La trasparenza nella pubblica amministrazione: una sfida storica fra responsabilità istituzionale e d’impresa, nuove statualità, innovazione.
Una prospettiva di analisi e di policy making a partire dall’esperienza del progetto green clean market nell’ambito del siemens integrity initiative: la lotta alla corruzione e per mercati funzionanti come driver di un percorso di reingeneering del ruolo della funzione pubblica
Paolo Bertaccini Bonoli1
Inquadramento storico-metodologico
Il confronto contemporaneo degli ultimi 25 anni (1989-2014) sui temi della riforma della Pubblica Amministrazione si configura quale componente significativa del confronto culturale e politico nazionale (in Italia molto più che negli altri Paesi europei) anche a livello di partecipazione della pubblica opinione ed è a sua volta preceduto da un lungo periodo a partire dalla fine degli anni Sessanta, inizialmente centrato in prevalenza sulla costituzione delle Regioni e in seguito sulle modalità attuative del loro effettivo concretarsi, dove lo stesso tema è stato presente nell’agenda politica italiana, ma molto più – se non esclusivamente – per impulso da parte di elites (1968-1989), avvertito lontano da una pubblica opinione di fatto assorbita da altre priorità sociali. 2
In entrambe le fasi, il tema dell’efficienza della macchina organizzativa dello Stato, della qualità e performance del servizio pubblico verso il cittadino e verso le forme associative con cui nella concretezza “fa società”, e fra esse in particolare le imprese, è stato significativamente subordinato da un lato rispetto alla riflessione teorica e politica relativa alle correlazioni fra la stessa PA e il processo europeo in corso di integrazione sopranazionale, con le note forti componenti proto-federali, e dall’altro rispetto al possibile processo di riarticolazione di poteri su scala locale (municipale e regionale), anch’esso su base federale, o para-federale. Il confronto si è dunque per decenni focalizzato molto più sui “referenti” territoriali della PA, che non sulle sue logiche e modalità organizzative proprie.
In buona sostanza lo studioso sociale può già trarre la conclusione che in Italia, nell’insieme, in cinquant’anni di storia nazionale del dopoguerra, a cavallo fra la Guerra Fredda e il ciclo della forte globalizzazione delle economie mondiali successivo alla sua fine, il tema dell’efficienza della pubblica amministrazione non ha avuto un ruolo di primo piano de facto né nell’agenda politica, né per la pubblica opinione. Per ragioni di priorità assegnate ad altre issues del processo sociale la performance della macchina amministrativa, benché fosse crescente la consapevolezza di una sua non adeguatezza generale (salvo eccezioni, peraltro meno trascurabili di quanto appaia a prima vista) a standard di qualità e di congruo rapporto costo/benefici, non è stata al centro dell’attenzione reale da parte di cittadini, imprese e rappresentanze politiche e sindacali del lavoro (inclusi i syndicates delle aziende), al di là delle dichiarazioni e del dibattito pubblico generico.
Lo spartiacque del 1989 nella periodizzazione di tale processo è funzionale a evidenziare in chiave storica il differente contesto mondiale in cui tale dibattito sulla Pubblica Amministrazione ha avuto luogo: in estrema sintesi, da una fase in cui la protezione del sistema-Italia nell’area dell’Unione Europea e della NATO consentiva al sistema nazionale – privato e pubblico – di produzione di beni e di servizi di non adottare standard di elevata efficienza, a una fase in cui tale protezione si è da un lato molto indebolita e dall’altro, con l’introduzione dell’Euro e più in generale per il confronto su scala di mercati globali fortemente deregolati (per non dire quasi per nulla regolati in alcuni casi), gli ha richiesto, e richiede, forti livelli di efficienza ed efficacia per generare benessere individuale-sociale ai cittadini e capacità di presenza qualificata (talvolta di semplice sopravvivenza) al sistema d’impresa, piccolo, medio e grande.
All’occhio del ricercatore sociale e dell’osservatore terzo di tale processo storico contemporaneo, benché ancora non si sia sedimentato a sufficienza per consentire una sua compiuta valutazione, una prima immediata sensazione che ne deriva è che tali componenti (l’acceso confronto sull’evoluzione istituzionale sopranazionale verso i possibili Stati Uniti d’Europa e sui poteri locali da acquisire) abbiano in buona sostanza fatto collocare molto in secondo piano, dalla maggioranza delle elites e dalla pubblica opinione, il tema (magari più “banale” in apparenza) dell’efficienza della macchina organizzativa da un lato, e dall’altro delle nuove forme statuali possibili, in larga misura quale conseguenza dell’innovazione tecnologica maturata e diffusasi nella seconda metà del Novecento, e ancor più nei primi anni del Duemila; ciò con particolare riferimento ai mezzi di comunicazione e mobilità, fra le persone e delle persone, e dei servizi e delle merci.
