Recensione del libro di G. De Blasio – A. Nicita – F. Pammolli (a cura di), “Evidence-based Policy! Ovvero perché politiche pubbliche basate sull’evidenza empirica rendono migliore l’Italia” (il Mulino 2021)

 

Giuseppe Portonera[1]

Recita il noto proverbio americano: in God we trust – all others must bring data. Chiunque non sia onnipotente, onnisciente, onnipresente, non chieda agli altri di credere a ciò che afferma in base a un atto di fede, ma sia piuttosto pronto a fornire elementi oggettivi in grado di supportare le sue conclusioni. A meno che si tratti un politico. In quel caso, sarà perché il suo ruolo lo induce a dimenticare la fallibilità umana («gli animali e gli uomini politici non sanno di essere mortali», chiosava Eugène Ionesco), sarà perché si sente erede della tradizione rivoluzionaria francese (esiste qualcosa di più incommensurabile della volontà generale rousseauiana?), sarà perché abituato a pensare ai dati solo come a numeri da inserire nelle formule dei quozienti elettorali, il politico chiederà ai propri elettori, con invariabile costanza, di essere creduto in base a qualcosa che assomiglia moltissimo a un atto di fede. Ironie a parte, la circostanza è sospetta o censurabile solo fino a un certo punto. La politica, piaccia o meno, trova un senso costitutivo nella capacità di ispirare l’uomo comune, nel farlo sentire parte di un’impresa collettiva che trascende la dimensione dell’ordinario quotidiano, per proiettarsi in una sfera di programmatica creatività; d’altronde, perfino la più compassata delle esperienze politiche contemporanee – il merkelismo – è stata di successo perché in grado di ispirare un sentimento di appartenenza e di riconoscibilità nell’elettorato di riferimento.[2]

Ovviamente, un conto è che i “dati” siano eclissati, durante la campagna elettorale, dagli immaginifici slogan e dagli appassionati comizi, altro conto è che essi siano del tutto assenti, anche in quella fase. L’attività di governo è cosa diversa rispetto al vincere le elezioni: la capacità di ispirare l’elettorato si risolve in ben poco, se non accompagnata dalla capacità di conseguire risultati, i quali resteranno un miraggio, senza un programma politico che si sia nutrito anche di dati. Eppure, chi potrà essere accusato di facile populismo, se lascia qui cadere il dubbio che ciò sia quanto solitamente accade? Quante politiche, a favore di determinati gruppi o settori o territori, sono spesso spinte unicamente dalla ricerca di consenso politico nel brevissimo termine, senza nemmeno essere valutate quanto alla loro giustificazione causale o ai loro effetti? Quante di esse si succedono nel corso del tempo con ostinata autoreferenzialità, senza che venga neanche posta la questione dell’individuazione dell’orizzonte temporale entro il quale decretare il loro successo o il loro fallimento?

Proprio per corroborare la fondatezza di questi dubbi, e fugare così l’accusa di populismo, torna utile la lettura di Evidence-based Policy! Ovvero perché politiche pubbliche basate sull’evidenza empirica rendono migliore l’Italia, un testo che esamina con critica consapevolezza – senza cedere, dunque, a sentimenti né di ingenuo entusiasmo né di rassegnata delusione – lo stato dell’arte dei rapporti tra programmazione politica e “misurazione” dei suoi effetti. Guido de Blasio, Antonio Nicita e Fabio Pammolli hanno coordinato il lavoro di quasi una ventina di economisti che utilizzano metodi statistici ed econometrici, metodi basati cioè su informazioni quantitative, per provare a dare risposte ad alcuni problemi relativi alle modalità con cui il settore pubblico interviene – con permessi, divieti, finanziamenti, tassazione – nello svolgimento delle attività economiche e non solo. Gli ambiti analizzati sono dieci: istruzione; salute e sanità; trasporti; decisioni politiche e scelte elettorali; mercato del lavoro, famiglie e welfare; imprese; divari territoriali e differenze di genere; immigrazione; ambiente.

