Prime riflessioni sul D.L. 26 giugno 2014 n. 92, convertito con legge 11 agosto 2014, n. 117 – I rimedi al pregiudizio derivante da sovraffollamento carcerario
Sabrina Scaduto1
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il caso Sulejmanovic – 3. Il caso Torreggiani – 4. La questione dei 3 m2 nella giurisprudenza della Corte EDU – 5. Pregiudizio da sovraffollamento e specifici rimedi.
(ABSTRACT)
Lo scritto approfondisce il rimedio del risarcimento del danno per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, introdotto nell’ordinamento italiano dal d.l. 92/2014 convertito, con modificazioni, in legge 117/2014. L’analisi è condotta con uno sguardo agli antefatti che hanno determinato questo nuovo rimedio e quindi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), in particolare le sentenze Torreggiani e Sulejmanovic. In questi giudizi la Corte vaglia la conformità del sistema carcerario italiano alle norme della Convezione e specificamente dell’articolo 3, a seguito di ricorsi presentati da soggetti ristretti in penitenziari2 dislocati in vari parti del territorio, che però lamentavano il medesimo problema, quello del sovraffollamento e delle conseguenze che questo comporta. Un carcere sovraffollato implica spazio ristretto, problemi di igiene, mancanza di privacy, ma soprattutto un trattamento inumano, che viola l’articolo 3 della Convenzione. Il d.l. 92/2014 è la risposta del legislatore alla sentenza Torreggiani, nella quale la Corte EDU assegna un anno di tempo all’Italia, per porre rimedio al problema “strutturale” del sovraffollamento, prevedendo che “le autorità nazionali devono creare senza indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento”.
1. Premessa.
Il decreto legge 26.6.2014 n. 92 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all’Ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all’ordinamento penitenziario, anche minorile), rappresenta l’ultimo intervento del Governo per far fronte al problema del sovraffollamento3 delle carceri.
La precisazione è doverosa in quanto tale atto normativo convertito, con modifiche, in legge 11.8.2014 n. 117, è stato preceduto da altri provvedimenti volti ad arginare la questione dell’eccesso di popolazione carceraria.
Partendo dalla normativa più remota e risalendo a quella che precede il d.l. 92/2014, si evidenzia che con legge 26.11.2010 n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi), modificata dal d.l. 22 dicembre 2011, n. 2114convertito nellalegge 22.12.2011 n. 211, si introduce la misura dell’esecuzione della pena presso il domicilio, della reclusione inferiore a 18 mesi. Invece con il d.l. 23.12.2013 n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito nella legge 21.2.2014 n. 10, sono state introdotte una serie di modifiche all’Ordinamento Penitenziario5, ma ai fini di questo scritto si ricorda l’elevazione del limite di pena per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale da 3 a 4 anni, in tal modo coloro che sono condannati a 4 anni di reclusione potranno accedere a questa misura alternativa al carcere; e l’introduzione dell’istituto della c.d. liberazione anticipata speciale6, con aumento della misura della riduzione pena, fruibile dai condannati comuni, esclusi i condannati per delitti di cui all’art. 4bis O.P., da 45 a 75 fino al 23.12.2015 e con riguardo ai periodi di pena in corso di espiazione alla data del 1.1.2010, questa misura consente ai condannati di ridurre il periodo di permanenza presso il carcere. Il decreto citato, non solo apporta modifiche all’ordinamento penitenziario, ma istituisce anche la nuova figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale7.
Infine con il d.l. 1.7.2013 n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena) convertito, con modifiche, nella legge 9.8.2013 n. 49 si inseriscono nell’art. 656 c.p.p., che disciplina l’applicazione concreta della pena detentiva, i commi 4bis, 4ter, 4quater in base ai quali il pubblico ministero, al fine di emettere l’ordine di esecuzione della reclusione da espiare, promuove presso il magistrato di sorveglianza l’adozione dei provvedimenti di concessione della riduzione pena inerente la liberazione anticipata8, per evitare la carcerazione di condannati con pene residue in esecuzione superiori al limite di tre anni, tranne casi particolari per i quali siffatto limite è elevato a quattro e sei anni.
Per comprendere questo profluvio di normativa bisogna volgere lo sguardo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), più volte intervenuta ad analizzare la compatibilità del sistema carcerario italiano, con la Convezione dei diritti dell’uomo.
2. Il caso Sulejmanovic9.
Nella sentenza della Corte EDU del 16 luglio 2009 – Ricorso n. 22635/03 – Sulejmanovic c. Italia, il problema del sovraffollamento penitenziario era venuto alla ribalta in quanto il signor Sulejmanovic, detenuto presso il carcere romano di Rebibbia, lamentava le cattive condizioni di detenzione dovute alla condivisione di una cella con altri cinque detenuti, risultando in tal modo lo spazio disponibile per ciascuno di essi limitato a soli 2,7 m2. Spazio minimo inferiore ai 7 m2 fissati dal Comitato di prevenzione della tortura e pertanto la Corte ha ritenuto violato l’articolo 3 della Convenzione, perché, sebbene non sia possibile stabilire in maniera precisa lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto, una mancanza evidente di spazio costituisce violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti contenuto nel citato articolo 3.
La corte ritiene che quando il problema del sovraffollamento non è tale da sollevare da solo un pregiudizio sotto il profilo dell’articolo 3, allora acquistano rilevanza altri aspetti delle condizioni detentive, tra cui la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento ed il rispetto delle esigenze sanitarie di base.
Il giudice europeo, in tale sentenza, ha riconosciuto al ricorrente il danno morale, che ha quantificato in euro 1.000,00 a titolo di risarcimento del suddetto danno, poiché ha ravvisato nei fatti provati dal Sulejmanovic, che per un periodo di oltre due mesi e mezzo il detenuto disponeva di uno spazio di solo 2,7 m2.
3. Il caso Torreggiani.
La sentenza Torreggiani10 del 2013 trova un precedente nella sentenza Sulejmanovic c. Italia, che risale al 2009 ed a distanza di quattro anni, la Corte di Strasburgo, torna ad occuparsi del sistema penitenziario italiano. La decisione di cui si discorre trae origine dal ricorso di sette detenuti ristretti nei penitenziari di Busto Arsizio e di Piacenza, che lamentavano: il poco spazio a loro disposizione, quantificato in 3 m2; l’accesso alle docce limitato a causa della penuria di acqua calda e per svariati mesi la totale assenza della medesima; infine l’insufficienza di luce nelle celle a causa di sbarre metalliche apposte alle finestre .