Forse, in certa misura, facendo una congettura, poiché lo si è considerato più una derivata di un più ampio percorso auspicato di reimpostazione generale dello Stato, che non una sua premessa; e sicuramente in larga misura poiché l’indole generale del Paese ha portato a posticipare il più possibile una questione che via via assumeva connotazioni di difficile affrontabilità, sia politica, sia sociale, sia tecnica. E non è mancata, probabilmente, una debole messa a fuoco del diverso ruolo storico e funzionale che alla PA il contesto della globalizzazione necessariamente richiedeva in Italia: da semplice “collante” di unità nazionale, sia sociale che politica (spesso quale “camera di compensazione” di criticità sociali quale il disimpiego, non solo nel Mezzogiorno, benché prevalentemente) a centro erogatore di servizi di alta qualità per cittadini e imprese ai fini di consentirne qualità di vita e qualità produttiva nei mercati globali.
In questa cornice evolutiva, il tema della trasparenza della pubblica amministrazione muta significativamente di segno: da componente complementare della macchina amministrativa a componente fondativa e costitutiva. Più in generale, va tenuto presente che il ciclo storico mondiale a livello internazionale del rapporto fra cittadini e Stato nella seconda metà del Novecento si è sempre più connotato all’insegna del superamento della legittimità (e dunque il graduale instaurarsi della sua illegittimità) degli arcana imperii, del concetto di autorità costituita e di discrezionalità dei decisori pubblici. Uno dei simboli-monumento di questa tendenza è, ad esempio, il Parlamento di Brasilia a opera di Niemayer, in cui il paradigma della riservatezza e inaccessibilità viene ribaltato attraverso la metafora del vetro quale trasparenza e verificabilità diretta da parte dei cittadini; e non casualmente ciò avviene nel Nuovo Mondo. Il Parlamento, che neppure nella tradizione anglosassone è in definitiva del tutto trasparente e resta in certa misura esclusivo, diventa invece “la casa dove tutti possono, e devono poter, entrare”. Il fil rouge che unisce tale fatto simbolico all’odierna diffusione via telematica di incontri di governo o affini (la disclosure estrema del fatto di potere), non solo in Italia, o allo svelare informazioni di Stato secretate, è palese. La trasparenza nelle sue forme più accentuate giunge anche al Palazzo del Governo e ai luoghi di esercizio attuativo del potere, non limitandosi più solo ai luoghi di formazione degli indirizzi generali. Le implicazioni di tale dinamica sono, con tutta evidenza, molto significative, al punto da prefigurare un possibile, forse radicale, ribaltamento del paradigma in cui la macchina burocratica diviene strumento e attrezzo del cittadino, mentre storicamente (anche nelle morfologie liberal-democratiche o socialiste del Novecento, ivi inclusi gli Stati anglosassoni dove è presente la tradizione del civil servant), per millenni, probabilmente sin dall’emergere del fatto burocratico in sé, essa è stato uno strumento al servizio del princeps, del principe, dello Stato in definitiva.
Con quali strumenti e arnesi conoscitivi affrontare questo tema così centrale per il concorso alla “costruzione/decostruzione/ricostruzione” della qualità della vita individuale e sociale nel mondo contemporaneo? Come ogni fatto sociale, e ancor più per una tematica così costitutivamente multidimensionale quale la trasparenza nella Pubblica Amministrazione, non è eludibile lo sforzo (affatto semplice per il ricercatore sociale formatosi nell’età storica dei dominii e degli specifici disciplinari) di organizzarsi in termini per l’appunto transdisciplinari, e dunque non riduzionistici. 3
In questa sede, ci si prefigge di apportare un contributo al dibattito che sta gradualmente informandosi, nel significato di prendere forma principalmente attraverso il processo di acquisizione di informazioni e conoscenze, attraverso alcune annotazioni da una prospettiva storico-epistemologica con elementi di antropologia e di analisi del comportamento individuale e collettivo, nell’ottica di un auspicabile e possibile percorso che via via si arrichisca e completi con nuovi chiavi di lettura. Il contributo che segue propone uno schema per una possibile interpretazione del fenomeno che si basa su: a) un caso specifico di azione diretta a promuovere la trasparenza nella pubblica amministrazione, il progetto Green Clean Market in corso di realizzazione dal 2010 da Transparency International Italia in Italia nell’ambito del Siemens Integrity Initiative sulla prevenzione della corruzione nei settori ad alta innovazione della green economy 4 ; b) quattro componenti cui attribuire specifica rilevanza per un modello esplicativo e applicativo: la corruzione come tipologia di reato con un forte ruolo simbolico esplicativo della crisi dei rapporti fra impresa e PA, la diffusione del concetto di Responsabilità Sociale d’Impresa, il dibattito sulle nuove statualità e il ruolo delle nuove tecnologie telematico-digitali nel ridefinirsi del rapporto fra cittadino/impresa e macchina pubblica; e infine c) un campo di applicazione possibile per un ruolo specifico e altamente qualificato per la Pubblica Amministrazione nell’ottica del processo di riforma in corso.
