Il ddl Calderoli in tema di regionalismo differenziato. Una lettura critica

Francesco Pallante[1]

Sommario:

1. Una disposizione costituzionale a lungo inattuata – 2. Un ddl d’iniziativa (non governativa, ma) ministeriale – 3. Una fonte inadeguata – 4. L’incostituzionale pretesa di estendere l’art. 116, co. 3, Cost. alle Regioni speciali – 5. Le criticità della disciplina di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. – 5.1. La mancanza di vincoli all’atto di iniziativa regionale – 5.2. La marginalizzazione del Parlamento nella definizione delle leggi di approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni – 5.3. La definizione selettiva e finanziariamente condizionata dei livelli essenziali delle prestazioni – 5.4. L’attribuzione alle Regioni delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sulla base del criterio del c.d. residuo fiscale – 6. La presenza di disposizioni pleonastiche

1. Una disposizione costituzionale a lungo inattuata

Il regionalismo differenziato costituisce un nodo critico della riflessione costituzionalistica sin dalla sua introduzione nel testo della Carta fondamentale disposto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001. Conciliare la disciplina generale sulle Regioni ordinarie, contenuta nel Titolo V della Parte II della Costituzione, con la previsione di una disposizione derogatoria della stessa – quale è l’art. 116, co. 3, Cost. – non è operazione banale, specie per gli effetti di sistema che possono scaturirne[2]; così come non lo è dare concreta e dettagliata attuazione a una disciplina che il dettato costituzionale rinnovato nel 2001 si limita a tracciare per sommi capi e con linguaggio non sempre adeguatamente controllato.

Si spiega, probabilmente, anche così – e non solo con considerazioni di carattere più immediatamente politico – la distanza temporale che separa il proposito di attuare il regionalismo differenziato dalla sua introduzione nella Costituzione: una distanza tanto significativa da aver indotto alcune Regioni a tentare, con una certa dose di spregiudicatezza, di realizzare la differenziazione pur in assenza del necessario quadro attuativo di dettaglio.

Proprio il tentativo di colmare tale vuoto è, verosimilmente, il maggior pregio del c.d. ddl Calderoli, il disegno di legge di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. attualmente in corso d’esame, in sede referente, presso la Commissione permanente Affari costituzionali del Senato[3]. Non appena l’analisi si concentra sul contenuto dell’atto, a emergere sono tuttavia le sue non poche criticità, che investono tanto il provvedimento nel suo complesso, quanto profili più specifici, relativi alla compatibilità con la Costituzione di alcune delle sue disposizioni o all’inopportunità della loro previsione.

2. Un ddl d’iniziativa (non governativa, ma) ministeriale

Una prima osservazione, attinente non al contenuto del ddl, ma alla provenienza dell’atto, concerne il fatto che presentatore ne risulti il solo Ministro per gli affari regionali e le autonomie, e non anche la Presidente del Consiglio, unitamente agli altri Ministri potenzialmente coinvolti, come forse ci si sarebbe potuti aspettare, considerato il profondo impatto sul sistema costituzionale complessivo – a partire dal ruolo dello Stato e dall’assetto delle competenze di tutti i ministeri, per non dire degli equilibri della finanza pubblica – che la realizzazione del regionalismo differenziato comporterebbe.

C’è chi, soprattutto tra i commentatori politici, ha voluto attribuire alla solitudine del Ministro presentatore un significato politico: come se si trattasse della implicita manifestazione della distanza che separerebbe il responsabile degli affari regionali e delle autonomie, e più in generale gli esponenti governativi del suo stesso partito, dal resto della compagine governativa in merito al futuro assetto da attribuire ai rapporti tra lo Stato e le Regioni. Non è dato, naturalmente, sapere se le cose stiano effettivamente così. Quel che è certo, è che, per come si sono venute a configurare le cose, un eventuale fallimento (o stravolgimento) dell’iniziativa si tradurrebbe in una sconfitta politica del Ministro proponente e, indirettamente, della forza politica alla quale appartiene[4].

3. Una fonte inadeguata

Venendo al merito della proposta, va anzitutto evidenziata l’inadeguatezza di fondo dell’atto normativo utilizzato.

Come già rilevato, scopo del ddl Calderoli è disciplinare il procedimento di attuazione dell’autonomia regionale differenziata. Più precisamente (art. 1, co. 1) la finalità dell’atto è definire (a) «i princìpi generali per l’attribuzione alle Regioni a statuto ordinario di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in attuazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione» e (b) «le relative modalità procedurali di approvazione delle intese tra lo Stato e una Regione».

L’idea è, dunque, quella di regolare un procedimento destinato a sfociare nell’approvazione di una legge – la legge che, «sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata» (art. 116, co. 3, Cost.), attribuisce alla Regione stessa le nuove competenze – attraverso … una legge: vale a dire, attraverso una fonte gerarchicamente pari ordinata a quella da regolare e, dunque, dotata della medesima forza normativa della fonte regolatrice. È evidente la fragilità di tale disegno. Una fonte sulla produzione del diritto può pretendere di disciplinare, sul piano formale o sostanziale, una fonte di produzione del diritto se e solo se è dotata di una forza normativa maggiore: tale per cui, cioè, la sua eventuale violazione da parte della fonte di produzione sia destinata a tradursi in invalidità per violazione del criterio gerarchico di risoluzione delle antinomie[5].

Nel caso di specie, le due fonti – entrambe legislative – risulterebbero, invece, dotate di forza equivalente, rendendo perciò inutilizzabile il principio della gerarchia. Il modo corretto d’inquadrare nelle categorie proprie della teoria delle fonti del diritto il rapporto che verrebbe a crearsi tra la legge Calderoli, qualora approvata, e le leggi di recepimento delle intese tra lo Stato e le Regioni, che dovessero essere adottate secondo una procedura differente da quella prevista dalla legge Calderoli stessa, è quello del rapporto tra fonte generale e (pari ordinata) fonte speciale. Si deve, cioè, ritenere che, mentre la legge Calderoli, una volta in vigore, esprimerà la disciplina generale sull’attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. e sulle modalità di approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni, l’eventuale legge di approvazione di una specifica intesa tra lo Stato e una Regione, adottata secondo una procedura anche solo parzialmente difforme da quanto previsto dalla legge Calderoli, si porrà come una norma speciale che fa eccezione, sul punto, alla norma generale, derogandola[6].

All’atto pratico, ciò significa che, anche una volta divenuto legge, il testo Calderoli non impedirà al Parlamento di eventualmente approvare una legge ai sensi dell’art. 116, co. 3, Cost. senza che siano stati prima definiti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che, ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m, Cost., devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (al contrario di quanto dispone l’art. 1, co. 2, ddl Calderoli) o emendando il contenuto dell’intesa raggiunta tra lo Stato e la Regione in modo da attribuire a quest’ultima poteri diversi rispetto a quelli pattuiti tra il Governo e la Giunta regionale (diversamente da quel che dispone l’art. 2, co. 4 e 8, ddl Calderoli, che – come meglio si dirà – vorrebbe vincolare le Camere al puntuale rispetto di quanto sancito nell’intesa tra lo Stato e la Regione).