In tale causa il giudice di Strasburgo ha dichiarato sussistere la violazione dell’articolo 311 della Convenzione, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”, nell’ipotesi di assenza di uno spazio vitale nelle celle collettive – che secondo le norme raccomandate dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT) è di 4 m2 – tenuto anche conto della durata della carcerazione; pertanto è fondata la violazione quando viene assegnato ad un detenuto uno spazio in cella pari o inferiore a 3 m2, a prescindere dalle condizioni in cui si svolge la detenzione12; inoltre vi è violazione del citato articolo 3 anche in mancanza di acqua calda per lunghi periodi, oltre che di illuminazione e di ventilazione insufficienti, unitamente all’assenza di spazio abitabile all’interno della cella; ne consegue che queste circostanze risultano dirimenti al fine di valutare le condizioni afflittive di vita del detenuto, anche se a questi è assegnato uno spazio in cella superiore a 3 m2.
Nei ricorsi si apprende che i detenuti hanno denunciato le cattive condizioni di detenzione al magistrato di sorveglianza attraverso il reclamo previsto dall’articolo 35 O.P., ma questo rimedio si è rivelato essere non consono ai criteri stabiliti dalla Corte EDU, per l’assenza di effettività, in quanto la mancata esecuzione da parte dell’amministrazione penitenziaria dell’ordinanza del suddetto magistrato non ha consentito agli interessati di ottenere una riparazione diretta ed appropriata, ma semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione.
Per la Corte l’articolo 3 “pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.
La violazione di quest’obbligo positivo in capo allo Stato comporta la lesione di un diritto della persona e specificamente la lesione di un danno morale.
Nella sentenza emerge che il sovraffollamento in Italia presenta le caratteristiche di un fenomeno strutturale è quindi facile immaginare che le autorità italiane non siano in grado di eseguire le decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai detenuti condizioni detentive conformi alla Convenzione.
La Corte ha quindi riconosciuto ai sette ricorrenti il danno morale per violazione dell’articolo 3 e ha quantificato in via equitativa13 il risarcimento, per un importo complessivo di euro 104.600,00, comprensivo di tutte le differenti posizioni dei detenuti.
Il giudice europeo ha statuito che il rilevato sovraffollamento, essendo un fenomeno strutturale, deve essere risolto dallo Stato con misure o con una combinazione di misure “che abbiano effetti preventivi14 e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario.
Per maggior chiarezza espositiva si ripercorre nei tratti più salienti la sentenza Torreggiani. Innanzitutto si ricorda che per accedere alla tutela offerta dalla Corte EDU, in base all’art. 35 della Convenzione è necessario avere esaurito le vie interne di ricorso ossia giudizio di primo grado, appello ed infine ricorso in Cassazione. Inoltre le violazioni della Convenzione devono essere invocate immediatamente dinnanzi al giudice nazionale, in modo che una tale doglianza alla Corte EDU possa essere preparata fin dall’inizio15.
Nella decisione dell’8 gennaio 2013, causa Torreggiani e altri c. Italia, la Corte non si è limitata al caso concreto ma ha adottato la procedura pilota, considerato il crescente numero di persone potenzialmente interessate in Italia e le sentenze di violazioni alle quali i ricorsi in questione avrebbero potuto dare luogo.
Si riporta il seguente passaggio della sentenza: “la Corteha deciso che, in attesa dell’adozione da parte delle autorità interne delle misure necessarie sul piano nazionale, l’esame dei ricorsi non comunicati aventi per oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia sarà rinviato per il periodo di un anno a decorrere dalla data in cui la presente sentenza sarà divenuta definitiva. La Corte si riserva la facoltà, in qualsiasi momento, di dichiarare irricevibile una causa di questo tipo o di cancellarla dal ruolo in seguito ad un accordo amichevole tra le parti o ad una composizione della controversia con altri mezzi, conformemente agli articoli 37 e 39 della Convenzione. Per quanto riguarda invece i ricorsi già comunicati al governo convenuto, la Corte potrà proseguire il loro esame per la via della procedura normale”.
A tale proposito si precisa che le decisioni della Corte diventano definitive se decorsi 3 mesi dalla data della sentenza di una Camera, nessuna parte richiede che il caso sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera (art. 43 Convenzione). Nel caso in questione il Governo Monti ha presentato ricorso, ma i cinque giudici della Grande Camera lo hanno dichiarato inammissibile il 27 maggio 2013.
Ne è conseguito che la sentenza Torreggiani emessa l’8 gennaio 2013 è divenuta definitiva il 27 maggio 2013, a seguito dell’inammissibilità del ricorso governativo e l’anno di sospensione per l’esame dei ricorsinon comunicati aventi per oggetto il sovraffollamento carcerario in Italia è iniziato a decorre e si è concluso il 27 maggio 2014.
È opportuna un’ultima precisazione relativa a quanto necessario per conformarsi alle indicazioni date dalla Corte allo Stato italiano.
Si è già detto che l’Italia aveva un anno per attuare le misure indicate nella sentenza per risolvere il problema del sovraffollamento, anno che formalmente è venuto a scadere il 27 maggio 2014.
In data 5 giugno 2014 si è svolta una riunione16 tra il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa17 ed il ministro Orlando. La riunione ha avuto per oggetto l’illustrazione delle proposte italiane per la risoluzione del problema su citato, proposte che il Consiglio d’Europa ha valutato positivamente, infatti il Consiglio ha rinviato a giugno 2015 un’ulteriore valutazione sull’attuazione delle misure decise dal governo per affrontare la questione dell’eccessiva popolazione carceraria.
Nello specifico il ministro ha esposto la creazione di un ricorso preventivo nei tempi fissati dalla sentenza pilota sul caso Torreggiani, invece per quanto riguarda le misure risarcitorie anch’esse indicate dalla menzionata sentenza, il ministro ha previsto un ricorso risarcitorio attraverso un decreto legge che introduca la possibilità di una riduzione di pena per i detenuti ancora in carcere ovvero una compensazione pecuniaria per quelli che sono già usciti.
