata, “giustificata”) che, in ultima istanza, rischia di essere meramente fittizia[91]. Questa è ciò che è stata efficacemente definita la «superstizione contemporanea» alla base della diffusione travolgente di queste piattaforme: esse, infatti, rappresenterebbero la «”disintermediazione” dell’informazione e, dunque, la liberazione della conoscenza […però] queste piattaforme tecnologiche sono tutt’altro che neutrali[92], essendo prodotte da poche (e ricchissime) società commerciali che realizzano larghissimi profitti attraverso la raccolta, l’elaborazione e la vendita dei dati personali degli utenti che le utilizzano, fornendo sia informazioni che valutazioni realizzate attraverso l’elaborazione di questi dati. Esse, dunque, sono in grado di influenzare (o addirittura determinare) le decisioni individuali e collettive attraverso varie forme di nudging, di “spinte gentili”, meno visibili ma non per questo meno efficaci»[93].

Il ruolo dei “modellatori” degli algoritmi, di coloro che operano a monte della decisione algoritmica[94], assurge così a quello di potenziali registi dietro le quinte delle dinamiche politiche ed economiche, tramutandosi – come è stato paventato – «in dei “controllori dell’oracolo”, dal potere, potenzialmente, illimitato»[95], rispetto al quale «non vi sono ricette salvifiche valide universalmente»[96].

Astraendo dal funzionamento dell’algoritmo, poi, sono i numeri stessi a non poter offrire di per sé assicurazioni di neutralità, come si evince dal concetto dei c.d. “numeri politici”: «i numeri sono politici quando la relazione tra essi e la sfera politica non è di separazione ma piuttosto di reciproca costituzione. Tale rapporto di mutua definizione si manifesta in molteplici aspetti. In primo luogo, la natura politica dei numeri è visibile già nella loro genesi: la scelta di cosa, quanto e quanto spesso misurare è in sé discrezionale, così come discrezionale è la scelta di come presentare e interpretare i risultati della misurazione. È, in secondo luogo, imbevuto di discrezionalità il fatto che, nel ritrarre e semplificare la realtà, i numeri determinano i confini del possibile e dell’impossibile, aprendo o chiudendo diversi corsi d’azione»[97]. Come ampiamente dimostrato dalle modalità con cui si è affrontata l’emergenza pandemica da SARS-CoV-2 nei diversi paesi.

E dire che il velo di Maya era già stato squarciato abbondantemente anzitempo. Secondo Carl Schmitt, in particolare, «la tecnica è sempre e soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale»[98]; mentre la prima legge di Kranzberg postulava che «la tecnologia non è né buona, né cattiva; e neppure neutrale»[99]. Ciononostante, il mito della neutralità – fomentato al fine di rinsaldare la legittimità dell’uso ad ampio spettro degli strumenti tecnologici – ha fatto proseliti; una giustificazione poggiata sulla sabbia della superstizione è bastata ad innalzare il totem dell’autorevolezza, a trasformare l’opacità dell’oracolo in limpidezza.

5.2. Questioni di regolamentazione giuridica.

L’IA pone al diritto anche il problema della sua efficienza regolatoria. È un tema esteso ed importante che non può essere esaurito in questa sede, ma cui si ritiene di dover accennare in conclusione di un lavoro che intende trattare del rapporto tra diritto e tecnologia.

La legge – intesa tanto come legge formale del Parlamento quanto come atti aventi forza di legge del governo – risulta ampiamente inadeguata allo scopo per i tempi che essa richiede, spesso non compatibili con l’avanzamento costante e a volte impetuoso delle conoscenze in questo settore. È necessaria una maggior flessibilità. Quest’ultima normalmente si rinviene nel c.d. soft law, o per meglio dire nell’autoregolamentazione. «Le regole non-legalmente vincolanti (non-legally binding), quindi, generano la propria effettività, cioè la propria forza normativa, in quanto veicoli autorevoli, e non autoritari, della migliore e più avanzata conoscenza»[100]. Trattasi di codici di condotta, linee-guida comuni, norme etiche[101].

La domanda che sorge spontanea, nella cornice che si è tracciata poc’anzi, è se è così rassicurante che siano quegli stessi “controllori dell’oracolo” a porre i confini del proprio operato. Discutendo di autoregolamentazione è stata avanzata una classificazione in quattro tipologie: “volontaria”, ove non c’è alcun coinvolgimento, diretto o indiretto, dello Stato; “delegata”, ove lo Stato è deputato a delineare una cornice normativa; “approvata”, ove il testo è sottoposto all’approvazione dello Stato; “obbligata”, ove il testo viene sviluppato come risposta alla minaccia della sanzione Statuale. Le ultime tre vedono un ruolo più incisivo dello Stato, collocandosi «all’interno di quella che sul piano teorico viene definita come […] “meta-regulation”. […Essa] si pone dunque a metà strada tra la hard law e la self-regulation, delle quali riesce a coniugare, rispettivamente, la flessibilità e il rigore». Rispetto alla legge formale, comunque, il grado di garanzia e pubblicità risulta inevitabilmente inferiore.

Deve, in ultimo, essere rammentata la rilevanza che in questo discorso riveste il “codice algoritmico”. Come evidenziato supra, un algoritmo riflette la qualità dei dati su cui è costruito, pertanto è possibile immettere determinate regole di diritto «nel codice dei dispositivi tecnologici, nel tentativo di affrontare i problemi posti dall’innovazione per mezzo della tecnologia stessa»[102]. Ciò nelle forme del già ricordato nudging o della più performante “tecno-regolazione”, ossia l’intenzionale incorporazione di norme direttamente nel codice. Di nuovo, il punto è quello relativo alle garanzie di un tale procedimento ed alla legittimazione (ormai lo si è compreso, stentatamente riconducibile alle sponde rasserenanti della neutralità) di chi lo porta avanti: il controllo del corpo elettorale risulta essere alquanto blando, per non dire effimero.

