Le richieste di differenziazione della Regione Piemonte in materia di tutela della salute

Francesco Pallante[1]

1. Il documento allegato alla delibera del Consiglio regionale 319-38783 – con cui la Regione Piemonte ha dato avvio al procedimento per vedersi riconosciute  ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116, co. 3, Cost. – prende le mosse da una premessa che si propone di presentare la «situazione regionale di contesto». Si tratta di un testo agile ma tutt’altro che superficiale, che espone dati di sicuro interesse riferiti alla situazione territoriale, demografica, sociale ed economica della regione, nel condivisibile intento di individuare i punti di forza e di debolezza che, nelle intenzioni dei proponenti, motivano la richiesta di maggiore autonomia.

Con riguardo all’ambito della tutela della salute – oggetto del presente approfondimento – meritano di essere tenuti presenti soprattutto i dati che si riferiscono alle situazioni demografica e territoriale.

Tra i primi, l’invecchiamento della popolazione è sicuramente il più rilevante. L’indicatore relativo alla speranza di vita alla nascita si attesta, nel 2017, a 82,5 anni: è in crescita rispetto al 2010 (quando era di 81,6 anni), ma in leggero calo rispetto al 2016 (quando aveva raggiunto gli 82,6 anni). Il risultato piemontese è di poco inferiore alla media nazionale (82,7 anni), ma la differenza si fa sensibile se misurata rispetto alla Lombardia (83,2 anni), al Veneto (83,4 anni) e all’Emilia Romagna (83,2 anni)[2]. Complice il calo demografico[3], questi numeri fanno del Piemonte una delle regioni dall’età media più avanzata d’Italia: con 46,8 anni nel 2017, a fronte di una media nazionale di 45,5 anni, la regione si colloca dietro solo alla Liguria (48,8 anni) e al Friuli-Venezia Giulia (47,3 anni). I piemontesi con 65 anni e oltre sono il 25,3% della popolazione totale (contro un dato nazionale pari al 22,6%); la fascia tra i 15 e i 64 anni corrisponde al 62,2% (mentre la media italiana è del 64,1%); tra gli 0 e i 14 anni si colloca il 12,6% della popolazione (rispetto al 13,4% fatto registrare dall’Italia nel complesso)[4].Salvo una radicale inversione dell’andamento demografico, sono numeri destinati a consolidarsi: «nello scenario mediano – si legge nel testo in commento –, la popolazione over 65 sarebbe del 34,5% nel 2045 e del 32,8% nel 2065»[5]. Dato il quadro, le conclusioni sono, in una certa misura, obbligate: «l’invecchiamento della popolazione rende centrale il tema dell’assistenza sanitaria e sociale ed un ripensamento del modello di welfare, con una maggiore attenzione ai servizi rivolti agli anziani»[6].

La situazione territoriale[7] viene, a sua volta, in evidenza per i dati relativi all’ampiezza dei confini regionali (il Piemonte è la seconda regione d’Italia per estensione, dopo la Sicilia) e per l’incidenza del territorio montano (pari al 51,6% del totale), nonché, guardando alla configurazione delle circoscrizioni comunali, per il numero di comuni (solo in Lombardia il numero è maggiore), per la rilevanza dei comuni montani (il 43,3% del totale) e per la consistenza dei piccoli comuni (l’88,6% è sotto i cinquemila abitanti; il 56% sotto i mille). Se a questi dati si aggiungono quelli relativi alla popolazione che vive nei comuni montani (il 15,3% del totale) e nei comuni al di sotto dei cinquemila abitanti (ben il 78,5%), si comprende facilmente – benché, sul punto, la premessa sulla «situazione regionale di contesto» non si esprima – quali difficoltà organizzative e gestionali possano derivarne sia per l’articolazione territoriale dei servizi sanitari, sia per l’organizzazione della rete dei servizi socio-sanitari.