Le proposte illustrate sono confluite nel menzionato d.l. 92/2014 convertito con modifiche nella legge 11 agosto 2014, n. 117.
Tuttavia poiché trattavasi di misure, che all’epoca della riunione non figuravano ancora varate, ma solo prospettate, il comitato dei Ministri ha deciso di analizzare nuovamente la situazione a giugno 2015 per verificare la realizzazione dei progressi compiuti dallo Stato alla luce della presentazione di un bilancio da parte del governo italiano.
Nel caso Torreggiani ed altri c. Italia la Corte ha condotto un’analisi del fenomeno di sovraffollamento carcerario in Italia e della normativa inerente sia a livello interno che a livello internazionale.
La normativa italiana esaminata è la legge n. 354 del 26 luglio 1975 relativa all’ordinamento penitenziario e specificamente gli articoli 6, 35 e 69. Laddove l’articolo 6 prevede che “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale. I detti locali devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia. I locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti. Particolare cura è impiegata nella scelta di quei soggetti che sono collocati in camere a più posti. Agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere ad un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta”. L’articolo 3518 stabilisce che“I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa, al magistrato di sorveglianza, al direttore dell’istituto penitenziario, nonché agli ispettori, al direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena ed al Ministro della Giustizia; alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; al Presidente della Giunta regionale e al Capo dello Stato. La Corte ha affermato che tale norma si è rivelata nei fatti insufficiente a fornire adeguati strumenti rimediali ai detenuti, poiché consente un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, perché inidoneo ad assicurare una pronta cessazione delle violazioni della dignità umana e una riparazione delle conseguenze dannose patite. In particolare la sentenza Torreggiani ha portato alla luce una sistematica violazione di queste garanzie, accertata dalla Corte di Strasburgo con riferimento ai livelli di trattamento in concreto auspicati dal CPT nei suoi vari rapporti generali e, in particolare, nella Raccomandazione Rec(99)22 sul sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria. Ed infine l’articolo 69 O.P. statuisce che il magistrato di sorveglianza è competente a controllare l’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, nonché a prospettare al Ministro della Giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo delle persone detenute (comma 1). Esercita altresì la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia degli imputati sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti (comma 2). Peraltro il magistrato ha il potere di impartire disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati (comma 5). Il giudice decide sul reclamo con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione.
Invece i testi internazionali esaminati dai Giudici di Strasburgo sono i rapporti generali stilati dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa e la citata Raccomandazione Rec(99)22 riguardante il sovraffollamento delle carceri e l’inflazione carceraria, adottata il 30 settembre 1999.
Per quanto qui interessa è di rilievo la seconda parte della raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee (adottata l’11 gennaio 2006, nel corso della 952a riunione dei Delegati dei Ministri) dedicata alle condizioni di detenzione, di cui si riportano alcuni passaggi:
“18.1 I locali di detenzione e, in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata, e rispondere alle condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche, in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d’aria, l’illuminazione, il riscaldamento e l’aerazione.
18.2 Nei locali in cui i detenuti devono vivere, lavorare o riunirsi: le finestre devono essere sufficientemente ampie affinché i detenuti possano leggere e lavorare alla luce naturale in condizioni normali e per permettere l’apporto di aria fresca, a meno che esista un sistema di climatizzazione appropriato; la luce artificiale deve essere conforme alle norme tecniche riconosciute in materia e un sistema d’allarme deve permettere ai detenuti di contattare immediatamente il personale.
18.3 La legislazione nazionale deve definire le condizioni minime richieste relative ai punti elencati ai paragrafi 1 e 2.
18.4 Il diritto interno deve prevedere dei meccanismi che garantiscano il rispetto di queste condizioni minime, anche in caso di sovraffollamento carcerario.
18.5 Ogni detenuto, di regola, deve poter disporre durante la notte di una cella individuale, tranne quando si consideri preferibile per lui che condivida la cella con altri detenuti.
18.6 Una cella deve essere condivisa unicamente se è predisposta per l’uso collettivo e deve essere occupata da detenuti riconosciuti atti a convivere.”
4. La questione dei 3 m2 nella giurisprudenza della Corte EDU19.
Se si confrontano le decisioni Sulejmanovic (2009) e Torreggiani (2013) si evince che la Corte ritiene che l’esiguità dello spazio personale a disposizione del detenuto può, da sola, giustificare una constatazione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, in particolare quando il ricorrente disponga di meno di 3 m2 (si veda anche la sentenza Aleksandr Makarov c. Russia, n. 15217/07, §§ 94-100, 12 marzo 2009).
Emerge quindi il principio (di natura giurisprudenziale) che al di sotto dei 3 m2 la Corte ritenga tale spazio sufficiente a ravvisare una detenzione degradante ovvero inumana per il detenuto, dimostrativa della violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
Ma tale principio a volte non è stato seguito dallo stesso giudice europeo e questo è rinvenibile, ad esempio, nella sentenza Valašinas c. Lituania (n. 44558/98, §§ 107-112, 24 luglio 2001).
Inoltre nella sentenza Trepachkine c. Russia, n. 36898/03, §§ 84-95 del 19 luglio 2007, si afferma che la Corte non può quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale da concedersi a ciascun detenuto ai sensi della Convenzione, perché la questione può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le condizioni d’accesso alla passeggiata o lo stato di salute fisica e mentale del detenuto.
Nella pronuncia Sulejmanovic si richiama il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT), in particolare il secondo rapporto generale – CPT/Inf (92) 3 paragrafo 43 – laddove fa riferimento alle celle di polizia e fissa, quale criterio auspicabile piuttosto che uno standard minimo, la superficie di 7 m2, con distanza di 2 metri tra le pareti e 2,50 metri tra il pavimento ed il soffitto.