Il fatto è che, se si volesse disciplinare in maniera davvero prescrittiva il procedimento di realizzazione del regionalismo differenziato, i vincoli procedurali previsti dalla proposta Calderoli dovrebbero essere inseriti in un disegno di legge costituzionale[7].

4. L’incostituzionale pretesa di estendere l’art. 116, co. 3, Cost. alle Regioni speciali

Sempre di tema di rapporti tra fonti del diritto, sorprende, nel testo del ddl Calderoli, la presenza di una disposizione con la quale si vorrebbe estendere la portata normativa di una disposizione costituzionale contro il dettato della disposizione costituzionale stessa.

Si tratta dell’art. 10, co. 2, il quale prevede che «nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano, si applica l’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, numero 3». Una formulazione infelice, il cui intento è, in ogni caso, apertamente dichiarato nella relazione che accompagna il ddl, là dove, a p. 9, si legge che «sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, anche le suddette Regioni a statuto speciale e province autonome possono concludere intese per acquisire nuove competenze nelle materie indicate dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione». Fine della disposizione è, dunque, quello di consentire anche alle Regioni speciali di poter accedere al regionalismo differenziato.

Ora, se una cosa, nell’intricata vicenda del regionalismo differenziato, è pacifica è che l’art. 116, co. 3, Cost. è rivolto alle sole Regioni ordinarie[8]. I primi due commi della medesima disposizione costituzionale contengono, infatti, la previsione delle cinque Regioni a statuto speciale (co. 1) e la suddivisione di una di esse in due province autonome (co. 2), mentre, il terzo comma prevede che ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possano essere attribuite «ad altre Regioni»: «altre», evidentemente, rispetto alle Regioni speciali disciplinate nella precedente parte dell’art. 116 Cost. Dunque, senza alcun dubbio, le quindici Regioni ordinarie.

Qualunque pretesa di estendere la portata normativa dell’art. 116, co. 3, Cost. tramite una legge ordinaria va, di conseguenza, stigmatizzata per quello che è: il tentativo di sovvertire la corretta gerarchia delle fonti del diritto facendo prevalere la fonte subordinata (la legge) su quella sovraordinata (la Costituzione).

E, in effetti, che quella ora argomentata riguardo all’individuazione degli enti territoriali destinatari della norma sia l’unica lettura possibile dell’art. 116, co. 3, Cost. è talmente evidente che lo stesso ddl Calderoli è intitolato «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione».

5. Le criticità della disciplina di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost.

Passando ora all’analisi, più in specifico, della disciplina di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. dettata dalla proposta di legge in commento, quattro sono i profili su cui merita soffermare la riflessione: (1) la mancanza di vincoli all’atto di iniziativa regionale; (2) la marginalizzazione del Parlamento nella definizione delle leggi di approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni; (3) la definizione selettiva e finanziariamente condizionata dei livelli essenziali delle prestazioni; (4) l’attribuzione alle Regioni delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sulla base del criterio del c.d. residuo fiscale.

5.1. La mancanza di vincoli all’atto di iniziativa regionale

Un aspetto del regionalismo differenziato che sembra oggetto di minore attenzione ha a che fare con l’atto attraverso cui le Regioni possono assumere l’iniziativa di richiedere le ulteriori forme e condizioni di autonomia nelle materie indicate dall’art. 116, co. 3, Cost. (la giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali e le ulteriori venti materie elencate nell’art. 117, co. 3, Cost.). E ciò non tanto con riguardo alla forma dell’atto in questione[9], quanto alla sua estensione contenutistica: vale a dire, quanto alle materie che possono risultare oggetto della richiesta regionale.

Se è vero, infatti, che le Regioni che per prime si sono mosse con l’intenzione di ampliare il novero delle proprie competenze – Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna su tutte – hanno avanzato richieste riconducibili alla gran parte delle materie riferibili all’art. 116, co. 3, Cost., se non a tutte (anzi: probabilmente, nel caso del Veneto, che estende le proprie richieste a profili inerenti all’immigrazione, persino oltre il dettato costituzionale)[10], è altresì vero che, fin dalla discussione parlamentare di quella che sarebbe poi divenuta la legge costituzionale n. 3 del 2001, di riforma del Titolo V, furono proposte circostanziate critiche in ordine all’eventualità che questo scenario potesse venire a realizzarsi. Fu, in particolare, Leopoldo Elia[11] a sottolineare il rischio di una lettura che consentisse alle Regioni di poter avanzare richieste senza limiti, affermando che ciò avrebbe potuto tradursi in una revisione costituzionale di fatto, realizzata al di fuori delle procedure, e quindi delle garanzie, sancite dall’art. 138 Cost. E, in effetti, sembra difficile negare che, se tutte le Regioni ordinarie richiedessero tutte le competenze in tutte e ventitré le materie e lo Stato acconsentisse ad assegnargliele, com’è teoricamente possibile, per sempre, l’insieme delle disposizioni costituzionali attualmente rivolte a disciplinare la ripartizione delle competenze legislative, regolamentari e amministrative tra lo Stato e le Regioni perderebbe di significato[12]. Non più di deroga, si tratterebbe, bensì di abrogazione con sostituzione di disciplina, ma realizzata, incostituzionalmente, tramite fonti – le leggi ordinarie di approvazione delle intese – strutturalmente inadatte allo scopo.

A ciò si somma la circostanza che, secondo quanto previsto dal ddl Calderoli, le Regioni non sono tenute ad ancorare le proprie richieste ad alcun elemento possa fondarne una qualche giustificazione sostanziale. L’art. 2 del ddl, che disciplina il procedimento di approvazione delle intese tra Stato e Regioni, legittima, infatti, queste ultime ad avanzare richieste di nuove competenze per il solo fatto che tali competenze sono astrattamente richiedibili, a partire, evidentemente, della convinzione che l’accrescimento dei poteri regionali sia, in quanto tale, un valore meritevole di tutela costituzionale. C’è da chiedersi se i principi costituzionali dell’adeguatezza del livello territoriale (art. 118, co. 1, Cost.), del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97, co. 2, Cost.) e della sostenibilità finanziaria (art. 81 Cost.) non abbiano, in materia, alcun rilievo. Tanto più che, come argomentato dal Servizio del bilancio del Senato, in molti casi le economie di scala garantite dalla gestione accentrata di determinate funzioni consentono di ridurre i costi fissi (non solo economici, ma anche organizzativi), altrimenti destinati a moltiplicarsi qualora le stesse funzioni fossero esercitate a livello decentrato[13].