In ultimo, non va escluso che sulle condizioni di salute della popolazione piemontese possa incidere il dato relativo alla percentuale di popolazione che vive in famiglie a basso reddito, salita, nel biennio 2013-2014, al 16,8% (in aumento di mezzo punto percentuale rispetto al 2010-2011)[8]. Le inchieste condotte a livello nazionale registrano, infatti, una correlazione tra l’incremento della povertà e il numero di coloro che rinunciano alle cure – dato che è, a sua volta, condizionato dall’incremento della componente privata della spesa sanitaria complessiva (c.d. out of pocket) – ed è ipotizzabile che dinamiche di questo genere possano essersi prodotte anche in Piemonte[9].

 

2. Venendo alla seconda parte dell’allegato alla delibera del Consiglio regionale 319-38783 – relativa alle «materie oggetto di richiesta per ulteriori competenze legislative ed amministrative» – meritano, anzitutto, di venire ricordati i criteri che, a partire dalla «situazione regionale di contesto», sono stati utilizzati per pervenire alla formulazione delle richieste regionali. Si tratta di quattro criteri, la cui combinazione lascia intendere l’assunzione, da parte della Regione, di un’attitudine rivolta alla rivendicazione di autonomia non come valore in sé, ma come occasione di messa a punto e perfezionamento del proprio “strumentario” di governo. I criteri sono i seguenti[10]: (a) funzionalità delle ulteriori competenze rispetto alle scelte strategiche che la Regione intende perseguire per lo sviluppo economico e territoriale; (b) riunificazione delle competenze nelle materie al momento attribuite alla competenza legislativa regionale solo parzialmente; (c) semplificazione del rapporto tra pubblica amministrazione, da una parte, e cittadini e imprese, dall’altra; (d) individuazione di specificità, in particolare di carattere demografico, nella programmazione ed erogazione dei servizi.

Con riguardo alla tutela della salute, vengono in evidenza due diverse competenze (tra le otto complessivamente richieste): le «politiche sanitarie» e i «fondi sanitari integrativi».

 

2.1. Iniziando dalle politiche sanitarie, la regione concentra le proprie richieste intorno a quattro“fuochi”: il finanziamento, le professioni, il patrimonio edilizio, il sistema tariffario. A queste, va aggiunta una domanda, parzialmente eccentrica, relativa ai vincoli cimiteriali[11].

Quanto al finanziamento, la regione chiede la parziale rimozione dei vincoli di destinazione delle risorse del Fondo sanitario nazionale a essa assegnate, in modo da acquisire più ampia autonomia nella definizione della quota da destinare alle voci «personale, dispositivi, farmaci, privato accreditato, beni e servizi». La richiesta non si spinge, tuttavia, sino a prefigurare una completa autonomia, dal momento che rimarrebbe inalterato il vincolo legato al rispetto delle macro-aree di spesa definito dall’art. 27, co. 3, del d.lgs. n. 68 del 2011 e che prevede l’attribuzione del 51% delle risorse all’assistenza territoriale-distrettuale, del 44% all’assistenza ospedaliera e del restante 5% alla prevenzione. La richiesta è sorretta da specifica motivazione, che mette in luce come l’allentamento dei vincoli scongiurerebbe il generarsi di aspettative da parte dei soggetti interessati al mantenimento di un dato livello di spesa nei vari ambiti in cui la stessa è ripartita, oltre a semplificare la gestione amministrativo-burocratica legata alla documentazione e al controllo del rispetto dei vincoli. Sono profili effettivamente innovativi del quadro normativo attualmente esistente, che implicherebbero la riconfigurazione di parte della normativa statale attualmente vigente a favore di un incremento dell’autonomia regionale nella gestione della spesa sanitaria. Quel che potrebbe suscitare perplessità è che una richiesta di questo genere venga da una Regione che, tra il 2010 e il 2016, è risultata sottoposta alle limitazioni e ai controlli del c.d. piano di rientro[12] per difficoltà finanziarie mai del tutto chiarite nella completezza dei loro profili, ma comunque legate alla distrazione di fondi che avrebbero dovuto essere vincolati alla spesa sanitaria[13].