Più nel dettaglio, Maria De Paola e Vincenzo Scoppa concentrano la loro attenzione sull’istruzione (cap. I), tra i principali volani della crescita economica, verificando obiettivi e limiti di alcune politiche cruciali per lo sviluppo delle competenze: la dimensione delle classi, la qualità degli insegnanti, i corsi di recupero universitari, e – in tempi di pandemia – la didattica online. Vincenzo Carrieri, Fabio Pammolli e Francesco Principe illustrano l’importanza degli “studi valutativi” nel campo dell’economia sanitaria e della salute (cap. II), anch’esso argomento di sempreverde attualità, eppure mai così rilevante come negli ultimi mesi. Marco Percoco e Mattia Borsati si occupano di infrastrutture di trasporto (cap. III), illustrandone le relazioni con le più tradizionali analisi costi-benefici.

Guglielmo Barone (cap. IV) si sofferma sugli aspetti legati alle decisioni politiche e ai comportamenti elettorali. Si tratta, come è agevole intuire, di uno dei capitoli centrali nell’economia dell’opera, giacché comprendere adeguatamente – e di conseguenza strutturare efficacemente – gli incentivi di coloro che devono prendere decisioni pubbliche è fondamentale in un contesto in cui i trasferimenti sono capaci di produrre importanti pay-offs elettorali. Emanuele Ciani, Edoardo Di Porto e Paolo Naticchioni (cap. V) presentano alcuni esempi di rilievo nel campo delle politiche per il mercato del lavoro, la famiglia e il welfare, come ad esempio gli effetti della riforma Fornero sull’occupazione e quelli della “cassa integrazione guadagni” (CIG) su imprese e lavoratori. Francesco Manaresi prende in esame le politiche per le imprese (cap. VI), con particolare attenzione a ciò che l’evidenza empirica suggerisce con riferimento ad alcune delle misure di politica industriale impiegate negli ultimi anni, quali quelle pensate per sostenere l’accesso al credito o per favorire le cosiddette startup innovative.

Riccardo Crescenzi e Mara Giua (cap. VII) analizzano le politiche per il riequilibrio territoriale. Il capitolo è di ovvio interesse per lo studioso di scienze dell’amministrazione che dedichi peculiare attenzione al tema delle autonomie locali, giacché si tratta di uno degli ambiti in cui più avvertito è il bisogno di rigorose analisi empiriche per il miglioramento del processo decisionale, visto il conclamato fallimento delle politiche di assistenza alle aree più povere del paese[3]. In particolare, Crescenzi e Giua – per poter giudicare il successo di una politica per il territorio – ricorrono a un’indagine controfattuale, all’esito della quale osservano che le politiche di coesione hanno esercitato un impatto sulla crescita economica delle regioni UE sì positivo e significativo, ma non uniforme tra gli Stati membri. In particolare, in Italia – al contrario che in Germania o in UK – gli effetti sull’occupazione sembrano riflettere una genesi di opportunità di breve momento, che quindi non riesce a tradursi in tendenze sostenibili nel medio-lungo periodo. Pertanto, l’auspicio di policy è quello di analizzare i tempi di realizzazione e il grado di completamento di progetti appartenenti alla politica di coesione che risultano paragonabili, per obiettivi e caratteristiche, a quelli del PNRR, così da mettere in luce le più tipiche tra le difficoltà di programmazione e di attuazione, predisponendo di conseguenza adeguate misure correttive.

Proseguendo con i capitoli del volume, Daniela Vuri (cap. VIII) esamina le politiche di genere, evidenziando luci e ombre delle cosiddette “quote rosa” in vari ambiti (amministrazione societaria, rappresentazione politica, accademia); Tommaso Frattini riporta alcuni esempi di studi empirici sul tema dell’immigrazione (cap. IX), uno degli ambiti in cui maggiore è lo scollamento tra percezioni degli elettori e realtà; infine, Alessandro Palma e Giacomo Pallante (cap. X) chiariscono il ruolo dell’analisi controfattuale per le politiche in materia di cambiamento climatico, le quali – nonostante il ruolo centrale che svolgeranno nell’immediato futuro – soffrono di una carenza di valutazioni rigorose circa i loro potenziali effetti.

Come osservano de Blasio, Nicita e Pammolli nella loro introduzione, «Evidence-based policy! è un’esortazione rivolta ai policy makers», che «suggerisce come, al fine di disegnare ricette utili ai cittadini, occorrerebbe, più umilmente, impegnarsi a disegnare le politiche sulla base delle evidenze empiriche di cui si dispone e, ove necessario, a correggerle sulla base dell’analisi degli effetti che esse producono»[4]. Per un cultore delle scienze giuridiche, e in particolare della scienza dell’amministrazione, queste parole evocano immediatamente l’analisi di impatto della regolazione (AIR)[5] e la verifica di impatto regolatorio (VIR)[6], due degli strumenti in astratto più utili e in concreto meno impiegati degli ultimi decenni.