Ciò che, al contrario, dovrebbe essere previsto, al fine di assicurare il rispetto dei principi costituzionali ora richiamati, è il divieto di richieste regionali motivate dall’indimostrata – e, in effetti, indimostrabile – assunzione che «avvicinare le competenze ai cittadini» (qualunque cosa ciò effettivamente significhi) sia sempre e comunque un bene. Ancora pochi mesi fa era diffusa la convinzione che le difficoltà patite dal Servizio sanitario nazionale nel contrasto alla pandemia da Covid-19 richiedessero un ripensamento dell’eccessiva regionalizzazione di almeno alcune delle competenze in tema di salute. Oggi Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna insistono nel chiedere la regionalizzazione dell’intera materia. È già tutto dimenticato? Colpisce come nemmeno la forza dei fatti riesca a scalfire la graniticità dell’ideologia regionalista.

Occorre ricondurre l’interpretazione dell’art. 116, co. 3, Cost. al dettato costituzionale complessivo – e, in particolare, all’esigenza di conciliare unità nazionale e autonomie territoriali prescritta dall’art. 5 Cost.[14] – in modo tale che ciascuna Regione guardi alle materie ascrivibili al regionalismo differenziato come a un elenco da cui attingere nei limiti delle proprie concrete esigenze di differenziazione[15], per motivi – oggettivamente riscontrabili – di geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.[16]. Scopo della legge di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. dovrebbe essere quello di indurre le Regioni a fare della differenziazione un utilizzo rivolto a soddisfare l’interesse regionale generale (sia pure, politicamente individuato), e non l’interesse regionale particolare di questa o quella forza politica di questo o quel gruppo di potere o di questa o quella porzione del corpo elettorale (esattamente la direzione in cui muove il disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare preposto alla modifica degli artt. 116, co. 3, e 117, co. 1, 2, e 3, Cost., là dove prevede che le richieste regionali debbano essere «giustificate dalle specificità del territorio»)[17].

5.2. La marginalizzazione del Parlamento nella definizione delle leggi di approvazione delle intese tra lo Stato e le Regioni

Il ruolo da affidare al Parlamento nel procedimento di attribuzione alle Regioni delle competenze differenziate è forse il tema che maggiormente ha attirato l’attenzione della dottrina[18].

Ricorrente è la tesi volta a circoscrivere alla mera approvazione o bocciatura i poteri dell’organo rappresentativo: una tesi sostenuta fin da subito dai fautori (soprattutto politici, ma non solo) dell’accrescimento dei poteri regionali, essenzialmente basata sulla ricostruzione del significato della parola «intesa», contenuta nell’art. 116, co. 3, Cost. («la legge [che attribuisce le nuove competenze alle Regioni] è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata») in analogia con il significato attribuito alla medesima parola nell’interpretazione del testo dell’art. 8, co. 3, Cost. (per il quale i rapporti tra lo Stato italiano e le confessioni religiose non cattoliche «sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze»).

In breve, il ragionamento proposto è il seguente: poiché, nel dare attuazione alla procedura di cui all’art. 8, co. 3, Cost. si è previsto che, nel momento di recepire in legge l’intesa con un culto acattolico, il Parlamento non ha il potere di emendare l’intesa stessa, allora anche nel dare attuazione alla procedura di cui all’art. 116, co. 3, Cost. si deve escludere che il Parlamento sia titolare di tale potere. Un ragionamento dall’apparenza quasi lapalissiana, ma, in realtà, viziato dall’insuperabile aporia consistente nell’equiparare, in forza del mero dato testuale, due situazioni tra loro incomparabili. Come se il linguaggio non fosse sottodeterminato e a una stessa parola non potesse essere attribuito più di un significato. Ma, in che senso le due situazioni sono incomparabili? Nel senso che, mentre nel caso dell’art. 8, co. 3, Cost. la disposizione sull’intesa si spiega con l’esigenza proteggere una minoranza (religiosa) debole dal pericolo che la maggioranza possa imporle regole svantaggiose, nel caso dell’art. 116, co. 3, Cost. non esiste alcuna minoranza bisognosa di tutela. Le Eegioni non sono minoranze coese contrapposte a una altrettanto coesa maggioranza statale. Così come lo Stato, anche le Regioni sono enti politicamente plurali, dagli indirizzi politici mutevoli, i cui cittadini sono nello stesso tempo, anche cittadini dello Stato dotati tra loro, a prescindere dalla Regione di residenza, di uguali diritti inviolabili e doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale (art. 2 Cost.). Per questo è sbagliato trattare le Regioni come minoranze potenzialmente oggetto di persecuzione da parte dello Stato, e per questo meritevoli di tutela tramite la protezione dell’intesa dall’emendabilità parlamentare: perché significa minare nel profondo l’idea stessa di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.)[19].

Sul punto, il ddl Calderoli fa propria l’aporia ora stigmatizzata e, equiparando l’art. 116, co. 3, Cost. all’art. 8, co. 3, Cost., opera una netta scelta di campo a favore dell’inemendabilità dell’intesa tra Stato e Regione da parte del Parlamento.

Più in specifico, la procedura dettata dall’art. 2 si articola nelle seguenti tappe: (1) consultazione degli enti locali da parte della Regione; (2) deliberazione dell’atto d’iniziativa regionale, secondo modalità e forme decise dalla Regione stessa; (3) trasmissione dell’atto al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro per gli affari regionali e le autonomie; (4) valutazione dei Ministri competenti per materia e del Ministro dell’economia e delle finanze entro 30 giorni (decorsi i quali si passa, in ogni caso, alla tappa successiva); (5) avvio del negoziato tra lo Stato e la Regione e prosecuzione delle trattative sino al raggiungimento di uno schema d’intesa; (6) approvazione dello schema d’intesa da parte del Consiglio dei Ministri, alla cui seduta partecipa il presidente della Regione; (7) immediata trasmissione dello schema d’intesa alla Conferenza unificata e acquisizione del parere della Conferenza unificata entro 30 giorni (decorsi i quali si passa, in ogni caso, alla tappa successiva); (8) immediata trasmissione dello schema d’intesa alle Camere e approvazione degli atti di indirizzo da parte dei competenti organi parlamentari, udito il presidente della Regione, entro 60 giorni (decorsi i quali si passa, in ogni caso, alla tappa successiva); (9) eventuale nuovo negoziato con la Regione per tener conto dei rilievi formulati dalla Conferenza unificata e delle indicazioni provenienti dal Parlamento; (10) predisposizione dello schema d’intesa definitivo da parte del Governo; (11) consultazione degli enti locali da parte della Regione sullo schema d’intesa definitivo predisposto dal Governo; (12) approvazione dello schema d’intesa definitivo da parte della Regione, secondo modalità e forme decise dalla regione stessa; (13) approvazione dello schema d’intesa definitivo e del ddl di approvazione dell’intesa da parte del Consiglio dei Ministri, alla cui seduta partecipa il presidente della Regione, entro 30 giorni; (14) immediata sottoscrizione dell’intesa definitiva da parte del Presidente del Consiglio e del presidente della Regione; (15) immediata trasmissione del ddl alle Camere per la deliberazione, favorevole o contraria, a maggioranza assoluta, senza potere di emendamento.