Significato e risultanze del progetto Green Clean Market e del Siemens Integrity Initiative
Il caso specifico che agevola nell’affrontare la tematica nel vivo della concretezza del manifestarsi quotidianamente dell’azione amministrativa è il progetto Green Clean Market, uno dei 36 progetti finanziati nel 2010 in tutto il mondo con la prima tranches di finanziamenti del Siemens Integrity Initiative, un’iniziative globale della multinazionale Siemens con sede in Germania che, alla luce delle serie problematiche di corruzione emerse nelle sue attività internazionali (peraltro al pari di pressoché ogni altra grande corporation globale), ha elaborato e avviato una politica/azione di lungo periodo, riconducibile all’alveo delle azioni di CSR – Corporate Social Responsibility,
Da vari punti di vista questa scelta di policy da parte di Siemens ha caratteristiche, anche qui, di forte cambiamento di paradigma del “fare impresa”: la corporation mette difatti in essere questa policy a partire dal seguente schema logico di valutazione/azione: a) prende atto e assume che i mercati in cui opera hanno caratteristiche improprie tali di distorsione da comportare seri rischi di pratiche illegali e di carenza di integrità comportamentali; b) valuta che, nel mondo intero, le istituzioni pubbliche preposte a garantire l’integrità dei mercati stentano a garantire tale esito (registra di fatto la loro incipiente obsolescenza rispetto a tale funzione); c) si organizza, attraverso modelli interni di compliance evoluti, a garantire il più possibile la correttezza dei compoprtamenti all’interno della propria organizzazione, che non dà più per scontati, collocando l’integrity come componente costitutiva, non eludibile, del fare impresa; d) ridefinisce in certa misura i propri obiettivi di attività, sviluppo, competitività, redditività e profitto in ultima analisi, calcolando e prevedendo un costo potenziale di perdita di efficacia sui mercati internazionali nel dotarsi di standard di integrità più stringenti; e focalizzandosi dunque ancor più sull’innovazione quale leva di competitività e di capacità di essere presenti con prodotti e servizi sui mercati; e) ritiene di varare un piano quindicinale (sic!) alla luce di una serietà della problematica che obbliga a interventi di lungo periodo, considerando dunque l’integrità dei mercati una issue su cui dovrà essere maturato specifico know-how; f) assegna le risorse finanziarie per il contrasto all’illegalità nei mercati a soggetti della società civile, in prevalenza, o a corpi intermedi della società, quali università o centri studi, in funzione di stimolo: fa leva dunque, in buona sostanza, sulla società civile, aprendo il progetto a ogni altra impresa che ritenga di concorrervi, in una potenziale dinamica di advocacy collttiva d’impresa per garantire i prerequisiti etici di funzionamento dei mercati, oggi a rischio.
Tale politica è ovviamente possibile poiché il posizionamento di Siemens sui mercati mondiali consente di adottarla con implicazioni, per quanto impegnative, gestibili; palesemente non tutte le imprese possono permettersi in termini analoghi linee di indirizzo così strutturate.
Ciò premesso, al netto delle verifiche di congruità, coerenza ed efficacia che solo gli anni a venire potranno fornire, il Siemens Integrity Initiative rappresenta una scelta strategica molto significativa nella tipologia di rivisitazioni della vision/mission d’impresa e dei suoi schemi relazionali con le pubbliche amministrazioni nel mondo, poiché, in ultimissima analisi, la corporation valuta – ai fini di poter operare correttamente sui mercati – di farsi affiancare dalla società civile in una funzione di watch-dog proattivo verso la PA. Il che equivale a dire che, in uno schema tradizionale esclusivamente dialogico di rapporto fra impresa e PA, ciò non è più probabile, nella valutazione della corporation: i mercati funzioneranno correttamente se gli attori in gioco saranno tre, e non più due. Con una ulteriore implicazione: che i processi di riforma della PA, nel mondo, potranno avere effettivamente luogo solo in presenza di un massiccio ruolo di spinta da parte dei cittadini e delle loro organizzazioni, poiché le capacità di auto-riforma da parte delle PA vengono ritenute più limitate, se non addirittura molto più limitate, rispetto a quelle dell’universo dell’impresa privata.