Sul punto si riporta quanto detto dal giudice Zagrebelsky nella sentenza Sulejmanovic:
“la maggioranza (del collegio giudicante) ha fatto riferimento alle indicazioni provenienti dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT). Personalmente osservo che tale comitato, quando indica un livello auspicabile – piuttosto che una regola minima – di circa 7 m2, con 2 m o più tra le pareti e 2,50 m tra il pavimento e il soffitto, si riferisce alle celle individuali di polizia, non alle celle destinate alla reclusione, che normalmente ospitano più di una persona. E’ proprio riferendosi a questa seconda categoria che il CPT prende in considerazione la questione della sovrappopolazione e delle sue conseguenze generali, che elenca e considera in modo molto ragionevole escludendo qualsiasi automatismo per quanto riguarda la dimensione delle celle ed il numero dei detenuti. Infatti, esso sostiene che «l’obiettivo dovrebbe essere quello di assicurare che i detenuti negli istituti di custodia cautelare possano trascorrere una ragionevole parte della giornata (otto ore o più) fuori della cella, occupati in attività motivanti di vario tipo. Negli istituti per detenuti condannati, ovviamente, i regimi dovrebbero essere di livello ancora più elevato». Esso aggiunge che «i detenuti devono potere svolgere ogni giorno almeno un’ora di esercizio all’aria aperta» e che «l’accesso, al momento opportuno, a servizi igienici adeguati e il mantenimento di buone condizioni igieniche sono elementi essenziali di un ambiente umano»”.
In definitiva sulla base dei testi internazionali si auspica una superficie che sia adeguata affinché la detenzione avvenga nel rispetto della persona ristretta, ma non è fissato in modo perentorio un limite di 3 m2, infatti il secondo rapporto generale – CPT/Inf (92) 3 paragrafo 43 – riguarda celle di polizia e fissa, quale criterio auspicabile, la superficie di 7 m2, con distanza di 2 metri tra le pareti e 2,50 metri tra il pavimento ed il soffitto; e la seconda parte della Raccomandazione Rec (2006) 2 del Comitato dei Ministri, dedicata alla condizioni detentive, negli esposti paragrafi 18.4. 18.5. 18.6. indica i requisiti minimi che il diritto interno deve garantire, inclusa la preferenza per celle individuali ovvero collettive a condizione che siano adeguate per l’accoglimento di più detenuti riconosciuti idonei a convivere.
5. Pregiudizio da sovraffollamento e specifici rimedi.
Nella decisione Torreggiani, la Corte di Strasburgo, indica il percorso che deve fare lo Stato italiano per porre fine all’eccesso di popolazione negli istituti penitenziari. La soluzione ravvisata riguarda l’individuazione di un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi nel nostro ordinamento, i quali offrano rimedi tangibili, accessibili ed efficaci idonei a garantire una riparazione diretta ed appropriata.
Ed allora con il d.l. 92/2014, si introduce la nuova tutela risarcitoria, che va ad affiancarsi a quella inibitoria, disciplinata dal d.l. 146/2013 nell’articolo 69, comma 1, lettera b), della legge 354/1975. In tal modo si dà una risposta alla Corte che dichiara fondamentale la complementarietà dei rimedi, perché una azione esclusivamente risarcitoria non può essere considerata sufficiente per quanto riguarda le denunce di condizioni di internamento o di detenzione dichiarate contrarie all’articolo 3, in quanto non ha un effetto “preventivo” nel senso che non impedisce il protrarsi della violazione dedotta ovvero non consente ai detenuti di ottenere un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione. Sul punto si precisa che il nuovo rimedio del risarcimento in forma specifica e quindi la riduzione della pena in ragione di un giorno ogni dieci di detenzione, va abbinata alla modifica della disciplina relativa alla misura della custodia cautelare in carcere. Quale rimedio preventivo il d.l. 92/2014 prevede il divieto di applicazione di siffatta misura cautelare nelle ipotesi in cui il giudice ritenga possa essere concessa la sospensione condizionale della pena ovvero preveda che l’esito del giudizio possa concludersi con una pena irrogata non superiore a tre anni20.
Per meglio comprendere il contesto normativo nel quale vanno ad inserirsi i rimedi introdotti dal decreto legge di cui è esame, appare opportuna una breve parentesi sul d.l. 146/2013 convertito nella legge 21 febbraio 2014 n. 10.
Con quest’ultima normativa è stata intrapresa la riforma dei rimedi esperibili per la tutela dei propri diritti da parte dei detenuti, avanti al magistrato di sorveglianza, mediante alcune modifiche al regime penitenziario di cui alla legge 354/1975.
In particolare l’articolo 3, comma 1 lettera b) del d.l. 146/2013 inserisce, nell’ordinamento penitenziario, l’articolo 35 bis che riguarda il nuovo rito camerale, il c.d. reclamo giurisdizionale, il quale attribuisce al magistrato di sorveglianza il potere decisorio afferente ai reclami aventi ad oggetto: le condizioni di esercizio del poter disciplinare, la sostituzione e la competenza dell’organo disciplinare, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa. Ma soprattutto l’articolo 35 bis O.P. consente al magistrato la possibilità di valutare nel merito le decisioni del Consiglio di Disciplina riguardanti la comminazione della sanzione dell’isolamento durante la permanenza all’aria aperta (articolo 39 comma 1 n. 4 O.P.) e dell’esclusione dalle attività in comune (articolo 39 comma 1 n. 5 O.P.). Oltre a ciò, di rilievo è l’introduzione della tutela inibitoria, che si realizza con la competenza del magistrato di sorveglianza a conoscere dell’inosservanza dell’amministrazione delle disposizioni previste dall’ordinamento penitenziario dalle quali derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti (comma 6, lettera b), articolo 69).
Dunque le novità presenti nell’art. 35 bis comportano che, in caso di accoglimento del reclamo scaturito dall’emissione di sanzioni disciplinari, il magistrato di sorveglianza “annulla” il relativo provvedimento di irrogazione; invece in caso di accertamento della sussistenza ed attualità del pregiudizio derivante dal comportamento della amministrazione penitenziaria “ordina”, alla stessa amministrazione di porvi rimedio.
Si rileva che la pronuncia contenente l’ordine deve essere resa efficace da parte della amministrazione, alla quale spetta eliminare la situazione potenzialmente o concretamente lesiva della situazione giuridica protetta in capo al recluso. Infatti il comma 5 dell’articolo 35 bis specifica che conseguita l’irrevocabilità della pronuncia del magistrato di sorveglianza – per omessa impugnazione avanti il Tribunale di Sorveglianza e poi avanti la Corte di Cassazione – la mancata esecuzione dell’ordine attribuisce al detenuto il potere di ricorso al medesimo magistrato di sorveglianza per il c.d. “giudizio di ottemperanza”.