In teoria, AIR e VIR dovrebbero servire a garantire una compenetrazione tra il momento decisorio e alcune considerazioni di natura empirica: l’AIR consiste infatti in una analisi ex ante degli effetti di ipotesi di intervento normativo sulle attività dei cittadini e delle imprese, nonché sull’organizzazione e sul funzionamento delle pubbliche amministrazioni, laddove la VIR si traduce nella valutazione del raggiungimento delle finalità di uno o più atti normativi, nonché nella stima degli effetti prodotti su cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni. In pratica, essi sono strumenti troppo limitati (avendo per oggetto solo la sfera legislativa e non quella della fase di attuazione, che è di competenza amministrativa) e sono per di più poco e male utilizzati. La conseguenza è che, in Italia, «le politiche paiono assistite da una sorta di presunzione di efficacia: mancano analisi idonee sulla congruenza tra obiettivi, mezzi e decisioni, nonché rendicontazioni precise circa gli effetti prodotti»[7].

Il tema ha ricevuto rinnovata attualità alla luce della gestione della pandemia. Quest’ultima, infatti, non ha reso solo evidente il bisogno di individuare parametri tecnico-scientifici in grado di sostenere la più straordinaria compressione delle libertà costituzionalmente garantite che il paese abbia conosciuto in tempi di pace, ma anche e soprattutto le connessioni esistenti tra una corretta istruttoria sui dati e il procedimento di formazione delle decisioni pubbliche. Il risultato di questa operazione – come si mette in luce nei paper raccolti con la call “L’utilizzo dei dati nei processi decisionali alla luce della pandemia da COVID-19”, organizzata da questa Rivista – non è stato soddisfacente anche per alcune modalità scorrette e poco trasparenti di acquisizione, filtraggio e – principalmente – elaborazione dei dati[8].

Insomma, la prassi italiani mostra che non può darsi alcuna evidence-based policy, se non si congegnano meccanismi giuridici in grado di incidere efficacemente non solo sulla fase di programmazione, ma anche di quella di esecuzione delle decisioni assunte. Peraltro, è opportuno porre anche l’interrogativo, che qui può invero solo accennarsi, dell’eventuale attribuzione di una responsabilità all’autorità giudiziaria ai fini della verifica di congruenza tra decisione politica e dato tecnico. Mentre sono rimaste sul piano dell’ideazione dottrinale le proposte di includere all’interno del vizio di eccesso di potere la mancata conformità dell’atto sub judice a una previa analisi costi-benefici[9], si è invece consolidato lo scrutino che la Corte costituzionale, attingendo al canone della ragionevolezza, svolge sulle relazioni tecnico-finanziarie a corredo delle leggi di spesa, specie nel caso in cui le misure determinino un calo dei trasferimenti o una riduzione delle entrate[10]. Lo studioso è chiamato a verificare la possibile generalizzazione di questo profilo dell’attività giurisdizionale, tenendo presente che la questione dell’eventuale giustiziabilità dei principi che informano la materia in parola non è solo una di garanzia di “buona politica”, ma anche di rischiose sovrapposizioni tra il momento di decisione politica e quello del sindacato giurisdizionale di esso.

Il volume in recensione merita di essere apprezzato anche per l’equilibrio che complessivamente mostra rispetto alla questione in esame. A tal proposito, centrale è la consapevolezza che esso esibisce circa il rischio di strumentalizzazioni di un approccio evidence-based alla programmazione politica.