In questa cornice il progetto supportato in Italia è stato proposto e realizzato – e si trova ora in corso di continuità e ulteriore strutturazione – da Transparency International Italia in partnership con il centro studi criminologici RISSC e con l’adesione del Dipartimento della Funzione Pubblica, in un quadro ampio di collective action. Si prefigge di focalizzare un insieme di sforzi (conoscitivi, relazionali, propostali, comunicativi) sulla issue della corruzione e dei reati economici in genere nell’ambito dei settori ad alta innovazione, con particolare riferimento ai segmenti delle energie rinnovabili, della mobilità, dell’ICT; e dunque con forti implicazioni attuative possibili, ad esempio, anche nei percorsi in essere sulla smart city in Europa.5 Le risultanze emerse a oggi dal progetto evidenziano in modo non equivocabile la relazione difficile, se non addirittura conflittiva, tra impresa e amministrazione pubblica da un lato; 6 dall’altro, una crescente disponibilità, talvolta proattiva, di segmenti qualificati della PA a ricercare essi stessi una collaborazione sostanziale con soggetti della società civile. Appare dunque configurarsi un ruolo di intermediaria, anche in una logica di mediazione culturale, da parte della società civile, nelle sue forme organizzate più qualificanti, per il superamento di uno schema relazionale in buona sostanza obsoleto.
La corruzione come reato simbolico ed esplicativo
Come premesso, a partire dal caso pratico del progetto Green Clean Market, il contributo di questa nota è volto a ipotizzare un modello interpretativo/attuativo che si basi su quattro “componenti forti”. La prima è rappresentata dalla corruzione come tipologia di reato con un forte ruolo simbolico esplicativo della crisi dei rapporti fra impresa e PA, e più in generale dei rapporti fra PA e cittadini. Va da sé che le disfunzioni possibili, ed esistenti, del funzionamento delle macchine amministrative sono molteplici, e dunque la corruzione ne è solo una fattispecie. Si tratta al tempo stesso però di una fattispecie che riveste una sua peculiarità.
In primo luogo per ragioni di ordine, ancora una volta, di storicizzazione del reato: sino a qualche decennio fa, nella letteratura degli economisti dello sviluppo e degli storici dell’economia, la corruzione era talvolta addirittura classificata quale fisiologia del processo economico virtuoso, o comunque non quale sua seria patologia. A partire dal 1989, in particolare, il fenomeno della corruzione ha via via mutato nel mondo la sua natura qualitativa e quantitativa nel contesto della globalizzazione: la corruzione, da fatto in prevalenza individuale, o se sistematico da collocarsi in una supposta funzione sociale (come nel caso delle deviazioni del sistema partitico in Italia ai fini delle rispettive visioni politiche, oppure addirittura “teorizzata” da Enrico Mattei in funzione dell’autonomia energetica nazionale da conquistare), si trasforma dopo la Guerra Fredda in una pratica caratterizzata da una logica di prevalente appropriazione indebita, fortemente criminosa e con devastanti effetti sociali, a favore di comitati d’affari, talvolta transnazionali; e in genere vorace e limitatissima capacità di auto-limitazione. La corruzione dunque, da fatto “endemico” ma non gravemente patologico del rapporto fra pubblico e privato, e fra privato e privato, finisce per divenire uno dei “sintomi” principali della crisi di funzionamento del rapporto Stato-mercato-imprese-cittadini-società in età comtemporanea: non si tratta più di un fenomeno che aggrava i costi per i cittadini in limitata misura, bensì di una dinamica che non solo aggrava pesantemente i costi, ma addirittura distorce a fondo il perseguimento del bene pubblico, sia da parte delle pubbliche amministrazioni, sia da parte delle imprese o dei soggetti sussidiari di servizi di utilità sociale (quali ad esempio nella sanità), fino a giungere alla realizzazione di opere inutili o nocive, anche insicure, con rischi talvolta per la sicurezza fisica individuale dei cittadini. La corruzione, a una lettura attenta del fenomeno, è un vero e proprio dramma sociale contemporaneo non ancora compiutamente svelato e metabolizzato come tale; d’altronde, il vocabolo e concetto stessi di “corruzione” simboleggiano appunto la corruzione, il corrompersi, il marcire, il rovinarsi – in senso sia etimologico che epistemologico – degli attori che la mettono in essere (privati e pubblici), e dunque della società nel suo insieme. Ma, più di altre, inevitabilmente, della pubblica amministrazione stessa, il soggetto preposto – nello schema europeo di dottrina politica classico di matrice settecentesca – alla tutela del bene pubblico comune: se la corruzione si diffonde e dilaga, è la stessa PA che si è corrotta o fondo, più o meno reversibilmente o irreversibilmente.
Transparency International vede la luce come network internazionale focalizzato sul contrasto alla corruzione nel 1994: non casualmente, dopo il 1989. Questo dice molto sulla corruzione come fatto storico, e sulle dinamiche che il corpo sociale ha messo in essere nel corso della globalizzazione post-1989 per contrastarla: sono alti funzionari pubblici della Banca Mondiale a costituirla. Non è questo stesso un fatto implicito di riconoscimento, più o meno inconsapevole, di limitata capacità da parte della PA, e dunque delle istituzioni, a perseguire il bene pubblico e ad auto-riformarsi?