Per le ragioni suesposte, la soluzione della questione sul piano legislativo è di difficile individuazione, a meno che non si opti per astenersi da una regolamentazione di dettaglio in favore di una di principio. Ciò, però, imporrebbe – per non ricadere in forme più o meno stringenti di autoregolamentazione e relative disfunzioni sul piano dei rapporti propri delle liberaldemocrazie (garanzie dei procedimenti decisionali e legittimità degli autori ad assumere quelle decisioni destinate ad impattare fortemente sulla collettività) – una diversa interpretazione del ruolo della giurisprudenza[103] che, tra l’altro, in nuce è già visibile oggi: a fronte di un diritto legislativo lacunoso, inadeguato o addirittura illegittimo opera da sé una costituzionalizzazione del diritto, un sindacato per principî oltre che per regole[104] inscritto nel «metodo, oggi diffuso, della dottrina dei valori»[105]. Per loro natura «i principii pretendono […] di essere interpretati, in ragione della loro indeterminatezza ed elasticità. Qualità queste […] che hanno bisogno dell’interprete […] investito di una funzione valutativa che gli permetta di individuare il principio nel concreto dell’esperienza e convertirlo in strumento efficacemente disciplinatore del magma sociale. L’asse portante della nostra civiltà post-moderna è necessariamente spostata da un nomoteta (troppo spesso impotente o sordo) all’interprete, soprattutto al giudice, che per sua vocazione professionale (e non burocratica) ha di fronte la questione ed è chiamato a dirimere la controversia»[106]. Trattasi di una progressiva giurisdizionalizzazione del diritto, «intesa come spostamento del punto focale dell’analisi dall’origine all’uso delle norme in funzione di quella che è stata definita la legalità del caso»[107].

Detta interpretazione, almeno in parte, non può non confliggere coi dettami del positivismo giuridico. Al contempo, però, essa è coerente con l’idea di diritto propria di chi lo ha inventato (almeno nell’accezione che gli diamo noi oggi): «il diritto […] è un’ars: parola difficilissima da rendere, perché in latino traduce esattamente il greco téchne, ma entrambe le parole significano molto di più della nostra “tecnica”, e qualcosa di meno della nostra “arte”. Significano un insieme di conoscenze e di abilità che si devono acquisire in vista di un risultato di qualità; che non possono essere ricondotte a una successione di operazioni sempre uguali, quantitativamente misurabili, eseguibili e ripetibili da chiunque, al limite da una macchina come da un computer […]; ma neppure richiedono il “genio” […] L’arte degli antichi è piuttosto una specie di sapienza artigiana, che richiede dedizione e apprendistato, passione e rigore, per lo sviluppo di una forma di conoscenza non integralmente riducibile a una procedura: e tale è anche il diritto»[108]. Inoltre, deve anche essere rammentato come «il diritto non [sia] originariamente un insieme di norme, ma una pratica sociale che richiede l’adeguata applicazione di un’efficace e compiuta metodologia di composizione della controversia, articolata nella disputa di opposte posizioni destinate a risolversi in un giudizio rappresentato in un testo scritto: per esempio, la sentenza, la legge o il contratto»[109].

In una cornice siffatta la norma – espressione transeunte del Kratos – che decide la controversia, più o meno diretta emanazione dei principî costituzionali, trova giustificazione[110] nella stessa Costituzione, non in virtù di una fittizia neutralità ma dei valori condivisi su cui si regge il regime democratico, con gli equilibri dinamici tra i suoi poteri da ricercare, ma sempre dentro le istituzioni. Il prezzo da pagare per questa “fluidità” del sistema[111] è certamente una minor “calcolabilità”, ovvero prevedibilità, del diritto. Ma, forse, la scelta, nella terra di frontiera che siamo destinati ad abitare, è tra un giudice che deve motivare le proprie sentenze e un oracolo che emette vaticinî senza, invece, addurre ragioni.

  1. Dottore in Giurisprudenza, specializzato presso la SSPL “Bruno Caccia e Fulvio Croce” dell’Università degli Studi di Torino.
  2. Sul punto si veda P. Moro-C. Sarra (a cura di), Tecnodiritto. Temi e problemi di informatica e robotica giuridica, Franco Angeli, Milano, 2017.
  3. Sostiene R. Ferrara, Il giudice amministrativo e gli algoritmi. Note estemporanee a margine di un recente dibattito giurisprudenziale, in Dir. amm., n. 4/2019, §. 1, che «la penetrazione delle “regole della tecnica nel diritto” […] sembra essere un fenomeno di portata addirittura epocale capace di imporre un rinnovato ordine di riflessioni, e forse di conclusioni di valore sicuramente sistemico».
  4. Il riferimento è a C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (1922), trad. it. Le categorie del politico, Il Mulino, Bologna, 1972.
  5. Nell’ambito dell’ampia famiglia dei coronavirus (CoV) il SARS-CoV (Severe acute respiratory syndrome) venne identificato per la prima volta nel 2002 sempre in Cina. La dichiarazione dell’OMS in merito all’individuazione ad opera delle autorità sanitarie cinesi del nuovo ceppo di coronavirus classificato ufficialmente col nome di SARS-CoV-2 è del 19 gennaio 2020.
  6. Forma piena del potere che attua il comando col semplice kara, il cenno del capo.
  7. M. Cacciari-N. Irti, Elogio del diritto, La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 78.
  8. In tal senso M. Malvicini, Politica, legislazione e amministrazione dell’emergenza tra legittimazione tecno-scientifica e diritto costituzionale: appunti a partire dall’emergenza sanitaria, in ID. (a cura di), Il governo dell’emergenza. Politica, scienza e diritto al cospetto della pandemia COVID-19, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, p. 91. Il quale cita A. Lippi, Dinamiche di legittimazione politica, Il Mulino, Bologna, 2019, pp. 86-94 e ss..
  9. L. Verzelloni, La parola agli esperti. Da oracoli ad attori responsabili? in M. Malvicini (a cura di), Il governo dell’emergenza, cit., p. 4.
  10. La rinascita del diritto ad opera di Irnerio ha luogo a Bologna agli inizi del XII secolo. Egli insieme ai suoi diretti allievi, tra cui spiccano i “quattro dottori” Bulgaro, Martino, Iacopo ed Ugo che parteciparono alla dieta di Roncaglia convocata dall’Imperatore Federico Barbarossa nel 1158, seppe ricostruire i libri legales giustinianei e, così facendo, creò le condizioni per la nascita della professione del giurista.
  11. Sottolinea M. Caravale, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 21, che «la possibilità di considerare ancora vigente nel secolo XII e nei secoli successivi norme giuridiche dell’antichità […] si fondava sia sulla tradizione altomedievale, difesa e confortata dalla Chiesa, per la quale il diritto romano era la lex mundana per excellentiam, sia sulle stesse parole di Giustiniano. L’imperatore bizantino, infatti […] aveva dichiarato di aver avuto direttamente da Dio l’incarico di dettare “universis hominibus” le regole che li dovevano guidare nei loro rapporti intersoggettivi: regole certamente compatibili, data la fonte dell’incarico, con il diritto divino. […] La legge del Medioevo presenta un carattere di eternità perché connessa ad un valore superiore, etico, razionale, equitativo che la distacca dalla contingente realtà sociale in cui è nata».