Con riguardo alle professioni, il Piemonte aspira ad acquisire autonomia al fine di «valorizzare» il ruolo regionale nella «programmazione dell’offerta formativa dei professionisti sanitari». Obiettivo “polemico” della richiesta non è lo Stato, ma l’Università, la cui attuale «prevalenza» in materia dovrebbe cedere il passo ai «fabbisogni formativi espressi dalla Regione», da assumersi quale parametro di riferimento «vincolante» per ogni futura decisione sulla formazione del personale sanitario. Come dichiarato nel documento, scopo ultimo della richiesta è il poter procedere all’assunzione nel Servizio sanitario regionale dei medici iscritti all’ultimo anno del corso di specializzazione, così indirizzando le scelte degli specializzandi verso i settori in cui il fabbisogno di personale al momento non trova piena soddisfazione. Non è chiaro in che modo dovrebbe concretamente configurarsi il «completo trasferimento» – così si legge nel documento – della competenza in parola: sembra di comprendere che la Regione auspichi di vedersi attribuiti poteri tali da poter vincolare l’offerta formativa universitaria in materia, a discapito non soltanto delle competenze attualmente esercitate dal Miur, bensì della stessa autonomia universitaria (nonostante quanto sancito dall’art. 33, co. 6, Cost.). Che tra l’Università – e, in particolare, la sua Scuola di Medicina – e la Regione non vi sia la possibilità di instaurare un dialogo costruttivo sull’organizzazione delle specializzazioni facendo ricorso agli strumenti di raccordo già esistenti pare poco credibile (al di là del fatto che l’art. 35 del d.lgs. n. 368 del 1999 già prevede il pieno coinvolgimento regionale nella individuazione del fabbisogno dei medici specialisti da formare). A suscitare perplessità è, inoltre, l’idea di immettere pienamente in servizio chi ancora non ha completato il proprio percorso formativo, in tal modo di fatto indebolendo il valore legale del titolo di studio rilasciato dalle istituzioni accademiche (e, peraltro, una misura sostanzialmente analoga è stata ora introdotta dalla legge n. 145 del 2018 – la legge di bilancio per il 2019 – all’art. 1, co. 547-548)[14].In questo quadro sembra doversi altresì leggere la volontà regionale di espandere le proprie competenze in tema di «gestione del regime transitorio delle professioni sanitarie» in seguito all’approvazione della nuova normativa statale in materia (legge n. 3 del 2018). La richiesta non è ulteriormente specificata né motivata, ma è agevole verificare come la nuova normativa preveda il coinvolgimento delle regioni nell’istituzione di nuove professioni sanitarie (art. 6) – in particolare in quelle di osteopata e chiropratico (art. 7) –e nella formazione medico specialistica (art. 15). Proprio quest’ultima disposizione, peraltro, prevedendo la possibilità di definire ulteriori modalità, «anche negoziali, per l’inserimento dei medici in formazione specialistica all’interno delle strutture sanitarie» sembra smentire la tesi che solo attraverso il trasferimento alla Regione della formazione specialistica questa possa assicurarsi le prestazioni professionali degli specializzandi. La combinazione delle disposizioni di cui all’art. 35 del d.lgs. n. 368 del 1999 e all’art. 15 della legge n. 3 del 2018 sembra, in definitiva, definire un quadro normativo pienamente idoneo a soddisfare le esigenze manifestate dalla Regione Piemonte sul punto.