Non è necessario spendere troppe parole per evidenziare l’inadeguatezza – al limite del caricaturale – di una normativa che considera l’assunzione di una decisione politica di centrale importanza, suscettibile di condizionare gli equilibri istituzionali complessivi di lungo periodo, alla stregua della decisione di un procedimento amministrativo scandito da termini perentori decorsi invano i quali si passa comunque alla fase successiva (art. 2, co. 1, 4, 5) – sicché sono ritenuti solo eventuali gli interventi dei Ministri competenti per materia, del Ministro dell’economia e delle finanze, della Conferenza unificata e del Parlamento! – e ordini tassativi rivolti al Consiglio dei Ministri, alla Conferenza unificata, al Presidente del Consiglio e al presidente della Regione affinché diano «immediata» esecuzione alle incombenze loro assegnate (art. 2, co. 4, 7, 8)[20].

Altresì evidente è l’inadeguatezza della normativa in questione là dove prevede (art. 2, co. 3 e 6) che il presidente della Regione partecipi alle sedute del Consiglio dei Ministri nel corso delle quali l’organo esecutivo dello Stato è chiamato a valutare, dapprima, lo schema d’intesa con la Regione e, poi, l’intesa definitiva unitamente al ddl di approvazione dell’intesa stessa, con l’effetto che il regolato diventa (co)regolatore di se stesso[21].

Il punto critico decisivo dell’intero procedimento è, in ogni caso, quello per cui al Parlamento spetta pronunciarsi solo eventualmente (tant’è che, decorsi 60 giorni dal ricevimento dello schema d’intesa preliminare trasmesso dalla Conferenza unificata, il Governo predispone «comunque» l’intesa definitiva: art. 2, co. 5)[22] e solo attraverso «atti di indirizzo» (art. 2, co. 4) il cui rilievo è rimesso alla valutazione discrezionale del Governo, chiamato a svolgere un nuovo negoziato con la Regione solo «ove necessario» (art. 2, co. 5). Ovviamente, l’approvazione definitiva in legge dell’intesa è rimessa al voto delle Camere a maggioranza assoluta, come previsto dall’art. 116, co. 3, Cost., ma senza che alle stesse sia riconosciuta la facoltà di eventualmente emendare l’intesa già sottoscritta dallo Stato e dalla Regione (art. 2, co. 7 e 8): dunque, come già accennato, la scelta parlamentare si riduce all’alternativa tra l’approvazione e la bocciatura.

Due sono le conseguenze negative di tale previsione. La prima è che anche a fronte di un’intesa che fosse valutata in modo complessivamente positivo dalle Camere, salvo che per uno o pochi punti dirimenti, anche ciò che altrimenti potrebbe essere approvato dovrà essere respinto: una situazione irragionevole e diseconomica. La seconda – quasi un assurdo logico – è che il Parlamento sarà chiamato ad approvare una legge che lo priverà di alcuni poteri legislativi senza avere il potere di determinare il contenuto della legge stessa[23]. È, fondamentalmente, un problema democratico. I rappresentanti, dal momento che ciascuno di essi rappresenta la Nazione (art. 67 Cost.), assumono decisioni in nome di tutti i cittadini, di modo che, nell’obbedire alle leggi, i cittadini indirettamente obbediscono a loro stessi, dando così realizzazione all’ideale dell’autogoverno democratico. Se però il trasferimento di parte rilevante dei poteri rappresentativi da un organo rappresentativo (il Parlamento) a un altro (il Consiglio regionale) avviene per decisione sostanziale di un organo non rappresentativo, qual è il Governo, che decide l’inemendabile contenuto del ddl di approvazione dell’intesa tra lo Stato e la Regione, è ancora possibile parlare di decisione assunta nel rispetto dei canoni della democrazia? Se i poteri democratici dei cittadini sono nella disponibilità del Governo, allora è evidente che la democrazia si riduce a un mero involucro formale.

Si aggiunga, per concludere sul punto, che l’intesa, una volta recepita nella legge, dispiegherà i propri effetti per dieci anni e che, per eventualmente modificarla, sarà necessario seguire, anche su iniziativa dello Stato, le medesime procedure previste per la sua approvazione (art. 7, co. 1): una previsione che, di fatto, assegna alla Regione un insuperabile potere di veto contro qualunque decisione possa circoscriverne i poteri. Quanto alla cessazione anticipata, sarà decidibile dalle Camere a maggioranza assoluta soltanto nell’ipotesi che l’intesa ne contempli la possibilità e ne disciplini i casi e i modi di realizzazione (così l’art. 7, co. 1, ai sensi del quale «l’intesa può prevedere […] i casi e i modi con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere»). Di fatto, la sola via realmente praticabile per lo Stato[24], qualora avesse intenzione di recuperare almeno parte delle competenze attribuite alla Regione, sarebbe quella di manifestare, dodici mesi prima della scadenza del decennio, la volontà di porre fine all’intesa: in caso contrario, l’intesa stessa risulterà automaticamente rinnovata per un ulteriore periodo di dieci anni (art. 7, co. 2).

Il rischio è che venga a prodursi una situazione simile a quella in cui il Regno Unito si è ritrovato con la Brexit: una decisione esplicante effetti di sistema, da cui, anche qualora lo si volesse, sarebbe oltremodo difficile tornare indietro.

5.3. La definizione selettiva e finanziariamente condizionata dei livelli essenziali delle prestazioni

Di grande rilievo è la questione inerente alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (Lep)[25].

Lo schema del ddl di attuazione del regionalismo differenziato prevede, in sintesi, che prima siano definiti i Lep, in modo da fissare il livello di tutela dei diritti da garantire uniformemente a tutti i cittadini italiani, e poi ciascuna Regione valuti quali competenze ulteriori richiedere al fine di differenziarsi negli ambiti che ritiene prioritari (art. 1, co. 2).

Si è già argomentata – sulla base della pari forza normativa della (eventuale) legge Calderoli e della legge che dovesse approvare l’intesa tra lo Stato e una Regione – l’inconsistenza precettiva di tale schema, con la conseguenza che l’attribuzione delle nuove competenze alle Regioni ben potrebbe, comunque, avvenire anche in assenza della previa definizione dei Lep. Ora è da sottolineare che, anche qualora l’ordine delle priorità dettato dal ddl Calderoli risultasse effettivamente rispettato, ciò in ogni caso non garantirebbe il rispetto del quadro costituzionale in argomento.