La lotta alla corruzione viene ed è condotta, nei lustri successivi nel mondo, da numero crescente di organizzazioni no profit: è la società civile che si mobilita. Gradualmente ciò avviene all’interno delle imprese private nell’ultima decade, anche in conseguenza delle normative di compliance e da regolazioni che responsabilizzano direttamente l’azienda (in Italia, la 231/01); all’interno delle pubbliche amministrazioni, in buona sostanza, il presidio di contrasto alla corruzione resta invece in larga misura affidato alla buona volontà dei singoli public officer in un contesto di relativa fragilità dei sistemi di controllo e di esposizione alla potenziale dinamica corruttiva che proviene, quasi fisiologicamente in tutto il mondo, dal sistema dei partiti e della rappresentanza politica alla costante ricerca di risorse economiche per poter finanziare l’acquisizione del consenso. Non sono rari i casi in cui l’integrità personale di un singolo public officer, o di un ufficio, viene a costituire l’ultimo baluardo di difesa rispetto a forti pressioni ambientali interne ed esterne verso pratiche illegali; ma è chiaro che un sistema complessivo, in Italia, che ha finito per fare affidamento in particolare sui singoli comportamenti non può che rivelarsi fragile nell’autodifesa, e fragilissimo nel ruolo di controllo e indirizzo esterno.
Nel 1996 in Italia nasce per iniziativa di un nucleo di imprenditori, manager e professionisti l’associazione nazionale affiliata al network di Transparency International; e, a partire in particolare dagli scandali che riemergono a partire dal 2009, il tema della corruzione diviene oggetto crescente di attenzione da parte di organizzazioni della società civile. Di particolare interesse, poiché è uno dei riscontri di capacità auto-riorganizzativa del sistema della PA, si sta rivelando l’esperienza di Avviso Pubblico a partire dal 1996; che però, non casualmente, è in definitiva solo nel 2012 che vara la cosiddetta Carta di Pisa. Gli impulsi significativi di contrasto alla corruzione e di promozione dell’integrità e dell’efficienza amministrativa continuano a provenire in ogni caso, in buona sostanza, soprattutto dalla società civile: si pensi al ruolo svolto da Cittadinanzattiva e da Libera, oltre che da Forum PA.
In tale cornice diviene lecito interrogarsi se forse l’homo burocraticus della PA non sia divenuto in forma diffusa un soggetto autoreferenziale, in qualche misura ex legibus solutus, ovviamente dalle norme non scrotte della responsabilizzazione rispetto al ruolo pubblico della PA. Meglio formulato, l’interrogativo che prende forma è: in che misura l’homo burocraticus è ancora parte del presidio di legalità, e soprattutto di salvaguardia della missione sociale della PA, e in che misura è invece soggetto inerte, quando non colluso con le sue distorsioni funzionali, e dunque parte del problema?
Più in generale è auspicabile, forse ineludibile, che prima o poi abbia luogo una vera e propria riflessione antropologica sull’homo burocraticus tout court, dentro le organizzazioni sia private che pubbliche. Siamo tutti ormai burocrati nel senso degenerativo del termine? La crescente diffusione di pratiche corruttive e di illegalità anche tra privati mostra, agli occhi del ricercatore sociale, che i contesti organizzativi al contorno degli attori – attori, non ce ne si dimentichi, umani – interagiscono in forme incongruenti con i sistemi valoriali di riferimento di questi ultimi: ci si trova al cospetto di attori umani calati in ambienti contraddistinti da forti incoerenze e di difficile leggibilità.
I comportamenti umani, nelle pratiche corruttive, appaiono troppo spesso scollegati dai sistemi di riferimento e inquadramento formali, e dalle loro codificazioni; talvolta, addirittura, poco razionali nella correlazione fra strumenti, obiettivi e modalità. D’altronde, appunto, in tale dinamica neppure il sistema normativo, e dunque i vari Legislatori, possono risultare esenti da corresponsabilità, come noto: in un universo dove le regole formali vigenti vengono così spesso disattese, fino a che punto è lecito ritenere appropriate queste norme? E se sì, su quali basi? E se le basi si rivelano valide, che consistenza hanno norme con debole capacità di farsi rispettare? Senza empowerment, senza il potere della norma di farsi atto praticato, la norma come risaputo non è compiutamente norma.