Questi se accoglie la richiesta può ordinare l’ottemperanza indicando tempi e modalità di adempimento da parte dell’amministrazione, oppure dichiarare nulli gli eventuali atti in violazione od elusione del proprio provvedimento rimasto ineseguito ovvero determinare una somma di denaro dovuta dall’amministrazione per ogni violazione o ritardo nell’esecuzione del provvedimento ed infine il magistrato può nominare, ove occorra, un commissario ad acta (comma 621, articolo 35 bis).
Per quanto concerne la possibilità data al magistrato di sorveglianza di nominare un commissario, per ragioni di neutralità, la magistratura22 ha ravvisato che una soluzione ottimale sarebbe quella di individuare, ove esista, la figura del garante per i diritti dei detenuti23, tenuto conto che la disciplina inerente il garante nazionale prevede che questi possa formulare “specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata, se accerta violazioni alle norme dell’ordinamento ovvero la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti ai sensi dell’articolo 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354”.
Anche in relazione agli atti del commissario, il magistrato di sorveglianza “conosce di tutte le questioni relative all’esatta ottemperanza” (articolo 35 bis, comma 7).
Infine, per completezza di informazione, si precisa che il provvedimento di ottemperanza è impugnabile in cassazione per violazione di legge.
Dopo questa parentesi sui cambiamenti che hanno preceduto di pochi mesi il più volte menzionato d.l. 92/2014, si pone attenzione alla tutela risarcitoria introdotta dal legislatore, quale “ottemperanza” alle indicazioni date dalla corte nella sentenza Torreggiani e volte a sopperire l’assenza nel nostro ordinamento di rimedi effettivi sia preventivi sia compensativi.
Le novità riguardano, ancora una volta, l’ordinamento penitenziario.
L’articolo 35ter della legge 354/1975, inserito dal d.l. 92/2014, prevede specifici rimedi risarcitori, nel caso di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, infatti stabilisce che “quando il pregiudizio di cui all’articolo 69, comma 6 lettera b) consiste, per un periodo di tempo non inferiore a 15 giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata dal detenuto, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, il magistrato di sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per ogni dieci durante il quale il ricorrente ha subito il pregiudizio”.
Si constata che il risarcimento non è corrisposto in forma esclusivamente pecuniaria, ma in alcuni casi, anche in forma specifica attraverso una riduzione di durata del rapporto esecutivo penale nel corso del quale è stata patita la detenzione contraria al senso di umanità e dignità protetto dall’articolo 3 della Convenzione.
Nel dibattito che si sta sviluppano attorno all’applicazione di questa nuova disposizione, la magistratura penale intravede la natura strettamente civilistica nel nuovo potere attribuito al magistrato di sorveglianza relativo al rimedio avente carattere compensativo/risarcitorio24.
Quindi, nonostante il giudice naturale del risarcimento del danno sia il giudice civile25, il legislatore ha introdotto un’azione civile avanti al magistrato di sorveglianza. Sul punto, però, si rileva che il legislatore riconduce nell’alveo del giudice civile i casi in cui, coloro che hanno patito la violazione dell’articolo 3 sono soggetti ristretti in esecuzione di pena ma che abbiano sofferto il pregiudizio per una custodia cautelare non imputabile alla pena in corso di esecuzione ovvero coloro non più ristretti perché non più in stato di custodia cautelare o più semplicemente scarcerati per fine pena o per ammissione a misure alternative al carcere. Precisamente l’articolo 35 ter, comma 3, recita:
“Coloro che hanno subito il pregiudizio di cui al comma 1, in stato di custodia cautelare in carcere non computabile nella determinazione della pena da espiare ovvero coloro che hanno terminato di espiare la pena detentiva in carcere possono proporre azione, personalmente ovvero tramite difensore munito di procura speciale, di fronte al tribunale del capoluogo del distretto nel cui territorio hanno la residenza. L’azione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere. Il tribunale decide in composizione monocratica nelle forme di cui agli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile. Il decreto che definisce il procedimento non è soggetto a reclamo. Il risarcimento del danno è liquidato nella misura prevista dal comma 2”.
Quanto sin qui esplicitato consente di introdurre il tema dei presupposti processuali dell’azione di riparazione da pregiudizio di sovraffollamento, vale a dire la competenza del giudice, la capacità processuale delle parti e l’assenza di litispendenza.
Relativamente alla competenza per materia del giudice possono proporre azione avanti al magistrato di sorveglianza coloro che sono destinatari di un titolo definitivo di pena e che sono in stato di detenzione; invece coloro che sono ristretti in custodia cautelare, quindi ristretti non definitivi e gli internati potranno ottenere dal magistrato di sorveglianza la tutela inibitoria, disciplinata dall’articolo 35 bis, allo scopo di fare cessare le condizioni di detenzione contrarie all’articolo 3 della Convenzione, invece per il risarcimento del danno in forma specifica, costoro dovranno attendere la definitività della condanna, sulla cui pena andrà computata la custodia già patita, ma in condizioni detentive inumane o degradanti, mentre tale risarcimento non è esperibile per gli internati non essendovi una pena definitiva da espiare.
Diversamente possono proporre azione avanti al tribunale civile, coloro che sono scarcerati per espiazione di pena ovvero ammessi a misure alternative alla restrizione quali la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale o l’esecuzione pena inferiore a 18 mesi presso il domicilio. L’azione in sede civile, è però soggetta al termine di decadenza di sei mesi dalla data di cessazione dello stato di detenzione o della custodia cautelare in carcere.
In relazione alla capacità processuale delle parti ossia la possibilità di stare in giudizio da sé e di compiere validamente gli atti processuali, l’articolo 3226 c.p. prevede l’interdizione legale quale pena accessoria perpetua, per coloro che sono condannati all’ergastolo, temporanea ossia limitata alla durata della pena, per coloro che sono condannati alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni.