Anzitutto, la definizione dei Lep non è prevista per tutte le materie. La lettera dell’art. 1, co. 2, e dell’art. 4, co. 1, parla, in modo indeterminato, di «materie o ambiti di materie» riferibili ai Lep; di conseguenza, l’art. 4, co. 2, prevede che le Regioni possano, fin da subito, acquisire nuove competenze nelle materie escluse dai Lep. Al contrario, l’art. 117, co. 2, lett. m, Cost., pur espressamente richiamato dall’art. 1, co. 2, del ddl Calderoli, non distingue tra diritti costituzionali Lep e non Lep, riguardandoli ugualmente tutti. E, poiché non sembra di fatto ipotizzabile un’attribuzione alle Regioni di competenze o funzioni che non coinvolga, direttamente o indirettamente, almeno un diritto costituzionale, ne segue che, per risultare rispettoso della Costituzione il ddl Calderoli dovrebbe prevedere la previa definizione dei Lep «in tutte le materie o in tutti gli ambiti di materie» riferibili ai Lep. I discorsi volti a distinguere tra «materie Lep» e «materie non Lep» sono forse comprensibili alla luce della difficoltà di individuare concretamente i Lep in alcuni ambiti materiali, ma risultano inaccettabili nel momento in cui sono preposti a lasciare alcuni diritti privi delle garanzie costituzionalmente necessarie. Ancora più avulso dal quadro costituzionale sull’attuazione dei diritti è l’art. 3, co. 1, del progetto di legge in commento, là dove è previsto che i Lep siano definiti soltanto «nelle materie o negli ambiti di materie indicati con legge». Per l’ennesima volta, siamo al cospetto dell’inversione della corretta gerarchia delle fonti. Se la Costituzione prevede un diritto costituzionale, alla legge spetta il dovere di darvi attuazione, quantomeno con riguardo al suo contenuto minimo essenziale (Corte costituzionale, sentenza n. 80 del 2010)[26], in tutti gli ambiti di possibile applicazione di tale diritto: è la Costituzione a circoscrivere la discrezionalità legislativa, non la legge a circoscrivere la portata normativa della Costituzione.

In secondo luogo, suscita fondate perplessità il fatto che l’art. 3, co. 1, del ddl Calderoli rimetta la definizione dei Lep – nel quadro sancito dall’art. 1, co. 791-805, della legge n. 197 del 2022[27] – a decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (dPCM). La Costituzione (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.) affida tale compito alla legge, sulla base della medesima logica democratica riscontrata in precedenza: impegnare la responsabilità politica dell’organo rappresentativo nel decidere il contenuto essenziale dei diritti costituzionali di cui sono titolari i cittadini rappresentati. Esattamente a questo serve la riserva di legge: ad assicurare che le decisioni politiche di maggior rilievo per i governati siano prese, sia pure indirettamente, dai governati stessi tramite i propri rappresentanti. Ciò che si vuole escludere, in altre parole, è che a decidere possa essere il Governo: la ratio della riserva di legge, così come quella della riserva di giurisdizione, è una ratio anti-governativa. È, allora, sufficiente che la legge si limiti ad affidare il compito di definire il contenuto essenziale dei diritti al Governo? Certamente no: quantomeno, i principi fondamentali della materia devono essere dettati dalla legge, pena l’incostituzionalità dell’intero procedimento. Né può avere rilievo il fatto che, ai sensi dell’art. 3, co. 2, sugli schemi dei dPCM il Governo debba acquisire, dapprima, il parere della conferenza unificata e, di seguito, delle Camere (con la solita previsione di termini perentori – rispettivamente di 30 e 45 giorni – decorsi i quali si procederà comunque). Davvero possono pareri, per di più meramente eventuali, soddisfare la previsione costituzionale che assegna la definizione dei Lep alla competenza legislativa esclusiva dello Stato? Davvero possono le disposizioni costituzionali sui diritti essere attuate, in modo soddisfacente, tramite dPCM?

Infine, un cenno almeno meritano due discutibili previsioni in argomento contenute nella legge n. 197 del 2022, cui l’art. 3 del ddl di attuazione del regionalismo differenziato esplicitamente si riconnette. Una riguarda la previsione che la cabina di regia definisca i Lep sulla base, tra l’altro, delle ipotesi formulate dalla commissione tecnica per i fabbisogni standard: significa che, anziché partire dai diritti per poi determinare l’ammontare delle risorse necessarie ad attuarli – come sarebbe costituzionalmente corretto (Corte costituzionale, sentenza n. 275 del 2016)[28] – si partirà invece dalle risorse disponibili (di cui è, infatti, prevista la non incrementabilità) per poi determinare i diritti. Ancora una volta, un’inammissibile inversione dell’ordine gerarchico delle fonti normative, dal momento che, in tal modo, sarà la legge – peggio ancora: il dPCM – a vincolare la portata normativa della Costituzione. L’altra inerisce all’eventualità che i Lep siano, in ultima istanza, definiti da un Commissario straordinario appositamente nominato: un’ipotesi davvero stupefacente, che testimonia come per il legislatore del 2022 la disciplina di un diritto costituzionale abbia lo stesso rilievo politico della realizzazione di un’infrastruttura. Se non è incultura costituzionale, è vero e proprio disprezzo per la Costituzione.

5.4. L’attribuzione alle Regioni delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sulla base del criterio del c.d. residuo fiscale

Altra questione centrale è quella delle risorse da assegnare alle Regioni che dovessero divenire titolari delle nuove competenze. Se ne occupano, a diverso titolo, gli artt. 4, 5 e 8 della proposta Calderoli.

Combinati tra loro, i tre articoli prevedono che:

  • dalle intese tra lo Stato e le Regioni non derivino nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica (art. 8, co. 1);
  • alle Regioni che non sono parte dell’intesa non derivi pregiudizio economico alcuno dall’intesa stessa, dovendo essere loro garantiti sia l’«invarianza finanziaria», sia i finanziamenti di natura, a vario titolo, perequativa previsti dall’art. 119, co. 3, 5 e 6 Cost. (art. 8, co. 3);
  • ciascuna intesa tra lo Stato e le Regioni sia finanziata tramite «compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale» (art. 5, co. 2);
  • dalla definizione dei Lep possa derivare la necessità di incrementare il finanziamento di alcuni diritti (art. 4, co. 1).