  12. G. S. Pene Vidari, Storia del diritto. Età medievale e moderna, Giappichelli, Torino, 2011, p. 179.
  13. Per riprendere la felice espressione contenuta in P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto privato, Giuffrè, Milano, 1998.
  14. M. Tallacchini, Diritto e scienza, in B. Montanari (a cura di), Luoghi della filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2012, p. 149.
  15. In tal senso M. Tallacchini, Diritto e scienza, cit., p. 150, secondo la quale «la possibilità di un sapere oggettivo, certo e neutrale, nel senso di non-condizionato dalla soggettività del ricercatore/sperimentatore e costruito in modo da consentire la sistematica eliminazione delle tracce di soggettività ed arbitrio, conquista irreversibilmente gran parte della riflessione giuridica moderna, e poi contemporanea».
  16. Il riferimento è a A. Wildafsky, Speaking Truth to Power, Little Brown and Co., Boston Ma., 1979.
  17. Così Y. Ezrahi, The Descent of Icarus, Harvard University Press, Cambridge Ma., 1990, citato in M. Tallacchini, Diritto e scienza, cit., p. 152.
  18. S. O. Funtowicz-J. R. Ravetz, Science for the Post-normal Age, in Futures, 25, n. 7, 1993, pp. 739-755. Traduzione nostra.
  19. In tal senso anche M. Tallacchini, Territori di incertezza: scienza, policy e diritto nella pandemia, in M. Malvicini (a cura di), Il governo dell’emergenza, cit., p. 43, la quale scrive che «l’avvento di tecnologie convergenti (nanotecnologie, gene editing, AI) ha spinto il concetto di incertezza oltre la dimensione epistemica. Jean-Pierre Dupuy ha osservato (a proposito delle nanotecnologie) che l’incertezza “intrinseca” di processi aventi natura stocastica e la cui complessità non è semplificabile è diversa dalla non conoscenza di un fenomeno dato. L’unico modo per determinare il comportamento di tali sistemi consiste nell’avviarli per vedere il loro dispiegarsi. Non esistono altre scorciatoie e l’incertezza è radicale».
  20. Il riferimento è a A. Wildafsky, Speaking Truth to Power, cit.
  21. Secondo la ricostruzione di S. Jasanoff, Science and Public Reason, Routledge, Oxon, 2012. Della stessa autrice vedasi anche il meno recente States of Knowledge: The Co-production of Science and Social Order, Taylor & Francis, London, 2004.
  22. In tal senso M. Tallacchini, Diritto e scienza, cit., p. 161.
  23. In tal senso G. Fontana, Ricerca scientifica e libertà di cura. Scientismo e antiscientismo nella prospettiva costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 169.
  24. In termini diversi, ma analogamente nella sostanza, E. Castorina, Scienza, tecnica e diritto costituzionale, in Rivista AIC, n. 4/2015, pp. 34-35: «Negli ordinamenti pluralisti europei, la sfera della bio-politica appartiene innanzitutto al legislatore che è chiamato a individuare un ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana, attraverso l’introduzione di tutele “minime” appunto perché espressione di convergenze “etico-normative” dei diversi interessi coinvolti».
  25. Per le citazioni che precedono U. Adamo, Materia “non democratica” e ragionevolezza della legge, in Consulta online, n. 1/2018, p. 308.
  26. Sottolinea A. Iannuzzi, Come decide la Corte costituzionale dinanzi a questioni “tecniche”: materie con rilevanza tecnico-scientifica, in M. Losana–V. Marcenò (a cura di), Come decide la corte dinanzi a questioni “tecniche”, in Collane@unito.it, Torino, 2020, p. 170, che «la tendenza a lasciare l’onere della valutazione al legislatore dipende […] dalla consapevolezza che la scienza non è generalmente filtrata dagli interessi ma che pure il dato scientifico può essere oggetto di un giudizio politico e che, quindi, la scienza nel momento stesso in cui è applicata guida e orienta le scelte politiche».
  27. S. Troilo, Come decide la Corte costituzionale dinanzi a questioni “tecniche”: la materia sanitaria, in M. Losana–V. Marcenò (a cura di), Come decide la corte, cit., p. 190.
  28. Per le citazioni che precedono A. Iannuzzi, Come decide la Corte costituzionale dinanzi a questioni “tecniche”: materie con rilevanza tecnico-scientifica, cit., rispettivamente pp. 169 e 174.
  29. In tal senso S. Troilo, Come decide la Corte costituzionale dinanzi a questioni “tecniche”: la materia sanitaria, cit., §. 2.3.
  30. Sentenza della Corte costituzionale n. 185/1998 (punto 8 in diritto) sul caso della terapia Di Bella.
  31. Corte costituzionale, sent. n. 282 del 2002, punto 4 in diritto. Analogamente in dottrina si veda A. Morrone, Il bilanciamento nello stato costituzionale. Teoria e prassi delle tecniche di giudizio nei conflitti tra diritti e interessi costituzionali, Giappichelli, Torino, 2014, p. 63, secondo il quale nelle «questioni biomediche o scientifiche in genere l’autonomia degli organi competenti deve essere salvaguardata e non può costituire un oggetto sul quale il legislatore può sovrapporre o addirittura, imporre una propria decisione».
  32. In tal senso M. Malvicini, Politica, legislazione e amministrazione dell’emergenza tra legittimazione tecno-scientifica e diritto costituzionale, cit., p. 114.
  33. In tal senso A. Ruggeri, Ragionevolezza e valori, attraverso il prisma della giustizia costituzionale, in Diritto e società, n. 2/2004, p. 570, che legge la ragionevolezza come «uno strumento per la soddisfazione di valori ma anche, proprio per ciò, esso stesso un valore, senza il quale gli “altri” valori vedrebbero gravemente compromessa la possibilità di una loro apprezzabile (se non pure compiuta, nei limiti segnati dalla loro storicizzazione) realizzazione».
  34. «…mentre la valutazione del rischio assimila l’incertezza al rischio calcolabile, il principio di precauzione tratta un rischio ipotetico non quantificato come effettivo, con un preciso orientamento a favore della sicurezza». Così M. Tallacchini, Territori di incertezza, cit., p. 41.