All’interdetto legale, per quanto concerne la disponibilità, l’amministrazione dei beni e la rappresentanza negli atti ad essi relativi, si applicano le disposizioni civili in tema di interdizione giudiziale (c.c. 424 e ss.). Pertanto essendo il requisito della capacità un requisito di validità della domanda, il giudice se rileva, anche d’ufficio, l’incapacità di agire dovrà dichiararne la nullità. Ne consegue che per esperire validamente la domanda di risarcimento del danno da sovraffollamento avanti il magistrato di sorveglianza, il detenuto nella condizione di interdetto legale dovrà essere rappresentato dal suo rappresentate legale vale a dire il tutore.
Sempre in merito alla capacità delle parti, se il titolare dell’azione non vi provvede personalmente, l’articolo 35 ter O.P. consente la proposizione dell’azione per il tramite di un procuratore speciale, munito di procura speciale che, sulla base delle norme del codice di procedura civile, deve essere rilasciata per iscritto.
L’ultimo presupposto processuale, preso in considerazione in questo scritto, è la litispendenza. Trattasi di una peculiare litispendenza legata alla menzionata procedura pilota utilizzata dalla Corte EDU e contenuta nell’articolo 2 del d.l. 92/2014, che disciplina la fase iniziale dell’istituto del risarcimento da sovraffollamento carcerario, infatti riguarda i soli detenuti che prima dell’entrata in vigore del d.l. 92/2014 abbiano proposto ricorso alla Corte di Strasburgo specificamente per violazione dell’articolo 3 della Convenzione. Questi soggetti, per poter avvalersi della nuova tutela risarcitoria, non devono essere stati destinatari di una decisione di irricevibilità27, del suddetto ricorso, da parte della Corte EDU. Inoltre devono proporre l’azione di risarcimento da sovraffollamento entro il termine di decadenza di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto, specificando la data di presentazione del ricorso proposto alla Corte Europea.
Tralasciando gli aspetti processuali, il presupposto di merito per attivare l’azione di risarcimento da sovraffollamento è la sussistenza del pregiudizio previsto dall’articolo 69, comma 6, lettera b), vale a dire l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni di legge che determinano condizioni di detenzione tali da violare l’articolo 3 della Convenzione come interpretata dalla Corte EDU e che da siffatta violazione derivi al detenuto o all’internato un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti. In altri termini la violazione alle norme sull’ordinamento giudiziario deve essere la causa del pregiudizio consistente in condizioni inumane di detenzione, come precisate dalla Corte europea.
L’articolo 35 ter chiaramente introduce un tipo di danno, quello da detenzione inumana e degradante, derivante dall’inosservanza di legge e regolamenti dalla quale consegua la violazione dell’articolo 3 Convenzione europea per salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che non va confuso con altri tipi di danno, come il danno biologico ovvero il danno da ingiusta detenzione, in quanto trattasi di danni di diversa natura.
In altre parole il danno da detenzione inumana e degradante non è sovrapponibile al danno biologico, ossia il pregiudizio subito all’integrità fisico-psichica di una persona causato dalla sofferenza indotta dalla permanenza in regime detentivo che è connotato dalla violazione dell’articolo 3 Cedu, poiché sono situazioni protette da norme differenti, in un caso di rango costituzionale, l’articolo 2 Cost., nell’altro di rango sovranazionale l’articolo 3 Cedu.
Il danno di cui è esame non è neppure sovrapponibile al danno da ingiusta detenzione (314, 315 c.p.p.) che ha un contenuto non coincidente con il danno da detenzione inumana e degradante. In definitiva le azioni per ottenere il risarcimento di siffatti differenti danni sono tra loro cumulabili.
Si ribadisce che l’azione di danno diretta al risarcimento da detenzione inumana e degradante è un’azione di natura civilistica, questo comporta che l’istante ha l’onere sia di allegare i fatti che ritiene idonei a giustificare la sua domanda, sia di provare i fatti che ha allegato, in ossequio al principio dell’iniziativa di parte e del principio dispositivo che governano l’azione civile. Qualora vi fossero delle oggettive difficoltà a dimostrare quanto affermato nella domanda di risarcimento, considerato che la parte al quale si imputano i fatti è una pubblica amministrazione, nello specifico quella penitenziaria, il giudice potrà avvalersi dei suoi poteri istruttori finalizzati all’integrazione delle prove mancanti, per esempio per conoscere quante persone occupavano una cella in un determinato periodo. Se il ricorrente non rispetta questi principi incorre nel rischio di vedersi rigettata la domanda di risarcimento per la mancata produzione della documentazione costitutiva del diritto azionato28.
Relativamente al tipo di risarcimento bisogna distinguere tra procedimento avanti al magistrato di sorveglianza e tribunale civile, il primo dovrà prioritariamente risarcire in forma specifica vale a dire riducendo la pena residua ancora da espiare pari ad un giorno ogni dieci giorni di detenzione e sola in via residua, potrà risarcire in forma pecuniaria29 liquidando una somma pari a euro 8 per ciascuna giornata nella quale l’istante abbia sofferto pregiudizio. Il secondo potrà invece ristorare il richiedente esclusivamente con quest’ultima forma di risarcimento.
1 Funzionaria presso il Consiglio regionale del Piemonte, Direzione Processo legislativo, Settore Studi documentazione e supporto giuridico legale.
2 Della Bella A. (2014), Emergenza carceri e sistema penale, 2014, Giappichelli.
3 Passaglia P. (a cura di), Il sovraffollamento carcerario, in
www.cortecostituzionale.it/documenti/convegni_seminari/CC_SS_sovraffollamento_2014.pdf
4 D.L. 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri).
5 Legge 26 luglio 1975 n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).
6 Art. 4 Liberazione anticipata speciale.
1. Ad esclusione dei condannati per taluno dei delitti previsti dall’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, per un periodo di due anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la detrazione di pena concessa con la liberazione anticipata prevista dall’articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354 è pari a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata.
Si fa notare che diversamente dalla liberazione anticipata “normale” di cui all’articolo 54, la detrazione di pena ai sensi dell’articolo 4 non concorre nel computo della pena necessaria per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale.
7 Art. 7 Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
1. È istituito, presso il Ministero della giustizia, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, di seguito denominato «Garante nazionale».