Venendo al patrimonio edilizio, la Regione punta l’obiettivo sulla dismissione degli edifici obsoleti e non recuperabili a impieghi sanitari tramite appositi investimenti. In effetti – anche se questo è un dato che non emerge dall’allegato alla delibera consigliare – l’edilizia sanitaria piemontese risulta essere tra le più vetuste del Paese e non sono pochi i problemi, e i costi, che questa situazione comporta. La richiesta precisa che le dismissioni dovrebbero avvenire nel quadro di un più ampio processo di «riordino e riconversione delle reti assistenziali»: dunque, almeno in parte, senza prevedere la sostituzione delle strutture edilizie dismesse, ipotesi che potrebbe suonare discordante con le esigenze di capillarità che emergerebbero, invece, dai dati sulla dimensione del territorio regionale, sull’incidenza delle zone montane e sulla frammentazione delle circoscrizioni comunali di cui si diceva all’inizio. A lasciare soprattutto perplessi è, però, il passaggio conclusivo della richiesta, là dove si legge che, «nella congiuntura economica attuale», il piano di dismissioni «può funzionare a condizione che sia attivato un vero e proprio piano nazionale di valorizzazione dei beni immobili, individuando processi certi (nei risultati finali) e rapidi (nelle modalità) che consentano attraverso procedure di pervenire alla alienazione del patrimonio edilizio obsoleto e non più utilizzato ed utilizzabile». Se le parole hanno un senso, quel che afferma la frase ora riportata è la necessità che lo Stato – non la Regione – definisca regole e procedure di un grande piano nazionale di dismissione del patrimonio edilizio: più che la rivendicazione di nuovi poteri, si direbbe un tentativo di stimolare l’esercizio di poteri altrui. Qualche delucidazione la si può, probabilmente, ottenere incrociando la richiesta in parola con quelle inerenti al governo del territorio[15], dove anche si esprime la volontà di compiere scelte «finalizzate a ottenere una migliore operatività nel recupero e nella trasformazione del patrimonio edilizio esistente» e si avanzano richieste di nuove competenze in tema di «rigenerazione urbana», «trasformazioni edilizie», «sostituzione del tessuto edilizio degradato». Vista da questa più ampia prospettiva, la domanda inerente al patrimonio edilizio sanitaria può forse essere intesa come la specificazione di una domanda più generale.

Per quel che concerne il sistema tariffario, la domanda regionale è particolarmente laconica: a venire rivendicata è una «maggiore autonomia nell’espletamento delle funzioni attinenti al sistema tariffario, di remunerazione e di compartecipazione alla spesa». Il dato letterale sembra voler lasciare impregiudicato il quadro normativo che definisce il sistema di remunerazione e di compartecipazione in relazione alle prestazioni erogate dalle strutture sanitarie – essenzialmente l’art. 8-sexies del d.lgs. n. 502 del 1992, per quanto attiene alle tariffe, e l’art. 8 della legge n. 537 del 1993, unitamente all’art. 17 del d.l. n. 98 del 2011 e alla legislazione regionale, per quanto attiene alla compartecipazione –, per concentrarsi sullo svolgimento delle funzioni (amministrative, si deve ritenere) da esso disciplinate. Quali di tali funzioni secondo la Regione Piemonte sarebbero, nello specifico, al momento riservate allo Stato non è, tuttavia, adeguatamente chiarito. Più facile pensare che, in realtà, dietro le formule linguistiche utilizzatesi celi la volontà di ampliare i margini di intervento sulla definizione non tanto della compartecipazione (ambito nel quale le competenze regionali appaiono già sufficientemente estese), quanto piuttosto del sistema tariffario e di remunerazione: tale competenza accrescerebbe, infatti, il ruolo della Regione nella gestione dei rapporti con i privati accreditati,con rilevanti ricadute sull’assetto complessivo del Servizio sanitario regionale.

Relativamente, infine, ai vincoli cimiteriali, la Regione lascia intuire che ostacoli all’amministrazione del servizio deriverebbero dall’eccessiva «parcellizzazione amministrativa del sistema pubblico regionale», ma non precisa se le competenze aggiuntive reclamate in quest’ambito siano di natura legislativa o amministrativa né a quale risultato finalizzate. Va, in ogni caso, registrato che attualmente le regioni godono di competenze, tanto legislative quanto amministrative, in materia di servizi funebri e cimiteriali e che di tali competenze la Regione Piemonte ha fatto uso, in particolare, tramite l’approvazione della legge regionale n. 15 del 2011 (che prevede, altresì, l’adozione di un regolamento consiliare di attuazione). Quanto al rapporto con i comuni, l’art. 9 della legge in parola disciplina l’esercizio delle competenze comunali inerenti alla realizzazione di cimiteri e crematori, attività che dovranno,inoltre,avvenire nel quadro del Piano regionale di coordinamento previsto dall’art. 14. Alla luce di queste considerazioni, che pongono in evidenza le competenze regionali già esistenti, non risulta agevole comprendere la giustificazione della richiesta in argomento.