  35. F. De Leonardis, Il principio di precauzione nella gestione dell’emergenza epidemiologica: dall’attività puntuale alla programmazione e all’organizzazione, in M. Malvicini (a cura di), Il governo dell’emergenza, cit., p. 56. Corsivo nostro. Sul punto si veda anche F. De Leonardis, Tra precauzione e ragionevolezza, in https://federalismi.it/, n. 21/2006, (31.10.2006), p. 8, in cui l’Autore ricorda le tre condizioni cui è sottoposta la decisione precauzionale: «1) deve basarsi sui dati tecnico-scientifici disponibili (non importa se incerti); 2) deve essere adeguata alle condizioni concrete dei luoghi in cui deve avere esecuzione e proporzionata ai suoi scopi; 3) deve presupporre un’analisi costi-benefici». Specificamente sul tema del principio di precauzione nella giurisprudenza costituzionale può, invece, vedersi G. Ragone, Il principio di precauzione nella prospettiva del giudice costituzionale, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 2/2019.
  36. L. Verzelloni, La parola agli esperti, cit., p. 5, il quale cita E. C. Hughes, Men and their work, Free press, Glencoe, 1958. Corsivo nel testo.
  37. «Come messo in luce dalla letteratura specialistica su questi temi, negli ultimi anni gli indicatori statistici hanno assunto un ruolo centrale nella governance politica ed economica a livello globale. Le decisioni delle agenzie internazionali, così come delle istituzioni nazionali, delle organizzazioni non governative, dei soggetti economici e degli investitori su scala globale si basano sempre più spesso su queste particolari “tecnologie di produzione di conoscenza e governo globale”. Nel corso del tempo, pertanto, gli esperti che, a vario titolo, si occupano di ideare, testare, validare, ed eventualmente ridefinire, la formulazione e il contenuto degli indicatori – statistici, matematici, economisti e ingegneri – hanno acquisito un enorme potere». Così L. Verzelloni, La vana ricerca della neutralità: razionalità ibride e bilanciamento di poteri, in tempi di crisi e non, in https://federalismi.it/, n. 28/2020, (12.10.2020), p. 206.
  38. «Il giudizio [degli esperti] è, infatti – apparentemente – depoliticizzato, in quanto fondato su verità dimostrabili scientificamente […] A differenza di quanto avviene nelle arene democratiche, i tecnici hanno il potere di proporre delle soluzioni oggettivizzanti, che non possono essere contestate da chi non è un tecnico». Così L. Verzelloni, La vana ricerca della neutralità, cit., pp. 197-198.
  39. L. Verzelloni, La parola agli esperti, cit., p. 5.
  40. L’autorevolezza dell’esperto trova fondamento in quella forma di legittimazione che è la fiducia: «la fiducia può favorire la legittimazione dell’autorità politica in base a un ”insieme di valori pregressi e condivisi in un dato contesto sociale” […] Proprio perché la dimensione istituzionale della fiducia si alimenta delle aspettative riposte nei sistemi di competenze e conoscenze (riconosciute come valide in un certo settore e che governano le istituzioni e le organizzazioni a esso afferenti), il ricorso alle comunità di esperti […] è senz’altro una delle risorse più efficaci a disposizione delle autorità politiche per rafforzare la loro legittimazione sul piano formale e/o sostanziale». Così M. Malvicini, Politica, legislazione e amministrazione dell’emergenza tra legittimazione tecno-scientifica e diritto costituzionale, cit., p. 96, il quale cita A. Lippi, Dinamiche di legittimazione politica, cit., p. 91.
  41. La circostanza, poi, che, attraverso la violazione delle regole del discorso pubblico, posizioni dichiaratamente anti-scientifiche, per ragioni meramente strumentali o per ingenue convinzioni radicate nella scarsità degli strumenti culturali, guadagnino credito si inscrive nel più ampio fenomeno della disintermediazione che segna la crescente insofferenza degli individui verso l’affidamento ad altri (depositari di conoscenze specifiche) preferendo, invece, decidere da sé – tanto sulle soluzioni quanto su chi fidarsi –, anche su argomenti che non si conoscono o di cui si possiede una conoscenza solo parziale. È un atteggiamento molto prossimo al complottismo, che il paternalismo istituzionale non può sconfiggere, essendo aggredibile soltanto dall’auto-responsabilizzazione dei cittadini, da una pratica in cui questi, da individui che si muovono atomisticamente negli spazi del potere, ridivengono persone: «la persona si oppone all’individuo in quanto ella è dominio, scelta, formazione, conquista di sé» (E. Mounier, Rivoluzione personalista e comunitaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1955, pag. 88).
  42. Nella teoria dell’argomentazione, quanto fatto dall’esponente politico italiano, prende il nome di fallacia dell’appello all’autorità, ossia sostenere una tesi fondandola sull’opinione di un esperto (vero o presunto) senza circostanziarla o, come nel caso in esame, mistificandone il contenuto.
  43. Per le citazioni che precedono L. Verzelloni, La parola agli esperti, cit., rispettivamente pp. 12 e 11. Con riferimento all’ultimo punto, l’autore sostiene che l’esperto sia responsabile solo professionalmente per il proprio operato innanzi la comunità epistemica di riferimento, mentre non risponderebbe agli apparati amministrativi (administrative accountability), alle regole ordinamentali e agli apparati giudiziari (legal accountability), oltre che alla società ed alla politica (social and political accountability). Sul punto si veda l’opera citata supra, pp. 9-12.
  44. In tal senso sempre L. Verzelloni, La parola agli esperti, cit., pp. 13-14: «Al pari dei manutentori, infatti, gli esperti sono portati a giocare strategicamente, ossia a sfruttare la loro posizione di dominanza nelle situazioni di incertezza. È una questione di asimmetria informativa e conoscitiva: chi ha a disposizione le informazioni rilevanti, chi detiene le competenze per leggere la realtà, chi ha già vissuto esperienze analoghe, ha un “vantaggio competitivo” sugli altri. In tal senso, come detto, gli esperti tentano continuamente di riaffermare la loro utilità sociale, per essere riconosciuti come gli unici soggetti autorevoli, da ascoltare e coinvolgere nelle decisioni di governance pubblica. È un gioco strategico. E, come tale, deve essere interpretato, nella consapevolezza che tutti gli individui – per definizione, razionali – tendono sempre a massimizzare le risorse di cui dispongono, proprio per ottenere o mantenere potere – inteso come “dominanza”, potenzialmente senza limiti e, di conseguenza, capace di soverchiare e soggiogare chi detiene l’autorità formale, ossia il potere legittimo».