2. Il Garante nazionale è costituito in collegio, composto dal presidente e da due membri, i quali restano in carica per cinque anni non prorogabili. Essi sono scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei Ministri, con decreto del Presidente della Repubblica, sentite le competenti commissioni parlamentari.
3. I componenti del Garante nazionale non possono ricoprire cariche istituzionali, anche elettive, ovvero incarichi in partiti politici. Sono immediatamente sostituiti in caso di dimissioni, morte, incompatibilità sopravvenuta, accertato impedimento fisico o psichico, grave violazione dei doveri inerenti all’ufficio, ovvero nel caso in cui riportino condanna penale definitiva per delitto non colposo. Essi non hanno diritto ad indennità od emolumenti per l’attività prestata, fermo restando il diritto al rimborso delle spese.
4. Alle dipendenze del Garante nazionale, che si avvale delle strutture e delle risorse messe a disposizione dal Ministro della giustizia, è istituito un ufficio composto da personale dello stesso Ministero, scelto in funzione delle conoscenze acquisite negli ambiti di competenza del Garante. La struttura e la composizione dell’ufficio sono determinate con successivo regolamento del Ministro della giustizia, da adottarsi entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.
5. Il Garante nazionale, oltre a promuovere e favorire rapporti di collaborazione con i garanti territoriali, ovvero con altre figure istituzionali comunque denominate, che hanno competenza nelle stesse materie:
a) vigila, affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti;
b) visita, senza necessità di autorizzazione, gli istituti penitenziari, gli ospedali psichiatrici giudiziari e le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari, gli istituti penali per minori e le comunità di accoglienza per minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria, nonché, previo avviso e senza che da ciò possa derivare danno per le attività investigative in corso, le camere di sicurezza delle Forze di polizia, accedendo, senza restrizioni, a qualunque locale adibito o comunque funzionale alle esigenze restrittive;
c) prende visione, previo consenso anche verbale dell’interessato, degli atti contenuti nel fascicolo della persona detenuta o privata della libertà personale e comunque degli atti riferibili alle condizioni di detenzione o di privazione della libertà;
d) richiede alle amministrazioni responsabili delle strutture indicate alla lettera b) le informazioni e i documenti necessari; nel caso in cui l’amministrazione non fornisca risposta nel termine di trenta giorni, informa il magistrato di sorveglianza competente e può richiedere l’emissione di un ordine di esibizione;
e) verifica il rispetto degli adempimenti connessi ai diritti previsti agli articoli 20, 21, 22, e 23 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, e successive modificazioni, presso i centri di identificazione e di espulsione previsti dall’articolo 14 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, accedendo senza restrizione alcuna in qualunque locale;
f) formula specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata, se accerta violazioni alle norme dell’ordinamento ovvero la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti ai sensi dell’articolo 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354. L’amministrazione interessata, in caso di diniego, comunica il dissenso motivato nel termine di trenta giorni;
g) tramette annualmente una relazione sull’attività svolta ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché al Ministro dell’interno e al Ministro della giustizia.
8 Art. 54 Liberazione anticipata
1. Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare.
2. La concessione del beneficio è comunicata all’ufficio del pubblico ministero presso la corte d’appello o il tribunale che ha emesso il provvedimento di esecuzione o al pretore se tale provvedimento è stato da lui emesso.
3. La condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio ne comporta la revoca.
4. Agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 1 si considera come scontata. La presente disposizione si applica anche ai condannati all’ergastolo.
9 La sentenza è reperibile all’indirizzo:
http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?previsiousPage=mg_1_20&contentId=SDU151219
10 La sentenza è reperibile all’indirizzo:
http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_20_1.wp?contentId=SDU810042
11 L’articolo 3 della Convenzione individua un divieto che si scompone in tre condotte distinte che, a seconda del tipo di intervento nei confronti dell’individuo e delle sue conseguenze, vengono qualificate come tortura, ovvero pena nel senso di trattamento inumano o pena nel senso di trattamento degradante. I Giudici di Strasburgo collocano un evento in una delle tre condotte a seconda del livello di gravità raggiunto dallo stesso. Nell’evoluzione interpretativa della Corte – sentenze Tekin c. Turchia (1998) e Labita c. Italia (2000) – è qualificato “inumano” quel trattamento che “provoca volontariamente sofferenze mentali e fisiche di una particolare intensità”; “degradante” quel trattamento che “umilia fortemente l’individuo davanti agli altri e che è in grado di farlo agire contro la sua volontà o coscienza”; è qualificato come “tortura” quel trattamento disumano o degradante che causa sofferenze più intense ovvero sofferenze gravi o crudeli” inflitte con lo scopo di ottenere informazioni, confessioni.
12 Vedasi la sentenza Sulejmanovic c. Italia, n. 22635/03§ 43, 16 luglio 2009, nella quale si fa riferimento ad alcuni casi (per esempio sentenza Aleksandr Makarov c/Russia, n. 15217/07, §§ 94-100, 12 marzo 2009) nei quali, disponendo i ricorrenti di meno di 3 m2, la Corte EDU ha ritenuto che l’esiguità dello spazio personale a disposizione del detenuto può, da sola, giustificare la constatazione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
Ma vedasi anche la sentenza Trepachkine c/Russia, n. 36898/03, §§ 84-95, 19 luglio 2007, nella quale la Corte EDU afferma che non può quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale da concedersi a ciascun detenuto ai sensi della Convenzione, perché la questione può infatti dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le condizioni d’accesso alla passeggiata o lo stato di salute fisica e mentale del detenuto.
13 Nel caso di cui si discorre la Corte ha riconosciuto il danno morale subito dai ricorrenti, decidendo in via equitativa in base all’art. 41 della Convenzione, che accorda l’equa soddisfazione se il diritto interno dello Stato contraente non permette, se non in modo imperfetto, di rimuovere le conseguenze di tale violazione.