 

2.2. Passando ai fondi sanitari integrativi, la Regione vorrebbe acquisire più ampia autonomia «legislativa, amministrativa e organizzativa» in merito all’istituzione e alla gestione di tali fondi[16]. In particolare, oggetto di richiesta sono: (a)funzioni amministrative inerenti alla regolamentazione della materia, per favorire la confluenza nei fondi istituendi delle risorse già impiegate in analoghi strumenti previsti dalla contrattazione collettiva nazionale o da altri livelli di contrattazione, e (b)competenze in tema di defiscalizzazione – a favore sia del datore di lavoro, sia del lavoratore –, al fine di incentivare l’adesione ai fondi integrativi stessi.

Il documento allegato alla delibera del Consiglio regionale 319-38783, precisa che i fondi sanitari integrativi per i quali si richiedono le nuove competenze, verrebbero istituiti ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. n. 502 del 1992 (da intendersi: così come sostituito dall’art. 10 del d.lgs. n. 517 del 1993): dunque, dovranno considerarsi finalizzati esclusivamente alla fornitura di «prestazioni  aggiuntive  rispetto  a  quelle  assicurate dal Servizio sanitario  nazionale»[17].Stranamente,il documento non contiene, però, alcuna indicazione su quali siano, nelle intenzioni della Regione richiedente,le prestazioni aggiuntive che dovrebbero essere in tal modo finanziate. Negli atti della Giunta regionale che hanno dato avvio al procedimento per ora culminato nell’approvazione della delibera consiliare in commento (e in particolare nella delibera della Giunta regionale n. 2-7227 del 2018), la competenza ora definita «Fondi sanitari integrativi» era chiamata «Previdenza complementare e integrativa finalizzata alla non autosufficienza»[18]. Il riferimento alla non autosufficienza è stato correttamente eliminato, dal momento che questa è una condizione che insorge come conseguenza di una o più malattie, la cui cura è ineludibile compito del Servizio sanitario nazionale (art. 2 della legge n. 833 del 1978)[19] e non può essere scaricata sui malati stessi. Resta il fatto che i dati sull’invecchiamento della popolazione riportati nella premessa relativa alla «situazione regionale di contesto»sono poi utilizzati, nella medesima premessa, per sottolineare l’esigenza di «ripensare» il modello di welfare regionale e che la situazione della non autosufficienza in Piemonte è drammaticamente segnata da un numero molto elevato (oltre venticinquemila persone, più probabilmente trentamila)[20], di soggetti che, pur riconosciuti come bisognosi di cure, restano in attesa di venire presi in carico dalle strutture del Servizio sanitario regionale[21]. Alla luce di queste considerazioni, sarebbe bene che la Regione precisasse quali prestazioni aggiuntive intenderebbe finanziare con i Fondi integrativi, in modo da evitare il rischio di possibili incomprensioni.

 

3. Brevemente concludendo, le richieste di differenziazione che il Piemonte avanza in materia di salute non sembrano tutte adeguatamente motivate. In particolare, in tema di formazione specialistica del personale, di dismissione del patrimonio edilizio, di sistema tariffario e di compartecipazione (stando, almeno, al dato letterale della richiesta), nonché di vincoli cimiteriali, il Piemonte sembra manifestare esigenze suscettibili di venire soddisfatte facendo uso degli strumenti normativi già esistenti. Parzialmente differente il discorso in tema di allentamento dei vincoli di destinazione delle risorse attribuite al Servizio sanitario regionale e di fondi sanitari integrativi, ambiti d’intervento per i quali possono valere altri motivi di perplessità, ma che comunque paiono meglio giustificare il ricorso allo strumento dell’autonomia regionale differenziata.