  45. L. Verzelloni, La vana ricerca della neutralità, cit., p. 209. Corsivo nostro.
  46. Ed è umanamente comprensibile solo sulla base di una premessa: compito delle istituzioni è di tranquillizzare la popolazione, non di porla criticamente di fronte alla realtà. In un frangente emergenziale in cui le istituzioni stesse sono prese in contropiede, onde evitare il panico, è loro compito anche rassicurare la popolazione, ma questo atteggiamento paternalistico deve circoscriversi a ciò che è strettamente necessario. Lo sviluppo del pensiero critico tra i cives, infatti, è condizione essenziale per una pratica democratica che abbia senso, che voglia emanciparsi dalle soluzioni semplificatorie e dagli schemi precostituiti, che voglia esercitare quella «capacità negativa» descritta da John Keats (A George e Thomas Keats, 21 dicembre 1817, in Lettere sulla poesia, Feltrinelli, Milano, 2016). Saper convivere con l’incertezza ed il dubbio, con la consapevolezza dell’illusorietà delle verità assolute, con la limitatezza ontologica della comprensione umana, è una pratica di coraggio – che contrasta con la debolezza – di cui una società democratica non può fare a meno: parafrasando Hobbes, ciò che rende inevitabile la violenza non è la forza o la prepotenza di alcuni, ma la debolezza dei molti.
  47. «[…] cioè un mondo nel quale l’uomo, l’homo faber, ossia lo scienziato scopre la tragica fallibilità del suo sapere ridotto a mere “congetture”, e pertanto il carattere perplesso e labirintico della verità (di ogni verità), è forse il contesto materiale dal quale origina la “modernità liquida” alla quale fa riferimento la più raffinata cultura sociologica degli ultimi decenni (U. Beck, Z. Bauman). E infatti il rischio è foriero (e anzi quasi sinonimo) di incertezza, forse di un’incertezza in qualche modo calcolabile, e quindi non sempre irriducibile, ma è comunque pur sempre espressivo di un pensiero “debole”, tale da rappresentarci una condizione materiale (e quasi esistenziale) nella quale non possono esserci che verità e principi “liquidi”, ossia relativi e magari addirittura transitori» (R. Ferrara, Scienza e diritto nella società del rischio: il ruolo della scienza e della tecnica, in Diritto e processo amministrativo, n. 1/2021, §. 3).
  48. L. Verzelloni, La vana ricerca della neutralità, cit., pp. 209-210. Corsivo nostro.
  49. «…l’incertezza scientifica non equivale ad arbitrio e non giustifica decisioni politiche arbitrarie». Così M. Tallacchini, Territori di incertezza, cit., pp. 43-44.
  50. M. Malvicini, Politica, legislazione e amministrazione dell’emergenza tra legittimazione tecno-scientifica e diritto costituzionale, cit., p. 98 e ss..
  51. G. Silvestri, Covid-19 e Costituzione, in www.unicost.eu, (10. 04.2020), §. 1. Analogamente anche la Relazione della presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019, Palazzo della Consulta, 28 aprile 2020, in www.cortecostituzionale.it, p. 26: «La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza […] Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri. […] Anche nel tempo presente, dunque, ancora una volta, è la Carta costituzionale così com’è – con il suo equilibrato complesso di principi, poteri, limiti e garanzie; diritti, doveri e responsabilità – a offrire a tutte le istituzioni e a tutti i cittadini la bussola che consente di navigare “per l’alto mare aperto” dell’emergenza e del dopo emergenza che ci attende».
  52. In tal senso si veda, ad esempio, nel solco di un noto orientamento dottrinale, un articolo, pubblicato nel 1924 sulla rivista La rivoluzione liberale di Piero Gobetti da Carlo Rosselli, intitolato Liberalismo socialista, oggi in C. ROSSELLI, Scritti politici a cura di Z. Ciuffoletti-P. Bagnoli, Guida, Napoli, 1988, secondo il quale la democrazia è un gioco tra élites e non tra movimenti di massa. Ciò che, più in generale, caratterizza il c.d. “elitismo democratico” è proprio il tentativo di «conciliare l’ethos democratico con la indispensabile funzione di guida delle élites». Così F. Bonichi, Élite e democrazia: una «promessa mantenuta»? in SocietàMutamentoPolitica, vol. 8, n. 15, 2017, p. 228, (https://fupress.com/). Corsivo nostro.
  53. Sottolinea A. D. Lindsay, The Modern Democratic State, Oxford University Press, London, 1943, p. 261, che «se vuole sopravvivere, la democrazia dovrà sfruttare ogni briciola di abilità, di sapere e di leadership che riuscirà ad avere. Non si può dirigere il complesso mondo interdipendente in cui viviamo senza sapere e competenza, previdenza e leadership. Ogni culto dell’incompetenza non porterà che al disastro». Traduzione nostra. Sul punto si veda anche G. L. Field-J. Higley, Elitism, Routledge, London and Boston, 1980.
  54. Rileva C. Lasch, La ribellione delle élites. Il tramonto della democrazia, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 43, che «lo snobismo delle nuove élites non riconosce in nessun modo l’esistenza di obblighi reciproci tra i pochi privilegiati e le masse», identificandosi in una deresponsabilizzazione nei confronti dell’agathon, il bene comune.
  55. Questione su cui già si interrogò A. Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, vol. 3, p. 1752 e ss., individuando nel partito politico il mezzo «più adeguato per elaborare i dirigenti e le capacità di direzione» in vista di una piena integrazione delle masse nel progetto di una «società regolata» (autodeterminazione piena del corpo sociale).
  56. «L’espressione “democrazia rappresentativa” significa genericamente che le deliberazioni collettive, cioè le deliberazioni che riguardano l’intera collettività, vengono prese non direttamente da coloro che ne fanno parte ma da persone elette a questo scopo». Così N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, p. 36 e ss..
  57. A. Sterpa, Come tenere insieme la “disintermediazione” istituzionale e la rappresentanza della Nazione?, in Federalismi.it, n. 24/2018, (19.12.2018), p. 3, parla di “direttismo” sottolineando criticamente che «oggi facciamo scegliere da altri tanto quanto facevamo ieri, ma con forme diverse, in certi casi poco visibili. Cosa sono, infatti, i motori di ricerca, le archiviazioni di banche dati, gli algoritmi e i big data se non altro che forme nuove di intermediazione?». Di “direttismo”, con specifico riferimento alle esperienze di democrazia diretta in Italia, parla anche A. Di Giovine, Fra antipolitica e direttismo: qualche spunto sul referendum in Italia, in Studi in onore di Umberto Pototschnig, Giuffrè, Milano, 2002.