Più in generale, in Italia maggiormente che altrove in Europa e area OCSE, il tema della corruzione e della trasparenza si correlano in modo molto significativo al tema dell’accountability, la cui tradizione più aderente è: rendicontabilità. Quale esito di un percorso storico, in cui peraltro l’iniziativa individuale ha svolto un ruolo di grande incidenza, che dal 1948 ha condotto l’economia italiana in una importante collocazione internazionale, chi si ritiene oggi in Italia fino in fondo tenuto a rendere conto delle proprie azioni, degli effetti dei propri comportamenti? Non è implausibile giungere alla conclusione, da parte dello studioso sociale, che, se non ex legibus solutus, il pubblico amministratore in Italia – in un contesto culturale diffuso già poco vincolato alla rendicontabilità – si ritenga sovente impegnato al rispetto delle procedure (output) e non rispetto agli effetti reali (outcome) dell’adempimento delle procedure stesse; e in ogni caso a sentirsi poco sottoposti – per varie ragioni – alla verificabilità del proprio operare.
Per paradosso solo apparente in Italia, va tenuto presente, è in corso da qualche anno un processo tutt’altro che banale, nelle premesse, di efficientamento e di modernizzazione della macchina della pubblica amministrazione, forse fra i più ambiziosi nell’area OCSE, nella cui cornice non pochi funzionari e membri della PA trovano contesti e aree di manovra sino a qualche anno fa impensabili. Si pensi in particolare alla Legge 150/2009 sull’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni (cosiddetta Legge Brunetta) e alla Legge 190/2012 sulla corruzione: entrambe, per quanto contestate e sottoposte a serie critiche da vari versanti, costituiscono un quadro di riferimento ormai esistente, sia pure con gigantesche difficoltà applicative, in cui la trasparenza della PA, nell’ottica di un’azione amministrativa focalizzata sugli effetti virtuosi delle proprie politiche, e non su adempimenti formali, può – volendo – essere perseguita. Anche in prospettiva di rivisitare a fondo la ragion d’essere della PA: si consideri, ad esempio, che nel quadro delle Raccomandazioni al settore pubblico emerse dal progetto Green Clean Market è lo stesso diritto amministrativo, e in particolare il concetto sottostante di potestà autoritativa della PA, a essere messo sotto pressione, poiché appare oggi sempre più quale attrezzo che rischia di essere utilizzato a tutela della stessa Pubblica Amministrazione, o di interessi terzi non dichiarati, piuttosto che non a tutela dell’interesse pubblico, e spesso in violazione di legittimi interessi e diritti individuali.
In altre parole, le istituzioni e le pubbliche amministrazioni appaiono sempre più fonte di sopruso sui cittadini, che non di loro tutela.
Dalla responsabilità sociale d’impresa alla responsabilità delle istituzioni
La sfida della trasparenza nelle pubbliche amministrazioni non può essere compiutamente compresa, e convogliata verso esiti congruenti e soddisfacenti, se non in forte relazione con i percorsi in essere di Corporate Social Responsibility che si sono storicamente sviluppati negli ultimi venti anni indicativamente nel mondo. Anche qui, è la società civile sotto forma di impresa che si auto-organizza ai fini di meglio attuare/esplicitare una funzione compiutamente sociale, di pubblico interesse per gli individui.
In Italia in realtà tale etichetta, tale insieme di pratiche, intercettano un solido percorso storico di responsabilità sociale ante litteram di molte imprese italiane (piccole, medie e grandi), più che stimolarlo; ma certamente forniscono una cornice più coerente e funzionale dove tale percorso possa più compiutamente tradursi in concreto. Le traiettorie, teoriche e pratiche, della responsabilità sociale d’impresa si ricollegano, ineludibilmente, alle riflessioni in corso sui paradigmi delle nuove economie, al dibattito sull’etica degli affari, e più in generale alle sfide del trade/off fra autoregolazione e regolazione. In una logica, ancora una volta, storica, epistemologica e antropologica, si pone la sfida di superare il mondo del know-how per giungere (tornare?) al mondo del know-howhy: 7 dal mondo del saper fare al mondo del saper fare con criterio.
A fianco della sfida della CSR (prospettiva anche contestata, considerato che nel “gioco sociale delle parti” tale indirizzo è foriero di potenziali confusioni e di distorsioni serie della missione sociale propria delle imprese e delle organizzazioni private, ossia la produzione di beni e servizi di utilità per i cittadini, e non la fornitura di beni e servizi complementari, o addirittura la correzione di eventuali distorsioni, laddove la tassazione pubblica già reperisce risorse a tale scopo), ben più pregnante e consistente appare la prospettiva della codificazione possibile della responsabilità delle istituzioni. In un contesto di crescenti stimoli in tal senso, si può far riferimento a tale fine al seminario permanente sulla responsabilità delle istituzioni (con un possibile acronimo IR-PASR: Institutional Responsibility-Public Administration Social Responsibility) sotto egida Premio Giorgio Ambrosoli 8 , in collaborazione con Fondazione Giannino Bassetti, la cui missione sulla responsabilità nei processi di innovazione non può che individuare precipuamente nelle istituzioni l’interlocutore primario per processi presidiativi in questo ambito 9.