La critica maggiore che può essere rivolta al progetto di differenziazione regionale risulta, tuttavia, legata alla mancata considerazione delle reali carenze della sanità piemontese. Eccezion fatta per l’obsolescenza delle strutture edilizie, nulla viene detto e previsto con riguardo alle emergenze derivanti dal deficit di infermieri, di posti letto nelle residenze sanitarie assistenziali e di interventi a domicilio. Se si prendono a riferimento i dati medi registrati dall’Ocse, il Piemonte può contare sul 60% degli infermieri, sul 30% dei posti letto residenziali e sul 50% degli interventi domiciliari complessivamente rilevati negli altri Paesi sviluppati[22]. Il già ricordato numero assai elevato di anziani malati cronici non autosufficienti in attesa di venire presi in carico dal Servizio sanitario regionale è l’inevitabile conseguenza dell’intrecciarsi di tali carenze. Stupisce che l’occasione della differenziazione non sia stata colta anzitutto per proporsi di far fronte a questa situazione (che, peraltro, produce una serie di ripercussioni negative sull’organizzazione sanitaria complessiva nel momento in cui i casi più drammatici giungono a “scaricarsi” sugli ospedali, a partire dai reparti pronto soccorso).

A ciò si può aggiungere che il Servizio sanitario nazionale risulta notoriamente ben poco attrezzato rispetto alle esigenze di cura derivanti da ambiti molto importanti, quali l’odontoiatria, l’oculistica e, in misura meno marcata, l’ostetricia e l’ortopedia. Possibile – allargando il discorso – che nessuna delle regioni che hanno imboccato la strada del regionalismo differenziato, e tra queste il Piemonte, si preoccupi di incrementare le proprie capacità di intervento in tali ambiti? L’impressione, in definitiva, è che la differenziazione sia vissuta – anche, e soprattutto, in materia sanitaria – più come occasione per ampliare i propri margini di gestione finanziaria ed amministrativa che per individuare reali esigenze politiche sottostanti a cui provare a fornire risposte.

 


 


[1] Professore associato di Diritto costituzionale, Università di Torino.

 

[2] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 7.

 

[3] Nel 2017 la popolazione piemontese è calata per il quarto anno consecutivo, raggiungendo a fine anno il numero di 4.375.865 residenti (-16.661 rispetto all’anno precedente). Pur inserendosi in una tendenza di portata nazionale, la contrazione demografica piemontese risulta più intensa di quelle registrate altrove. Inoltre, prendendo a paragone le regioni più avanti nel percorso dell’autonomia differenziata, va rilevato che mentre il Veneto risulta sostanzialmente stabile, Lombardia ed Emila Romagna fanno registrare un aumento della loro popolazione. I dati sono riportati nella Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 6 (peraltro, curiosamente a p. 13 dello stesso documento si legge che la popolazione piemontese ammonta, sempre nel 2017, a 4.396.293 unità).

 

[4] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, pp. 9-10.

 

[5] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 10.

 

[6] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 10, dove anche si legge che la percentuale di anziani «trattata in servizi di assistenza domiciliare integrata ammontava nel 2016 al 3,3% degli over 65, secondo i dati NSIS-Sistema informativo per l’assistenza domiciliare (SIAD) del Ministero della Salute, e allo 0,6% nel 2015 secondo i dati Istat per quanto concerne l’assistenza socio-assistenziale».

 

[7] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, pp. 12-13.

 

[8] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 6.

 

[9] Si sofferma, in generale, sull’argomento il Rapporto Osservasalute 2017 (https://www.osservatoriosullasalute.it/osservasalute/rapporto-osservasalute-2017), pp. 343-357.

 

[10] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 15.

 

[11] Per quanto segue, Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, pp. 23-24.

 

[12] Per una panoramica del Ssr piemontese, anche alla luce delle difficoltà finanziarie ricordate nel testo, cfr. D. Servetti, Esiste un modello sanitario piemontese?, in «Corti supreme e salute», n. 1, 2018, pp. 121-150.