14 Per la Corte di Strasburgo il richiamo ai rimedi preventivi attiene alle raccomandazioni del Comitato dei Ministri ossia la Rec(99)22 e la Rec(2006)2, che impegnano gli Stati ad invitare la magistratura requirente e quella giudicante a propendere, nell’applicazione di misure punitive, per quelle non privative della libertà vale a dire di misure alternative alla detenzione ed a riorientare la loro politica penale verso il minimo ricorso alla custodia cautelare in carcere. Sul punto si segnala la nuova disciplina dell’istituto della “messa in prova per adulti” introdotta dallo Stato italiano con la Legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili).
15 Ricorsi alla Cedu, CNF, comunicato stampa del 15.05.2014: Avvocati europei e Corte europea dei diritti dell’Uomo. Pubblicata la Guida per ricorsi puntuali su fatti specifici e concreti, in http://www.altalex.com/index.php?idnot=67583
16 Documento del Consiglio d’Europa del 5 giugno 2014, affaires contre l’Italie, 1201e réunion, richiesta 43517/09, caso Torreggiani ed altri, DH-DD(2014)471.
17 Il comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa supervisiona l’attuazione delle sentenze della Corte EDU. In particolare il comitato discute con lo Stato e con il competente dipartimento del Consiglio d’Europa le modalità di esecuzione di una sentenza e le azioni da intraprendere affinché siano evitate ulteriori violazioni della Convenzione. Il comitato dei Ministri verifica successivamente se tali misure sono state adottate ed in caso negativo richiama lo Stato.
18 Si riporta l’articolo 35, sostituto dall’articolo 3, comma 1, lettera a), d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, come modificato dalla legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 1: “I detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa: 1) al direttore dell’istituto, al provveditore regionale, al capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al Ministro della giustizia; 2) alle autorità giudiziarie e sanitarie in visita all’istituto; 3) al garante nazionale e ai garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti; 4) al presidente della giunta regionale; 5) al magistrato di sorveglianza; 6) al Capo dello Stato”. Le modifiche hanno portato ad un ampliamento dei soggetti ai quali rivolgere il reclamo, ma nella sostanza la disposizione rimane inidonea ad assicurare una pronta cessazione delle violazioni della dignità umana, come affermato dalla Corte EDU nella sentenza Torreggiani.
19 Maffei M., (2013) Gli interventi della Corte europea dei Diritti dell’Uomo in tema di sovraffollamento .penitenziario. I rimedi per un’esecuzione conforme al dettato costituzionale, in www.antoniocasella.eu/archica/Maffei_2013.pdf
20 Il divieto è introdotto dall’articolo 8 del d.l. 92/2014.
Art. 8. Modifiche all’articolo 275 del codice di procedura penale
1. Il comma 2-bis dell’articolo 275 del codice di procedura penale è sostituito dal seguente:
«2-bis. Non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena. Salvo quanto previsto dal comma 3 e ferma restando l’applicabilità degli articoli 276, comma 1-ter, e 280, comma 3, non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Tale disposizione non si applica nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 423-bis, 572, 612-bis e 624-bis del codice penale, nonché all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, e quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di esecuzione indicati nell’articolo 284, comma 1, del presente codice.».
21 Nell’esposto comma 6 si colgono alcune analogie con il procedimento di ottemperanza avanti il giudice amministrativo, laddove all’articolo 114, comma 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, contenente la disciplina del processo amministrativo, si legge che il giudice se accoglie il ricorso ordina l’ottemperanza, ovvero dichiara nulli gli atti in violazione o elusione del giudicato, nomina un commissario ad acta e fissa la somma di denaro dovuto dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero ritardo nell’esecuzione del giudicato.
22 Sul punto si richiama la relazione presentata dal magistrato di sorveglianza d.ssa Elena Bonu all’incontro di formazione per il distretto della Corte di Appello di Torino, svoltosi il 24 settembre 2014.
23 In Piemonte con legge regionale n. 28 del 2 dicembre 2009 è stata istituita la figura del garante dei detenuti. Informazioni più dettagliate sull’attività del garante sono reperibili al sito: http://www.cr.piemonte.it/cms/organismi/garante-detenuti.html
24 Si richiama la citata relazione della magistrato di sorveglianza d.ssa Elena Bonu.
25 Corte cost., 27 ottobre 2006, n. 341, con nota di Paola Torretta, Il diritto alle garanzie giurisdizionali (minime) del lavoro in carcere di fronte alle esigenze dell’ordinamento penitenziario.
26 Art. 32. Interdizione legale.
Il condannato all’ergastolo è in stato di interdizione legale.
La condanna all’ergastolo importa anche la decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Il condannato alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni è, durante la pena, in stato d’interdizione legale; la condanna produce altresì, durante la pena, la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, salvo che il giudice disponga altrimenti.
Alla interdizione legale si applicano per ciò che concerne la disponibilità e l’amministrazione dei beni, nonché la rappresentanza negli atti ad esse relativi le norme della legge civile sull’interdizione giudiziale [c.c. 424, 1441].
27 Art. 2. Disposizioni transitorie (d.l. 92/2014).
1. Coloro che, alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, hanno cessato di espiare la pena detentivao non si trovano più in stato di custodia cautelare in carcere, possono proporre l’azione di cui all’articolo 35-ter, comma 3,della legge 26 luglio 1975, n. 354, entro il termine di decadenza di sei mesi decorrenti dalla stessa data.
2. Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, i detenuti e gli internati che abbiano già presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sotto il profilo del mancato rispetto dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848,possono presentare domanda ai sensi dell’articolo 35-ter, legge 26 luglio 1975, n. 354,qualora non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità del ricorsoda parte della predetta Corte.
3. In tale caso, la domanda deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione della datadi presentazionedel ricorso alla Corte europeadei diritti dell’uomo.
4. La cancelleria del giudice adito informa senza ritardo il Ministero degli affari esteri di tutte le domande presentate ai sensi dei commi 2 e 3, nel termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge.
28 Il riferimento è alla Cass., sez. IV, 21 febbraio 2012 n. 18848, in tema di azione riparazione del danno per ingiusta detenzione.
29 Per chiarezza espositiva si precisa che il magistrato di sorveglianza procede all’indennizzo pecuniario nei casi in cui la pena detentiva residua non consente di applicare la detrazione su indicata sulla pena ancora da espiare ovvero per l’ipotesi in cui il periodo in cui il ricorrente abbia sofferto il pregiudizio sia inferiore a 15 giorni.