  58. Per una lettura giuridica del mito si veda M. Cartabia-L. Violante, Giustizia e mito: con Edipo, Antigone e Creonte, Il Mulino, Bologna, 2018. Più specificamente sul ruolo dell’oracolo si veda la recensione del libro suindicato di S. Cassese, Il diritto nello specchio di Sofocle, in Il Corriere della Sera, (18.05.2018).
  59. Per un approfondimento sul concetto di “infosfera” si veda L. Floridi, La quarta rivoluzione, Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
  60. Il riferimento è a Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, Utet, Torino, 1965, libro VIII, cap. II.
  61. Sottolinea questa ambivalenza bifronte sul tema dei diritti umani M. Cartabia, In tema di “nuovi” diritti, in Scritti in onore di F. Modugno, Editoriale Scientifica, Napoli, 2011, I, p. 643, per cui «anziché servire allo scopo originario di baluardo della persona umana contro le degenerazioni del potere […] diventano essi stessi – magari in buona fede – strumenti di potere».
  62. Sul tema si veda N. Irti, Il diritto nell’età della tecnica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007.
  63. P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali. La questione del metodo, in Journal of Ethics and Legal Technologies, vol. 1, 2019, p. 39.
  64. Il termine fu coniato nel 1948 da N. Wiener, Cybernetics or Control and Communication in the Animal and the Machine, The M.I.T. Press, Cambridge Ma., 1948.
  65. Sul rapporto tra tecnologia e scienza si veda S. Leonelli, La ricerca scientifica nell’era dei Big Data. Cinque modi in cui i Big Data danneggiano la scienza, e come salvarla, Meltemi Editore, Milano, 2018.
  66. «La scienza ha così mostrato il proprio compimento nella “modernità liquida”, dimostrando di non essere una conquista irreversibile, ma un evento storico singolare e limitato nel tempo e nello spazio. Al contrario, la tecnologia appare un fenomeno costante che, essendo una metodologia, è originario ed appare una parte strutturale dell’essenza dell’uomo». Così P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali, cit., p. 39, che richiama la nota nozione contenuta nel saggio di Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011.
  67. Che è cosa diversa dalla fiducia nella scienza: coloro che sostengono posizioni antiscientifiche non per questo contrastano le nuove tecnologie (non tutte almeno), anzi possono trarne conforto per le loro idee. D’altronde costoro si scagliano contro la scienza “ufficiale”, definendola asservita o falsa, a fronte di un sapere autentico ossia quello antiscientifico che identificano come la “vera” scienza. Pertanto qui non è rigettato il connotato della scientificità in quanto tale (giustificazione, ad esempio, delle tecnologie – potremmo dire – gradite), quanto piuttosto la valenza scientificamente ufficiale della scientificità.
  68. Il riferimento è a N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.
  69. T. Pitch, L’antropologia dei diritti umani, in A. Giasanti-T. Maggioni (a cura di), I diritti nascosti. Approccio antropologico e prospettiva sociologica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995, p. 195.
  70. Ad esempio, l’accrescimento incontrollato di nuovi presunti diritti comporta l’affievolimento delle loro tutele, le quali si pongono in un rapporto inversamente proporzionale con la ricordata moltiplicazione. In tal senso si veda G. Zagrebelsky, Diritti per forza, Einaudi, Torino, 2017.
  71. Stefano Rodotà legge il rapporto tra vita e tecnologia come innervato da una dialettica per cui, da un lato, le nuove tecnologie aprono nuovi spazi di libertà e di realizzazione personale, mentre, dall’altro, approntano nuovi strumenti di controllo per finalità di polizia o di mercato (S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 89 e ss.).
  72. In tal senso A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2019, p. 69 e ss.. L’Autore cita anche Michele Ainis, secondo il quale «qui ed oggi la questione dirimente non è più garantire la circolazione delle idee, bensì la loro formazione, la loro genuina concezione. Perché non siamo più liberi di pensare i nostri stessi pensieri, ecco il problema. Crediamo di pensare, ma in realtà ripetiamo come pappagalli i pensieri altrui. O al limite anche i nostri, però amplificati e deformati, senza verifiche, senza alcun confronto con le opinioni avverse. È l’universo autistico in cui siamo rinchiusi anche se per lo più non ci facciamo caso. Un universo tolemaico in cui il sole gira attorno la terra – ed è ognuno di noi, la terra» (M. Ainis, Il regno dell’Uroboro: benvenuti nell’epoca della solitudine di massa, La nave di Teseo, Milano, 2018, pp. 11-12).
  73. Il concetto di “singolarità tecnologica” è stato coniato da V. Vinge, The Coming Technological Singularity: How to Survive in the Post-Human Era, in Vision-21 Interdisciplinary Science and Engineering in the Era of Cyberspace, Proceedings of a symposium cosponsored by the NASA Lewis Research Center and the Ohio Aerospace Institute and held in Westlake, Ohio, 1993, pp. 11-22. Esso indica un momento ipotetico «in cui una civiltà cambia così tanto e rapidamente che le sue regole e le tecnologie sono incomprensibili per le generazioni precedenti» (Singolarità tecnologica, in https://treccanifutura.it/). Secondo un orientamento ciò coinciderebbe con l’autocoscienza dell’IA.
  74. Per Intelligenza Artificiale devono intendersi «quei sistemi che mostrano un comportamento intelligente analizzando il proprio ambiente e compiendo azioni, con un certo grado di autonomia, per raggiungere specifici obiettivi» (F. Sarzana Di S. Ippolito–M. Nicotra, Diritto della Blockchain, Intelligenza artificiale e IoT, Wolters Kluwer, Milano, 2018, p. 193).
  75. Di dato personale il Reg. Ue 2016/679 (GDPR), art. 4, par. 1, punto 1) fornisce la seguente definizione: «qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile (“interessato”); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale». Per una approfondita riflessione sulle implicazioni della disciplina del GDPR sulla IA, nell’ottica dell’emersione di «una vera e propria Governance europea della tutela dei dati personali nel mondo della IA» (p. 186), si veda F. Pizzetti, La protezione dei dati personali e la sfida dell’Intelligenza Artificiale, in ID. (a cura di), Intelligenza artificiale, protezione dei dati personali e regolazione, Giappichelli, Torino, 2018.
  76. Per Big Data deve intendersi «una situazione in cui si hanno a disposizione quantità enormi di dati (volume) di contenuto e provenienza variegata (variety), alta e rapida capacità di analisi (velocity), cui più di recente si è aggiunto il profilo della qualità e affidabilità dei dati (veracity) e del loro valore (value)» (S. Calzolaio, Protezione dei dati personali, in Dig. disc. pubb., Utet Giuridica, Milano, 2017, p. 599).