 

[13] Cfr. G. Cavallero e R. Zerbi, La Sanità piemontese da dieci anni è in credito. L’amara storia del piano di rientro, in «Torino medica», n. 1, 2017, pp. 36-39, i quali negano che il disavanzo di 7.258.726.834,62 euro nei conti regionali sia stato causato da un eccesso di spesa sanitaria, dal momento che «la sanità piemontese non è mai stata in deficit dal 2005» (p. 36). Gli autori aggiungono che, al contrario, negli ultimi anni alla sanità piemontese sono state sottratte risorse vincolate dallo Stato alla sanità stessa per una somma ammontante ad almeno 4,3 miliardi di euro.

[14] Più precisamente, le disposizioni ricordate prevedono che «i medici in formazione specialistica iscritti all’ultimo anno del relativo corso sono ammessi alle procedure concorsuali per l’accesso alla dirigenza del ruolo sanitario» e che coloro che siano risultati idonei all’esito delle procedure stesse siano immessi in graduatorie separate e assunti a tempo indeterminato «al conseguimento del titolo di specializzazione e all’esaurimento della graduatoria dei medici già specialisti alla data di scadenza del bando».

 

[15] Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, pp. 15-16.

 

[16] Per quanto segue, Delibera del Consiglio regionale 319-38783, Allegato A, p. 28.

 

[17] Art. 10, co. 1, del d.lgs. n. 517 del 1993. Il punto merita di essere sottolineato, dal momento che l’analisi degli accordi sul c.d. welfare integrativo siglati nell’ambito della contrattazione collettiva e aziendale (a oggi, intorno ai quattrocentotrenta) rivela che non poche delle prestazioni in essi previste non sono integrative, bensì sostitutive di quelle che dovrebbero assicurate dal Servizio sanitario nazionale (M. Perino, Il mercato della salute: polizze assicurative e fondi sanitari, in «Prospettive assistenziali», marzo 2019, pp. 4-12). Un quadro approfondito della spesa sanitaria privata può essere letto nel 3° Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale, Fondazione GIMBE, Bologna 2018 (http://www.rapportogimbe.it/3_Rapporto_GIMBE.pdf), pp. 41-54.

 

[18] Delibera della Giunta regionale n. 2-7227 del 2018, p. 3.

[19] Tra gli obiettivi del Servizio sanitario nazionale, l’art. 2, co. 1, lett. b inserisce «la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne  siano le cause, la fenomenologia e la durata».

 

[20] I dati comunicati dagli uffici regionali in occasione della stesura di questo articolo attestano un totale di 25.653 persone in lista d’attesa per ricevere servizi residenziali o servizi domiciliari:

– per i servizi residenziali la suddivisione per Asl è la seguente (dati 2016): Torino 1: 1.956persone; Torino 2: 1.048persone; Collegno-Pinerolo: 1.387persone; Chivasso: 1.402persone; Chieri: 551persone; Biella: 259persone; Vercelli: dati mancanti; Novara: 600persone; Omegna: 356persone; Cuneo: 1.198persone; Alba-Bra: 191persone; Asti: 230persone; Alessandria: 880persone;

– per i servizi domiciliari, la suddivisione per Asl è la seguente (dati 2017): Torino 1: 2.904 persone; Torino 2: 4.651 persone; Collegno-Pinerolo: 2.742 persone; Chivasso: 1.360 persone; Chieri: 577 persone; Biella: 580 persone; Vercelli: 583; Novara: 374 persone; Omegna: 156 persone; Cuneo: 549 persone; Alba-Bra: 230 persone; Asti: 321 persone; Alessandria: 567 persone.

Si tratta di dati parziali, perché mancano informazioni sia sui servizi residenziali relativamente alla Asl di Vercelli, sia sulla residenzialità in generale per gli anni 2017 e 2018 e sulla domiciliarità in generale per l’anno 2018.

 

[21] Da ultimo, è intervenuto sul punto il Difensore civico regionale, in funzione di Garante della salute, con una relazione straordinaria sulla non autosufficienza (http://www.cr.piemonte.it/dwd/organismi/dif_civico/2019/news_quota_alberghiera.pdf).

 

[22] I dati Ocse sono consultabili all’indirizzo: http://www.oecd.org/els/health-systems/health-data.htm.