Il primo e più rilevante profilo problematico da affrontare è quello efficacemente sintetizzato nell’avvertimento di Ronald Coase: attenzione a non «torturare» i dati, per far loro confessare la verità che si preferisce. I curatori di Evidence-based Policy! rilevano in proposito la necessità di «mettere in una giusta e trasparente relazione i policy makers e coloro che studiano gli effetti attesi delle politiche o che ne misurano gli effetti», ossia «sulla relazione tra politici ed esperti nella costruzione della “verità” del reale sul quale intervenire»[11]. In altre parole, si tratta di assicurare rigore non solo nella verifica dei dati, ma anche nella selezione dei soggetti che sono chiamati a far “parlare” quei dati, onde evitare che questi si comportino da «tecnici del consenso»[12], ossia attori il cui “successo” non viene dall’orientare l’azione politica fornendo le migliori indicazioni oggettive, bensì dal fatto di fornire copertura ex post a una scelta politico-amministrativa in realtà già compiuta. La “neutralità” della tecnica è questione dai risvolti assai incerti[13], ma in questo contesto essa rileva non come problema originario di effettivo agnosticismo valoriale (la tecnica «scopo di se stessa»), bensì in riferimento al permanere della sua (pretesa?) neutralità nel momento in cui essa rifluisce nei processi decisionali, misurandosi con l’ineludibilità parzialità degli stessi[14]. Ancora una volta, si pensi alla gestione della pandemia, in cui un organo dichiaratamente “tecnico-scientifico” ha prodotto pareri tutti razionalmente apprezzabili, ma atti a giustificare qualsiasi tipo di scelta in ultima istanza politica: in questa circostanza, il tentativo di “spoliticizzare” il governo dell’emergenza sulla base di parametri “neutrali” si è spesso rilevato come puramente illusorio, svelando invece la natura fittiziamente oggettiva delle decisioni adottate.

Al fine di evitare che si possa di volta in volta selezionare la spiegazione di un fenomeno più di comodo, al contempo però ammantando la decisione ancora del carattere di oggettività, de Blasio, Nicita e Pammolli suggeriscono di valorizzare l’idea popperiana della “falsificabilità delle teorie”, che, in un contesto di evidence-based policy «si traduce […] nella proposizione di un chiaro “problema di identificazione” che costituisce la base di partenza dell’indagine empirica: l’illustrazione di un’ipotesi che si intende falsificare, la tipologia dei dati, l’isolamento del fattore causale e così via»[15]. In un’ottica di seria evidence-based policy, la politica deve assumere la responsabilità non solo della decisione, ma anche dell’adesione a una determinata valutazione del quadro di riferimento, e ciò spiega perché «va incoraggiata, a ogni livello, specie nelle amministrazioni pubbliche, l’adozione di politiche trasparenti di costruzione e messa a disposizione dei dati, se possibile con formati facilmente utilizzabili dai ricercatori»[16].

Il secondo, e per certi versi ancora più preoccupante, rischio che si delinea attorno alla relazione tra politici ed esperti è quello della cosiddetta “tecnocrazia”. Va da sé che di esperti dotati di specifiche e tecniche competenze, il cui valore non si misura a peso di voti, non può certo farsi a meno, e anzi è probabilmente opportuno riconoscere che «nelle società avanzate il principio aristocratico», fondato sulla competenza, «ha, nell’organizzazione del potere politico della società, un peso superiore a quanto comunemente si è portati a credere o ad ammettere»[17], sicché i sistemi di governo moderni si presentano con un carattere misto ben riassunto nell’espressione “tecno-democrazia”. Tuttavia, un conto è che i rappresentanti democraticamente eletti e i tecnici specializzati collaborino in un rapporto i cui ruoli sono chiaramente delineati, altro conto è che il divorzio tra i primi e la misurazione delle circostanze oggettive utili alla definizione della scelta sia ricomposto in un ordine in cui l’uomo politico enuncia vaghe strategie e la responsabilità vera della decisione ricade invece nella sfera di competenza del tecnico, in quanto depositario del sapere specialistico. Si pensi ancora al caso della copertura finanziaria delle leggi di spesa, rispetto al quale si è recentemente rilevato un «problematico sviamento tecnocratico», ogni qualvolta in cui la Ragioneria Generale dello Stato (RGS), organo squisitamente tecnico, ritardi la cosiddetta “bollinatura”, ovvero scelga proprio di non bollinare, facendo prevalere le proprie autonome determinazioni su quelle della maggioranza governativa[18].