  77. «Questi flussi di dati sono oggi integrati in un’infrastruttura globale universale per la comunicazione, l’accesso alle informazioni, la fornitura di servizi pubblici e privati. Tale struttura, che si incentra su Internet ma non si limita ad essa, opera mediante algoritmi che indirizzano e trasmettono i dati, e mediano l’accesso a contenuti e servizi, selezionando per noi informazioni e opportunità. Tale infrastruttura connette oggi più di 30 miliardi di dispositivi fra loro interconnessi – computer, telefoni, mezzi di trasporto, macchine industriali, telecamere, ecc. -, che generano un’enorme quantità di dati elettronici, decine di volte superiore a tutti i dati registrati in forma analogica nella storia dell’umanità. I flussi di dati tra macchine – c.d. internet delle cose – sono già oggi molto superiori alle comunicazioni umane». Così F. Lagioia-G. Sartor, Profilazione e decisione algoritmica: dal mercato alla sfera pubblica, in https://www.federalismi.it/, n. 11/2020, (24.04.2020), p. 89.
  78. Sottolinea G. Italiano, Intelligenza Artificiale: passato, presente, futuro, in F. Pizzetti (a cura di), Intelligenza artificiale, cit., p. 218, che «la più grande differenza tra l’Intelligenza Artificiale del presente e quella del passato, è che adesso abbiamo a disposizione la potenza di calcolo necessaria, e che le grandissime quantità di dati disponibili e le tecniche per gestirli consentono all’Intelligenza Artificiale di ieri di esprimere appieno le sue potenzialità».
  79. «In informatica si definisce algoritmo una sequenza finita di operazioni elementari, eseguibili facilmente da un elaboratore che, a partire da un insieme di dati I (input), produce un altro insieme di dati O (output) che soddisfano un preassegnato insieme di requisiti», in Enciclopedia Treccani online (25.05.2021).
  80. Sottolinea I. Rivera, Il ruolo di Internet nell’ordinamento democratico contemporaneo. Prospettive evolutive e direttrici di sviluppo, in https://federalismi.it/, n. spec. 1/2017, (2.10.2017), p. 15, che «la tecnologia digitale diviene uno strumento positivo quando consente esclusivamente una maggiore capacità di diffusione delle opinioni che ciascun individuo ha la facoltà di esprimere, senza che questo, però, faccia venire meno il fisiologico processo di responsabilizzazione dei soggetti circa le idee e le ideologie esposte».
  81. F. Lagioia-G. Sartor, Profilazione e decisione algoritmica, cit., p. 86.
  82. Su questo punto si veda D.-U. Galetta-J. G. Corvalàn, Intelligenza Artificiale per una Pubblica Amministrazione 4.0? Potenzialità, rischi e sfide della rivoluzione tecnologica in atto, in Federalismi.it, n. 3/2019, (6.02.2019). Gli autori trattano anche la pronuncia del T.A.R. Lazio, sez. III-bis, del 10 settembre 2018, n. 9224, secondo la quale le procedure informatiche, «finanche ove pervengano al loro maggior grado di precisione e addirittura alla perfezione, non possono mai soppiantare, sostituendola davvero appieno, l’attività cognitiva, acquisitiva e di giudizio che solo un’istruttoria affidata ad un funzionario persona fisica è in grado di svolgere [… Alle stesse] va dunque riservato tutt’oggi un ruolo strumentale e meramente ausiliario in seno al procedimento amministrativo e giammai dominante o surrogatorio dell’attività dell’uomo» (punto 2.4 in diritto). Detta pronuncia è stata confermata dalla sentenza del T.A.R. Lazio, sez. III-bis, n. 6606/2019, in parziale contrasto con la decisione del Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2270/2019. Legge questo contrasto come più apparente che reale R. Ferrara, Il giudice amministrativo e gli algoritmi, cit. Sul rapporto tra nuove tecnologie e PA si veda anche R. Cavallo Perin (a cura di), L’amministrazione pubblica con i big data: da Torino un dibattito sull’intelligenza artificiale, in Collane@unito.it, Torino, 2021.
  83. In tal senso F. Rimoli, Democrazia, populismo digitale e “neointermediazione” politica: i rischi del cittadino telematico, in Liber Amicorum per Pasquale Costanzo – Diritto costituzionale in trasformazione, Vol. I – Costituzionalismo, Reti e Intelligenza artificiale, (Consulta OnLine), 2020.
  84. «Il termine “profilazione” deriva da “profilare”, che in origine significava tracciare una linea, e più in particolare i contorni di un oggetto. Questa è precisamente l’idea alla base della profilazione mediante l’elaborazione di dati: espandere le informazioni e i dati disponibili di individui e gruppi, in modo da disegnarne – descriverne o anticiparne – i tratti e le propensioni». Così F. Lagioia-G. Sartor, Profilazione e decisione algoritmica, cit., p. 90.
  85. Il metodo della dimostrazione deduttiva è quello tipico degli algoritmi supervisionati ovvero di programmazione informatica, mentre il metodo dell’inferenza induttiva è proprio degli algoritmi per rinforzo ovvero ad apprendimento automatico (come le reti neurali che imitano il funzionamento del cervello umano).
  86. In questi termini S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Profile Books, London, 2019, per la quale «le prime tre merci fittizie – la terra, il lavoro e il denaro – sono state assoggettate alla legge [per quanto in modo imperfetto]. L’espropriazione dell’esperienza umana da parte del capitalismo della sorveglianza non ha incontrato impedimenti siffatti» (p. 514). Traduzione nostra.
  87. Per un approfondimento sulle questioni si veda F. Lagioia-G. Sartor, Profilazione e decisione algoritmica, cit., §. 6 (per le fake news) e §. 7 (per il caso Cambridge Analytica), specificamente pp. 104-105 per l’uso dei bot politici.
  88. I riferimenti sono, rispettivamente, a S. Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism, cit., e a J. M. Balkin, The constitution in the national surveillance state, in Minnesota Law Review, n. 93/2008. Quest’ultimo parla anche di “Algorithmic Society” (J. M. Balkin, The Three Laws of Robotics in the Age of Big Data, in Faculty Scholarship Series, 2017, p. 1219).
  89. Inoltre va sottolineato come gli algoritmi non debbano riguardare necessariamente numeri, ma anche, in alcune occasioni, «opinioni umane incastonate in linguaggio matematico». Così P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali, cit., p. 38.