È evidente la complessità del meccanismo previsto[29], chiamato a tenere in equilibrio una pluralità di esigenze contrastanti: (a) in primo luogo, occorre che i saldi generali non cambino rispetto a quelli attuali, né a livello complessivo, né per le singole Regioni che non sono parte di ciascuna intesa (dunque, per le restanti quattordici Regioni ordinarie, in un incrocio di invarianze suscettibile di ripetersi ben quindici volte, tante quante sono le Regioni che potrebbero richiedere le nuove competenze); (b) in secondo luogo, ciascun finanziamento regionale, essendo basato sulla compartecipazione a uno o più tributi erariali riscossi sul territorio regionale e dovendo rispettare l’invarianza del saldo complessivo, deve tradursi in un corrispettivo definanziamento statale, peraltro differenziato tra Regione e Regione sulla base di quanto previsto dalle singole intese; (c) in terzo luogo, il riferimento al gettito dei tributi erariali maturati sul territorio regionale lascia intendere che ciascuna Regione dovrà fare affidamento sulla (assai diversificata) capacità fiscale della propria popolazione; (d) in quarto luogo, poiché la capacità fiscale per abitante è differente tra Regione e Regione, così come la dotazione materiale, ampiamente intesa, da cui dipendono lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, gli squilibri economici e sociali, l’effettivo esercizio dei diritti della persona e gli svantaggi dell’insularità, cospicue risorse dovranno essere destinate ai territori più svantaggiati; (e) in quinto e ultimo luogo, occorrerà ridefinire gli equilibri interni alla finanza pubblica complessivamente considerata, aumentando le risorse destinate all’attuazione dei Lep, da compensarsi con la diminuzione di quelle al momento destinate ad altre spese.

Davvero è possibile riuscire a tenere insieme tante disparate esigenze? Difficile crederlo. Lo rileva il Servizio del bilancio del Senato[30], che bolla come implausibili tanto l’invarianza complessiva, quanto l’invarianza per le Regioni che non sono parte dell’intesa. La prima è esclusa dalle esigenze perequative, che necessariamente richiedono l’impiego di maggiori risorse, salvo voler credere all’impossibile, e cioè che le Regioni più ricche siano disposte ad accettare una redistribuzione delle risorse a favore delle Regioni più povere[31]. Lo stesso dicasi con riguardo all’attuazione dei Lep: una misura, a sua volta, di fatto perequativa, in quanto improntata alla realizzazione del principio di uguaglianza. La seconda è esclusa dalla consapevolezza che l’acquisizione di nuove funzioni e competenze da parte delle Regioni che accederanno al regionalismo differenziato necessariamente comporterà un aumento delle loro esigenze di finanziamento, non compensabile, per via della riduzione delle economie di scala derivante dalla presenza di costi fissi, tramite la corrispondente diminuzione delle esigenze di finanziamento dello Stato: al punto che, per quanto ampliate, le compartecipazioni ai tributi erariali potrebbero in concreto risultare insufficienti a finanziare l’incremento dei compiti delle Regioni. Si aggiunge l’esigenza di tenere in debito conto l’andamento del ciclo economico, da cui dipende l’ammontare del gettito tributario, che potrebbe diminuire, mettendo a repentaglio la tenuta del sistema complessivo, oppure aumentare, aprendo la questione di chi, tra lo Stato e le Regioni, debba essere destinatario dell’extragettito che si verrebbe a creare[32] (questione, peraltro, essenzialmente teorica, essendo stata nella pratica stata risolta dalle bozze d’intesa circolate negli anni passati a beneficio – c’è da stupirsi? – delle Regioni).

Ad aleggiare sullo sfondo è, con tutta evidenza, la questione del c.d. residuo fiscale[33]. Non è certo un caso che la proposta Calderoli inserisca il riferimento all’art. 119, co. 3, Cost. (fondo perequativo) non nell’art. 5, che disciplina le modalità di attribuzione delle risorse alle singole Regioni, ma nell’art. 8, che si occupa degli effetti finanziari generali derivanti dall’attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost. Nel momento in cui tratta la questione delle risorse da assegnare alle Regioni che stipuleranno l’intesa con lo Stato il ddl si limita a richiamare il gettito tributario maturato sul territorio regionale (art. 5, co. 2), in perfetta sintonia con la retorica secondo la quale dovrebbe esservi corrispondenza tra quanto la Regione paga in imposte e quanto la Regione riceve in spesa pubblica. Peccato che le Regioni non pagano le imposte né ricevono la spesa pubblica: a farlo sono i singoli cittadini, che pagano e ricevono sulla base della propria condizione personale di benessere o di bisogno, indipendentemente dal territorio di residenza, così come sancito dagli artt. 2 e 53 Cost. in merito al dovere di solidarietà economica[34]. Un dovere che vale tra connazionali, non tra corregionali; e che il ddl Calderoli rischia di violare[35].

6. La presenza di disposizioni pleonastiche

Infine, a completare le criticità della proposta di legge di attuazione del regionalismo differenziato, è da segnalare la ricorrenza di alcune disposizioni pleonastiche, meramente riproduttive di disposizioni costituzionali la cui vigenza non è certamente dipendente dalla loro ripetizione in una fonte di rango legislativo (essendo, al contrario, la pratica di riprodurre le disposizioni di una fonte superiore in una fonte inferiore fortemente sconsigliata dalle regole in materia di drafting normativo).

Tale – deplorevole – tecnica ricorre in almeno tre diverse disposizioni della proposta presentata dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie:

  • la prima è contenuta all’art. 6, co. 2, là dove si legge che «restano ferme, in ogni caso, le funzioni fondamentali degli enti locali, con le connesse risorse umane, strumentali e finanziarie, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p, della Costituzione»;
  • la seconda ricorre all’art. 9, co. 1, in cui è scritto che «anche nei territori delle Regioni che non concludono le intese, lo Stato, in attuazione dell’articolo 119, commi terzo e quinto, della Costituzione, promuove l’esercizio effettivo dei diritti civili e sociali che devono essere garantiti dallo Stato e delle amministrazioni regionali e locali nell’esercizio delle funzioni riconducibili ai livelli essenziali delle prestazioni o alle funzioni fondamentali di cui all’articolo 117, secondo comma, lettere m e p, della Costituzione»;
  • la terza si trova all’art. 10, co. 3, dove si afferma che «è fatto salvo l’esercizio del potere sostitutivo del Governo ai sensi dell’articolo 120, secondo comma, della Costituzione».

In tutti e tre i casi, la domanda è: potrebbe essere diversamente? Davvero è necessario precisare che una legge non può sottrarre agli enti locali le funzioni fondamentali loro attribuite dalla Costituzione; né può sciogliere la Repubblica, in tutte le sue articolazioni, dal dovere di dare attuazione ai diritti civili e sociali; né, infine, può impedire allo Stato l’esercizio di un potere che gli è assegnato dalla Carta fondamentale?

In effetti, verrebbe da pensare di essere al cospetto di altrettante excusationes non petitae: come se gli stessi fautori dell’autonomia regionale differenziata si sentissero in dovere di fornire rassicurazioni contro il rischio che il processo in atto possa condurre a intaccare le funzioni fondamentali degli enti locali, a ostacolare l’attuazione dei diritti costituzionali su tutto il territorio nazionale e a limitare la capacità d’intervento dello Stato a tutela dell’interesse generale.