Molte e antiche sono le cause di uno “spossessamento” del Politico come luogo in cui legittimazione-potere-responsabilità costituiscono una triade inscindibile, e non è questa la sede anche solo per tratteggiarle rapidamente[19]. Richiamare questa circostanza è utile, però, per suggerire che la evidence-based policy può, anche a questo fine, essere di qualche aiuto, giacché una classe politica che familiarizzi con i dati e con il modo di interpretarli adeguatamente è infatti una probabilmente meno esposta a subire «provvidenzialismi tecnocratici»[20] (o a cercarvi riparo in attesa di tempi migliori…). E, evidenziano de Blasio, Nicita e Pammolli, c’è da essere ottimisti, dal momento in cui «[l]’evidenza più recente […] mostra che, quando gli amministratori sono messi a parte dei risultati empirici rigorosi sull’efficacia degli interventi pubblici, essi tendono a scegliere più frequentemente le politiche che hanno dato prova di successo»[21], mostrando così un apprezzabile grado di autonomia.

Non è dubbio che, per riprendere il sottotitolo dell’opera in recensione, politiche pubbliche basate sull’evidenza empirica possano rendere migliore l’Italia. Più dubbio è che ci sia una effettiva volontà in tal senso e che ci sia adeguata consapevolezza dei rischi, oltre che delle potenzialità, del rapporto tra tecnica e politica. Evidence-based Policy! non ha «alcuna pretesa di voler avere la parola definitiva, che non esiste nelle discipline sperimentali»[22], non foss’altro perché la risoluzione di questi aspetti problematici richiede un dialogo tra i diversi saperi tecnici e la politica che trascende l’orizzonte di una biblioteca, figurarsi di un solo libro. La lettura di questo volume è però un ottimo modo quantomeno per iniziare a delineare i contorni di una efficace strategia d’azione.