  90. È ciò che A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale, cit., pp. 85-86, definisce «algoritmo strutturalmente incostituzionale»: «quando l’algoritmo predittivo è costruito su un set di dati che è già in partenza discriminatorio. È il principio noto tra i data scientists come GIGO – “garbage in garbage out” – per cui un algoritmo non può che riflettere la qualità dei dati su cui è costruito». Analogamente P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali, cit., p. 34, secondo cui i bias «possono essere costanti precostituite dai programmatori oppure variabili risultanti dell’apprendimento automatico della macchina. [Comunque] la natura discriminatoria dei risultati prodotti da questi sistemi di intelligenza artificiale dipende dalla struttura stessa degli algoritmi predittivi, per i quali è impossibile soddisfare simultaneamente accuratezza e parità di trattamento».
  91. In tal senso A. Sterpa, Come tenere insieme la “disintermediazione” istituzionale e la rappresentanza della Nazione? cit., p. 3: «…si tratta di meccanismi matematici e informatici che devono essere costruiti ed impostati: ciò vuol dire che un essere umano deve scegliere come impostarli, quali elementi e quanto tenere in considerazione. L’algoritmo è una formula sì, ma come ci ricordano di recente gli studiosi, è costruita sulla base di scelte umane; può contenere istruzioni per far scomparire o per sopravvalutare alcuni dati piuttosto che altri. L’algoritmo è un mediatore nascosto che ci illude di essere liberi e sottopone ai nostri sensi limitati, selezionando, quello che lui decide: valuta, sceglie, scarta e di fatto cancella ciò che non sceglie dalla nostra portata».
  92. Sul punto si veda anche P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali, cit., p. 34, per il quale «le discriminazioni non sono parte oggettiva dei dati, che non sono neutrali, ma sono implementati da programmatori che, inevitabilmente condizionati da pregiudizi, predispongono gli algoritmi dei sistemi di apprendimento automatico senza procedure di selezione critica», come avviene con le filter bubble, ovvero uno spazio informatico, in cui l’utente è chiuso, ove l’IA usata da motori di ricerca e social media filtra i contenuti da sottoporgli in modo che siano coerenti con le sue opinioni e convinzioni.
  93. A. Simoncini, L’algoritmo incostituzionale, cit., p. 70.
  94. Un novero piuttosto composito che non va semplificato e che può andare dalle Big Tech agli esecutivi in carica ai gruppi di tecnici che hanno in mano la sagomatura dell’architettura algoritmica.
  95. L. Verzelloni, La vana ricerca della neutralità, cit., p. 208.
  96. G. D’Acquisto, Qualità dei dati e Intelligenza Artificiale: intelligenza dai dati e intelligenza dei dati, in F. Pizzetti (a cura di), Intelligenza artificiale, cit., p. 288.
  97. M. Morvillo, Contare il contagio. Strategie nazionali di effettuazione dei test e l’emergere di un approccio europeo, in M. Malvicini (a cura di), Il governo dell’emergenza, cit., pp. 79-80. L’Autrice richiama un concetto elaborato da N. Rose, Powers of freedom. Reframing Political Thought, Cambridge University Press, Cambridge, 1999.
  98. C. Schmitt, Il concetto di «politico» (1932), trad. it. Le categorie del politico, cit., p. 178.
  99. M. Kranzberg, Technology and History: “Kranzberg’s Laws”, in Technology and Culture, 27, 3, 1986, p. 544 e ss. Traduzione nostra.
  100. M. Tallacchini, Territori di incertezza, cit., pp. 46-47.
  101. Alcuni esempi possono essere i “Microsoft AI principles” di Microsoft, gli “AI at Google: our principles” di Google, il “Transparency and trust in the cognitive area” di IBM. Per una ricognizione sul tema si veda A. Jobin-M. Ienca-E. Vayena, Artificial Intelligence: the global landscape of ethics guidelines, in Nat Mach Intell 1, 2019, (https://www.nature.com/articles/s42256-019-0088-2).
  102. Per le citazioni che precedono G. Mobilio, L’intelligenza artificiale e i rischi di una “disruption” della regolamentazione giuridica, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 2/2020, rispettivamente pp. 415 e 416, ove l’autore richiama U. Pagallo, Il diritto nell’età dell’informazione, Giappichelli, Torino, 2014, p. 4.
  103. Considera maggiormente idoneo il formante giurisprudenziale rispetto a quello legislativo ai fini di regolamentare l’IA anche R. Bifulco, Intelligenza Artificiale, internet e ordine spontaneo, in F. Pizzetti (a cura di), Intelligenza artificiale, cit..
  104. Ritiene F. Viola, La legalità del caso, in La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale, I, Principi fondamentali, Atti del 2° convegno nazionale della Sisdic, Capri 18-20 aprile 2006, Napoli, 2007, che «il contenuto giuridico del diritto soggettivo vada determinato ed integrato dall’interprete in modo da assicurare la piena compatibilità con la dimensione assiologica dell’ordinamento statale».
  105. F. Benatti, Tra dottrina e giurisprudenza, l’interpretazione delle norme di legge, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 2016, p. 384.
  106. P. Grossi, Sulla odierna ‘incertezza’ del diritto, in Giust. civ., 2014, §. 8.
  107. N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Questione giustizia, n. 4/2016, §. 1.
  108. G. Magrì, Giustizia, in B. Montanari (a cura di), Luoghi della filosofia del diritto, cit., pp. 60-61.
  109. P. Moro, Intelligenza artificiale e professioni legali, cit., p. 31.
  110. «Il Diritto non può non cercare anche di apparire giusto, di volersi giustificare […] Il Diritto deve voler essere giusto, se non vuole apparire il mero prodotto di una potenza occasionale. Il riferimento alla Giustizia resta perciò immanente alla stessa positività della norma, nel momento che questa per valere deve ek-sistere nel giudizio. Lo iudex, infatti, tenderà sempre a interpretare la legge secondo questa prospettiva, e cioè sulla base di principi che, in quanto tali, la trascendono». Così M. Cacciari-N. Irti, Elogio del diritto, cit., p. 104. Corsivo nel testo.
  111. Sosteneva N. Bobbio, Studi per una teoria generale del diritto, a cura di T. Greco, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 133-134, che «un sistema giuridico non è un sistema statico: l’opera della giurisprudenza serve a mantenerlo in istato di equilibrio dinamico attraverso il reperimento di nuove norme, che tende a trasformare il sistema ora con l’introduzione di norme nuove ora con l’accantonamento di norme vecchie».