  1. Professore ordinario di Diritto costituzionale presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino.
  2. Più in generale, come fa notare S. Gambino, Regionalismo ‘differenziato’ e principi fondamentali della Carta, in «Diritti regionali», n. 1, 2023, pp. 306 ss., non è operazione banale conciliare il regionalismo differenziato con l’impianto complessivo dei principi fondamentali della Carta costituzionale.
  3. Atto Senato n. 615 «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione»: https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/56845.htm.
  4. Non per nulla, lo stesso Ministro Roberto Calderoli, intervistato dal quotidiano «La Repubblica» il 15 maggio 2023, ha annunciato le proprie dimissioni, qualora il ddl da lui promosso non dovesse essere approvato.
  5. Così anche A. Lollo, Prime note sul (nuovo) procedimento di attuazione del regionalismo differenziato, in «Diritti regionali», n. 2, 2023, pp. 515 ss..
  6. Esattamente quello che è successo con la delegificazione disciplinata dall’art. 17, co. 2, della legge n. 400 del 1988: la previsione per legge di uno schema generale non ha impedito alle leggi successive di adottare propri modelli derogatori.
  7. Così, recentemente, R. Calvano, Il Monstrum del regionalismo differenziato e le sue vittime, in https://www.lacostituzione.info/, 26 aprile 2023, p. 2. Una proposta diversa – basata sul ricorso allo schema della delegazione legislativa – è stata avanzata da S. Staiano, Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, in «Federalismi.it», n. 29, 2022, pp. 200 ss..
  8. Così, da ultimo, M. Carli, L’attuazione dell’autonomia differenziata, in https://www.osservatoriosullefonti.it/, n. 1, 2023, pp. 9 ss. e A. Lollo, Prime note sul (nuovo) procedimento di attuazione del regionalismo differenziato cit., pp. 505-506, nt. 15.
  9. Tema su cui la lettura forse più originale è quella proposta da O. Chessa, Sui profili procedurali del DDL Calderoli, in «Astrid Rassegna», n. 5, 2023, pp. 1 ss., a parere del quale l’iniziativa dovrebbe essere assunta nelle forme della proposta di legge statale approvata dal Consiglio regionale.
  10. Sul punto, sia consentito rinviare a F. Pallante, Ancora nel merito del regionalismo differenziato: le nuove bozze di intesa tra Stato e Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, in https://www.federalismi.it/, n. 20, 2019, p. 9.
  11. L. Elia, Audizione, in Senato della Repubblica, Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento delle revisioni del titolo V della parte II della Costituzione, 23 ottobre 2001 (http://dircost.di.unito.it/estratti/pdf/20011023_audizioneELIA.pdf). Esprime, anche alla luce dei più recenti avvenimenti (legge di bilancio 2023 e ddl Calderoli), un amaro giudizio su come si è venuta sviluppando la vicenda del regionalismo italiano intorno alla modifica del Titolo V A. Ruggeri, L’autonomia regionale inappagata, la sua “differenziazione” e l’uso congiunturale della Costituzione, in «Diritti regionali», n, 2, 2023, pp. 365 ss..
  12. R. Bifulco, I limiti del regionalismo differenziato, in «Rivista Aic», n. 4, 2019, pp. 265 ss.. Inoltre, come argomenta A. Poggi, Gli ambiti materiali e i modelli organizzativi della differenziazione regionale, in C. Bertolino, A. Morelli, G. Sobrino (a cura di), Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive, Università degli Studi di Torino, Torino 2020, pp. 85 ss., un’ipotesi come quella descritta nel testo finirebbe per annullare il senso della previsione costituzionale delle Regioni a statuto speciale.
  13. Esplicito, sul punto, il rilevo formulato nella «bozza provvisoria non verificata» (sic) della Nota di lettura n. 52 del maggio 2023 redatta dal Servizio del bilancio del Senato, p. 5: «pur se la norma prevede che le funzioni amministrative in esame siano trasferite dalla Regione agli enti territoriali di minori dimensioni, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie, si segnala, in linea di principio, che tale attribuzione potrebbe far venir meno il conseguimento di economie di scala dovuto alla presenza dei costi fissi indivisibili legati all’erogazione dei servizi la cui incidenza aumenta al diminuire della popolazione».
  14. Sottolinea, da ultimo, questa esigenza G. Azzariti, Presidenzialismo e autonomia differenziata: un’altra Costituzione, in «Queste istituzioni», n. 2, 2022, p. 3.
  15. Così L. Violini, I procedimenti per l’attuazione del regionalismo differenziato: luci e ombre dell’art. 116, comma 3, della Costituzione, in «Italian Paper of Federalism (https://ipof.it/)», n. 1, 2019, p. 14, nt. 29 e C. Buzzacchi, L’autonomia asimmetrica come valorizzazione di peculiarità localizzate in un quadro di unità e solidarietà, in D. Coduti (a cura di), La differenziazione nella Repubblica delle autonomie, Giappichelli, Torino 2022, pp. 83-100.
  16. Per esempio, potrebbe risultare giustificato che la Regione Piemonte avanzasse richieste di competenze differenziate volte a fronteggiare la frammentazione del proprio territorio in un elevatissimo numero di comuni (quasi 1.200, sui poco meno di 8.000 complessivi), la gran parte dei quali poco popolati e/o montani. Non sembrano lontani da questa impostazione E. Grosso e A. Poggi, Regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in «Il Piemonte delle Autonomie», n. 2, 2018, p. 4 quando scrivono che «nei casi di differenziazione organizzativa, le autonomie differenziate negli stati regionali sono sempre autonomie “costruite”, e si giustificano sul piano istituzionale in funzione delle “peculiarità di ciascun territorio e di ciascuna popolazione”, cui andrebbero sempre strettamente correlate».
  17. Su cui G. Lauri, Le “proposte Calderoli” sull’autonomia differenziata (e una controproposta), in «Osservatorio costituzionale», n. 3, 2023, pp. 20 ss..
  18. Ricostruisce il dibattito in argomento G. Costa, Il procedimento di attuazione del regionalismo differenziato: ipotesi per una valorizzazione del ruolo del Parlamento, in «Federalismi.it», n. 9, 2021, pp. 85 ss., cui si rinvia.
  19. Sull’errore consistente nell’assimilare le Regioni a una minoranza si veda E. Grosso, Intervento introduttivo, in C. Bertolino, A. Morelli, G. Sobrino (a cura di), Regionalismo differenziato e specialità regionale: problemi e prospettive, Università degli Studi di Torino, Torino 2020, pp. 36-37.
  20. Il tema è approfondito da A. Apostoli, Lo spazio-tempo del d.d.l. Calderoli: accelerazioni e rinvii oltre l’attuazione procedurale, in «Diritti regionali», 9 maggio 2023, pp. 1 ss..