  1. Dottorando di ricerca, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano; Forlin Fellow, Istituto Bruno Leoni.
  2. Cfr. How Angela Merkel is changing, and not changing, Germany, The Economist, 9.09.2017, qui consultabile: https://www.economist.com/briefing/2017/09/09/how-angela-merkel-is-changing-and-not-changing-germany («To Mrs Merkel’s acolytes her blandness shows a refreshing distaste for yah-boo politics from a leader who refuses to pander to her base. […] This blend of centrist policies and non-partisan behaviour explains why her appeal stretches well beyond the CDU’s typically older, more right-wing electorate. Younger and Green-leaning voters like her liberal refugee policies, SPD voters like her support for the minimum wage, FDP voters like her stability. Germany is a very centrist country; Mrs Merkel suffices it»).
  3. Sul punto si veda anche A. Accetturo – G. de Blasio, Morire di aiuti. I fallimenti delle politiche per il Sud (e come evitarli) (IBL Libri 2019).
  4. G. de Blasio – A. Nicita – F. Pammolli, Introduzione, in Id. (a cura di), Evidence-based Policy! Ovvero perché politiche pubbliche basate sull’evidenza empirica rendono migliore l’Italia (il Mulino 2021), p. 8.
  5. Disciplinata dall’articolo 14, Legge 28 novembre 2005, n. 246 “Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005” e dal DPCM 15 settembre 2017, n. 169 “Regolamento recante disciplina sull’analisi dell’impatto della regolamentazione, la verifica dell’impatto della regolamentazione e la consultazione”. Ulteriori disposizioni in materia di AIR sono state introdotte dallo Statuto delle imprese (Legge 11 novembre 2011, n. 180) e dal decreto “Semplifica Italia” (decreto-legge 5 febbraio 2012 convertito con modificazioni dalla L. 4 aprile 2012, n. 35). La disciplina dell’AIR si applica agli atti normativi del Governo, compresi gli atti adottati dai singoli Ministri, ai provvedimenti interministeriali, e ai disegni di legge di iniziativa governativa, fatti salvi i casi di esclusione e di esenzione.
  6. La disciplina della VIR è dettata dall’articolo 14, Legge 28 novembre 2005, n. 246 “Semplificazione e riassetto normativo per l’anno 2005” e dal DPCM 15 settembre 2017, n. 169 “Regolamento recante disciplina sull’analisi dell’impatto della regolamentazione, la verifica dell’impatto della regolamentazione e la consultazione”. La VIR è effettuata sulla base di un Piano biennale per la valutazione e la revisione della regolamentazione, predisposto da ogni Amministrazione e approvato con decreto ministeriale, tenuto conto degli esiti delle consultazioni svolte.
  7. V. Azzollini, Se per le politiche vale sempre la presunzione d’efficacia, Lavoce.info, 10.03.2017, qui consultabile: https://www.lavoce.info/archives/45482/se-per-le-politiche-vale-sempre-la-presunzione-defficacia/.
  8. Non per caso, un profilo sollevato da tutti gli autori del volume è quello della disponibilità dei dati. Le analisi controfattuali volte a innalzare la qualità delle politiche pubbliche non possono infatti essere svolte se i ricercatori non hanno acceso ai dati attraverso cui confrontare le decisioni politiche. Si veda il commento di de Blasio – Nicita – Pammolli, Introduzione, cit., p. 21, per il quali si tratta di «un tema che nel nostro paese si pone allo stesso tempo con connotati drammatici e paradossali. Drammatici perché, nonostante alcune iniziative d’eccellenza, come ad esempio quella di VisitINPS richiamata nel capitolo V, il gap con le possibilità di accesso agli archivi statistici di altri paesi è impressionante. Paradossali perché in tanti ambiti la pubblica amministrazione già possiede le informazioni necessarie ai ricercatori, ma non ne viene autorizzato l’utilizzo».
  9. Su cui vd. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo4 (il Mulino 2019), p. 221.
  10. Cfr. G. Boggero, La garanzia costituzionale della connessione adeguata tra funzioni e risorse. Un “mite” tentativo di quadratura del cerchio tra bilancio, diritti e autonomie, in Rivista AIC, 2019, 4, pp. 339 ss..
  11. de Blasio – Nicita – Pammolli, Introduzione, cit., p. 11.
  12. Adattando così l’espressione «economisti del consenso» che S. Ricossa, I fuochisti della vaporiera. Gli economisti del consenso (IBL Libri 2017) ha riservato a quegli scienziati economici che, nel corso della storia, hanno aspirato al ruolo privilegiato di “consiglieri dei Principi”, finendo di solito per fornire soltanto «una intelligentissima giustificazione teorica alla loro propensione pratica a sperperare il denaro pubblico» (p. 49). A tal proposito, de Blasio – Nicita – Pammolli, Introduzione, cit., p. 13, rilevano che «l’elemento della concretezza distingue le analisi evidence-based da quelle che gli economisti proponevano anni fa, per lo più tese a discutere aspetti astratti come Stato e mercato, capitalismo e socialismo, lavoro e capitale. Si tratta di un’evoluzione che ha incardinato le analisi economiche nell’alveo del processo di policy making. Gli economisti sono ora in grado di aiutare il decisore pubblico nella scelta delle politiche, mostrando cosa funziona e cosa no e come disegnare programmi di intervento efficaci».
  13. Su cui si vedano N. Irti – E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica (Laterza 2001), e le notazioni a margine del dialogo di L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Id., Scritti, I, a cura di C. Castronovo – A. Albanese – A. Nicolussi (Giuffrè 2011), p. 41 ss..
  14. Cfr. C. Schmitt, Il concetto del «politico», ora in Id., Le categorie del politico. Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio – P. Schiera (il Mulino 1972), pp. 167 ss., spec. p. 178: «la neutralità della tecnica è qualcosa di diverso dalla neutralità degli altri centri finora venuti finora alla ribalta. La tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità».
  15. de Blasio – Nicita – Pammolli, Introduzione, cit., p. 13.
  16. Ibidem.
  17. L. Castellani, L’ingranaggio del potere (Liberilibri 2020), p. 25.
  18. Cfr. G. De Filio – P. Vicchiarello (a cura di), La Strettoia. La copertura finanziaria come strumento di contenimento dell’attività legislativa di iniziativa parlamentare (Jovene Editore 2018), su cui la recensione di G. Boggero, in questa Rivista, 2019, 3 (da cui la definizione virgolettata).
  19. Recentemente, Natalino Irti ha ricordato che questo aspetto ha costituito uno dei punti più rilevanti del dibattito intercorso, nei primi decenni del secolo scorso, tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi (vd. La libertà, il fine e la tecnocrazia, La Stampa, 9.11.2021).
  20. Così proprio Irti (nt. precedente). Osserva Azzollini, Se per le politiche vale sempre la presunzione d’efficacia, cit., che «la conoscenza di ciò che ha funzionato o meno e la trasparenza dei relativi processi di esame è il fattore che consente ai politici di essere più forti e credibili quando avanzano proposte di modifica o ricette alternative».
  21. de Blasio – Nicita – Pammolli, Introduzione, cit., p. 19.
  22. Ibidem.