Lo stesso dibattito sulla sussidiarietà, e i percorsi in essere del Terzo Settore, concorrono a una più compiuta formulazione dell’interrogativo su come fondare e consustanziare la responsabilità delle istituzioni, e più a fondo sulle le funzioni che lo Stato nazionale ha storicamente assegnato alla PA, e le forme in cui si sono sviluppate, e quali quelle che la società (in che misura ancora Stato?) intende assegnargli nel presente e nel futuro.
Il dibattito sulle nuove statualità
Una messa a punto teorica sufficientemente coerente sul declino della funzione storica e sui limiti dello Stato nazionale assoluto risale in Europa, in buona sostanza, alla prima metà del Novecento a cavallo fra le due guerre; mentre la consapevolezza al riguardo delle pubbliche opinioni al riguardo data, con evidenza, dalla fine della seconda guerra mondiale, congiuntamente all’avvio dell’esperienza storica del processo di integrazione europeo, con correlata/premessa/derivata graduale unificazione politica soprannazionale. Esso è un unicum ad oggi nel panorama mondiale: la prima, per quanto incompiuta, esperienza in corso di relativizzazione della componente peculiarmente nazionale degli Stati. In buona sostanza, con semplificazione magari discutibile, nella prospettiva di configurare una formula intermedia fra federazione e confederazione: una innovazione istituzionale ancora in itinere, di cui è difficile prefigurarne l’esito.
E’ mancato ad oggi, e probabilmente è concausa dell’attuale fase di difficoltà, una riflessione che alla critica della componente nazionale dello Stato (un patrimonio, come detto, ormai acquisito, benché poco divulgato) affiancasse la critica alla componente statuale dello Stato. In prospettiva storica, sono entrambi i termini che esigono rivisitazione: sia lo Stato, sia la sua connotazione nazionale assoluta. Venuta a mancare la riflessione critica sullo Stato, ne è derivata la mancata riflessione su natura, forme e ruoli delle pubbliche amministrazioni, centrali e locali. E la naturale conseguenza è che il processo di unificazione europea, dalla scala locale municipale, a quella distrettuale produttiva, a quella regionale, macro-regionale e transfrontaliera (anche nell’ottica della cosiddetta Europa delle Regioni) a quella soprannazionale, sta affrontando, per usare una metafora, un viaggio nuovo con un’attrezzatura vecchia: l’idea di Stato, e di pubblica amministrazione, tardo ottocentesca e primo novecentesca.
E’ vero altresì che il dibattito in merito è ben più recente, e dunque il suo trasmettersi concretamente alla prassi richiede ancora tempo: le inerzie storiche di “oggetti” quali Stato e Nazione non possono che essere, a semplice buon senso, di lunga durata. Sono però in fase di maturazione, come lo è stato il federalismo nelle sue variegate morfologie teorico-applicative, cornici di riferimento per nuove statualità e nuove forme di strutture e azioni amministrative: si pensi al filone di studi sullo Stato minimo, sulle forme di rappresentanza che superino nella democrazia le criticità dei rischi di tirannia della maggioranza, alla sussidiarietà, alla competizione in essere fra organismi che coagulano la competizione fra sistemi territoriali (in un incipiente affermarsi della categoria concettuale del glocal 10) – i distretti produttivi che si auto-dotano di istituzioni di rappresentanza -, al crescente ruolo delle autonomie funzionali nell’ingegneria istituzionale degli ordinamenti statali, a una crescente attenzione ai pesi e contrappesi interni alle istituzioni (i checks-and-balances anglosassoni), alla rivisitazione critica del ruolo dei Parlamenti, al crescente ruolo para-istituzionale de facto dei corpi intermedi con cui si organizza la società civile, alle sempre più diffuse pratiche e codificazioni auto-regolative. Certo, non mancano le criticità: ad esempio il ciclo storico 1989-2009 pare aver combinato, con esiti disastrosi, troppo spesso la deregulation con la deresponsabilization, più che con la responsabilizzazione. Non esistono possibili nuove statualità efficienti se non accompagnate da forti processi, strutturati nel tempo, di responsabilizzazione degli attori sociali.