  21. Ricorre, nel ddl Calderoli, una seconda previsione che fa della Regione regolata la (co)regolatrice di se stessa: si tratta dell’art. 5, co. 1, ai sensi del quale le risorse «umane, strumentali e finanziarie» necessarie per l’esercizio da parte della Regione delle nuove competenze, «sono determinate da una commissione paritetica Stato-Regione disciplinata dall’intesa». Il successivo art. 7, co. 4, si spinge persino oltre, prevedendo che la Regione – oltre che la Presidenza del Consiglio dei Ministri, tramite il Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie, e il Ministero dell’economia e delle finanze – può «disporre verifiche su specifici profili o settori di attività oggetto dell’intesa […], nonché il monitoraggio delle stesse»: col che, il controllato diventa il controllore di se stesso.
  22. Lo fa notare anche R. Di Maria, Prime impressioni sulla bozza di disegno di legge per l’attuazione del c.d. “regionalismo differenziato” ex art. 116, co. 3, Cost., in «Diritti regionali», n. 1, 2023, p. 206.
  23. L. Spadacini, L’autonomia differenziata: considerazioni a margine del disegno di legge Calderoli e delle disposizioni della legge di bilancio per il 2023, in https://www.federalismi.it/, n. 10, 2023, pp. 220 ss..
  24. Vi è chi ha sostenuto che nemmeno la modifica dell’art. 116, co. 3, Cost. produrrebbe, di per sé, il venir meno dell’intesa: così, N. Zanon, Per un regionalismo differenziato: linee di sviluppo a Costituzione invariata e prospettive alla luce della revisione del Titolo V, in Aa.Vv., Problemi del federalismo, Giuffrè, Milano 2001, p. 57. In senso contrario, A. Morrone, Il regionalismo differenziato. Commento all’art. 116, comma 3, della Costituzione, in «Federalismo fiscale», n. 1/2007, p. 152.
  25. La rilevanza della definizione dei Lep in rapporto alla differenziazione regionale è fortemente sottolineata da E. Balboni e C. Buzzacchi, Autonomia differenziata: più problemi che certezze, in https://www.osservatoriosullefonti.it/, n. 1, 2023, pp. 47 ss..
  26. Come si legge nella sentenza n. 80 del 2010 (punto 4 del Considerato in diritto): «nella individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone», «il legislatore […] gode di discrezionalità», ma «detto potere discrezionale non ha carattere assoluto e trova un limite nel “rispetto di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati” (sentenza n. 251 del 2008 che richiama sentenza n. 226 del 2000)”».
  27. In sintesi, la legge n. 197 del 2022 istituisce una cabina di regia (coadiuvata da una segreteria tecnica), composta dai Ministri interessati e dai presidenti della Conferenza delle Regioni, dell’Upi e dell’Anci, incaricata del compito di individuare le materie riferibili ai Lep e di determinare per queste i relativi Lep secondo la seguente schematica procedura: (1) determinazione delle funzioni statali e della relativa spesa storica, delle funzioni riferibili ai Lep e, infine, dei Lep da parte della cabina di regia (entro sei mesi): (a) nell’ambito degli stanziamenti di bilancio vigenti e (b) sulla base delle ipotesi della commissione tecnica per i fabbisogni standard; (2) predisposizione da parte della cabina di regia (entro ulteriori sei mesi) dei dPCM che determinano i Lep e i relativi costi e fabbisogni standard; (3) intesa con la Conferenza unificata (entro 30 giorni); (4, aggiunto dal ddl Calderoli) parere delle Camere (entro 45 giorni); (5) adozione dei dPCM da parte del Presidente del Consiglio. Qualora i dodici mesi complessivi assegnati alla cabina di regia non fossero rispettati, il Governo nominerà un Commissario per il completamento delle attività, con successiva adozione dei dPCM da parte del Presidente del Consiglio. Approfondisce l’analisi G.M. Salerno, Con il procedimento di determinazione dei LEP (e relativi costi e fabbisogni standard) la legge di bilancio riapre il cantiere dell’autonomia differenziata, in https://www.federalismi.it/, n. 1, 2023, pp. IV-XV. Sul collegamento tra la legge di bilancio per il 2023 e il ddl Calderoli, M. Podetta e L. Spadacini, L’autonomia differenziata, la c.d. Bozza Calderoli e la legge di bilancio per il 2023, in «Astrid Rassegna», n. 2, 2023, pp. 1-13.
  28. Come chiaramente afferma la sentenza n. 275 del 2016 (punto 11 del Considerato in diritto), «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione».
  29. Parla, più radicalmente, di «errata modalità di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni e delle risorse finanziarie», M. Podetta, Il tentativo di attuazione dell’autonomia differenziata: dal disegno di legge Calderoli alla legge di bilancio per il 2023, in «Consulta online», n. 2, 2023, pp. 362 ss..
  30. Così la «bozza provvisoria non verificata» (sic) della Nota di lettura n. 52 del maggio 2023, pp. 5 e 8-9.
  31. Proprio escludendo che ciò possa avvenire, C. Buzzacchi, Se questo è regionalismo, in https://www.lacostituzione.info/, 6 febbraio 2023, p. 2 giunge a parlare di «inganno dei Lep». Assai scettico anche S. Staiano, Salvare il regionalismo dalla differenziazione dissolutiva, in «Federalismi.it», n. 7, 2023, pp. XII-XIII.
  32. Tema su cui, da ultimo, si veda E. Marchionni e S. Gabriele, Il regionalismo differenziato tra equilibri di bilancio e diritti civili e sociali, in «Menabò di Etica ed Economia», n. 194, 2023.
  33. Così S. Staiano, Salvare il regionalismo dalla differenziazione dissolutiva cit., pp. IX-X.
  34. Sul punto sono assai chiare le parole di G. Pisauro, Audizione del Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio in merito alla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche per aree regionali, Commissione V della Camera dei Deputati (Bilancio, Tesoro e Programmazione), 22 novembre 2017 (http://en.upbilancio.it/wp-content/uploads/2017/11/Audizione_22_11_2017.pdf), p. 3, per il quale «gran parte della redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato dell’interazione tra programmi di spesa di cui i beneficiari ultimi sono gli individui sulla base di caratteristiche che prescindono dall’area di residenza – quali l’età, lo stato di salute, il reddito – e delle modalità di finanziamento di tali programmi».
  35. Assai critica nei riguardi della nozione di residuo fiscale è la stessa Corte costituzionale: come si legge nella sentenza n. 83 del 2016, «il residuo fiscale non può essere considerato un criterio specificativo dei precetti contenuti nell’art. 119 Cost., sia perché sono controverse le modalità appropriate di calcolo del differenziale tra risorse fiscalmente acquisite e loro reimpiego negli ambiti territoriali di provenienza, sia perché l’assoluto equilibrio tra prelievo fiscale ed impiego di quest’ultimo sul territorio di provenienza non è un principio espresso dalla disposizione costituzionale invocata» (punto 7 del Considerato in diritto).