E’ la natura stessa del potere politico ed economico in Europa, per ragioni culturali e di ambiente tecnologico circostante, che è mutata fra fine Ottocento e inizio Duemila, come era mutata fra fine del Trecento e inizio Cinquecento, e poi ancora fra metà Settecento e inizio Ottocento; è lo stesso concetto di sovranità che muta di natura dunque, da cui una parziale obsolescenza della divisione classica tra federazione e confederazione (palesemente evidenziata dal processo di unificazione europeo). E dunque, se muta nella concretezza storica la natura del potere, ma non muta la forma dello Stato e della pubblica amministrazione, ne deriva, per l’appunto, la loro graduale corruzione. In questa cornice, di interesse è la proposta su Milano Città-Stato del 1996, con correlato Disegno di Legge Costituzionale 11, proprio perché associava entrambe le sfide: quella di reingegnerizzazione nazionale e quella di reingegnerizzazione funzionale del sistema istituzionale e della funzione amministrativa. E tale proposta, per essere compiutamente compresa, va collocata nel quadro del dibattito di allora sulle autonomie funzionali (da cui la messa a punto del sistema di Authorities indipendenti) e più in particolare nel quadro della Legge 580/1993 che ridefiniva il ruolo delle Camere di Commercio. 12
Può essere detto, per inciso, che la fase storica in corso di avvio, post-nazionale e post-statualità classica moderna, è – in potenza – densa di opportunità per l’Italia. Come è noto, la parabola storica della storia istituzionale italiana ci ha visti fortemente efficaci come sistemi territoriali autonomi sui mercati proto-globali del secondo Medioevo, mentre invece in età moderna e contemporanea il nostro ruolo mondiale è stato fortemente penalizzato prima dall’assenza dello Stato nazionale, poi dalla sua conclamata debolezza rispetto alla esperienze inglesi, francesi, olandesi, tedesche, finanche spagnole e portoghesi. Nella globalità contemporanea, di nuovo basata sui sistemi locali distrettuali, se avrò luogo una rivisitazione della forma dello Stato e del ruolo della PA, il sistema sociale e produttivo italiano potrà esprimere potenziali inespressi negli ultimi cinquecento anni.
Il ruolo delle nuove tecnologie telematico-digitali e i mercati come mission per la PA
Infine, la quarta e conclusiva componente ai fini della riflessione sul tema della trasparenza nella pubblica amministrazione: il ruolo delle nuove tecnologie telematico-digitali nel ridefinirsi del rapporto fra cittadino/impresa e macchina pubblica, sull’in-formarsi delle società contemporanee, sul loro configurarsi, letteralmente, su basi di possibilità/capacità informative in precedenza mai sperimentate. In questo quadro il concetto di innovazione ha assunto una rilevanza di funzionalità sociale, anche ai fini di una graduale possibile socializzazione diffusa dell’impresa privata (si pensi alle start-up, e ad alcune forme di taglio ideologico che le accompagnano). La PA dunque non può sottrarsi alla sfida di organizzarsi al servizio di una società di cui l’innovazione è componente costitutiva, pena, appunto, la sua corruzione.
Un tema chiave per rifocalizzare la missione di una PA moderna, efficace ed efficiente, appare sempre più il corretto funzionamento dei mercati, di cui la lotta alla corruzione è componente costitutiva. Nel mondo anglosassone, e come derivata anche in altri contesti culturali ed economici, in primis quello europeo, si assiste a una forte evoluzione nei sistemi di checks-and-balances, allo sviluppo di crescente giurisprudenza per reati quali il market abuse e la market distorsion. E’ peraltro crescente la sensibilità sociale sugli effetti sociali negativi di molti monopoli di fatto o di posizioni dominanti di mercato; e, fra vari sottoinsiemi, uno acquisisce particolare rilevanza: la regolazione dei mercati finanziari.
L’istituzione mercato, con tutta evidenza fenomenologica, non funziona di per sé: di fronte alla loro evoluzione recenti dei vari segmenti del mercato (fra i quali l’iper-concorrenza, l’ipersegmentazione, pratiche di coopetition, sviluppo del Terzo Settore sussidiario allo Stato, afearmarsi delle PPP – Pratnership Pubblico-Private), la PA è chiamata ad aggiornare il proprio ruolo di regolatore e di arbitro, nella direzione di accompagnare e stimolare coerenti autoregolazioni e di limitare ruoli attivi all’interno dei mercati, per non ingenerarne essa stessa distorsioni.
E’ in questa cornice che la sfida della trasparenza della Pubblica Amministrazione va collocata, ossia nel logos, nel pensiero delle sue funzionalità e scopi. Poiché la trasparenza, in altre parole, è più uno strumento che non un fine: a poco servirebbe una macchina amministrativa con il cofano di cristallo, ma con un motore e una carrozzeria obsoleti.
1 Centro Studi Territoria e Transparency International Italia.
2 Giuliano Amato e Marcello Ravveduto, Il Riformismo mancato, Castelvecchi, 2014.
3 Bocchi Ceruti, Origini di Storie, Feltrinelli, Milano, 1996.
4 www.greencleanmarket.org e www.siemensintegrityinitiave.org.
5 Paolo Bertaccini, Die Ueber-Stadt, TAO Magazine ,11, 2011, pp-6-11.
6 Cfr. Report su www.greencleanmarket.org.
7 Paolo Bertaccini, Know-Howhy, su “Economia e Etica”, Nemetria, Foligno, 2004.
8 Cfr.: www.premiogiorgioambrosoli.it.
9 Cfr.: www.fondazionebassetti.org.
10 Cfr: http://www.globusetlocus.org/.