Due documenti a confronto sulle riforme territoriali

Mario Dogliani[1]

 

Il 14 marzo 2017 è stato pubblicato da Legautonomie un documento  intitolato «Una proposta per un adeguamento e completamento delle riforme territoriali, a Costituzione invariata», a cura di Luciano Vandelli.

Data l’autorevolezza politica dell’associazione proponente e l’autorevolezza scientifica del curatore (cui mi lega un’antica amicizia) ne  pubblichiamo degli stralci,  che servano innanzi tutto di invito a leggere il testo  completo (vedilo all’indirizzo http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/vand/vandelli_legaautonomie_14-marzo-bozza-3033.pdf), e che possano servire da traccia per un prossimo seminario che questa rivista intende organizzare, anche perché riteniamo che all’impostazione del documento possano essere mossi costruttivi rilievi di “filosofia” delle autonomie locali. Il documento viene qui suddiviso, per facilitarne la lettura, in paragrafi e sottopagrafi.

Può essere opportuno, per avviare una discussione approfondita, confrontare questo con un altro documento, intitolato «Per una riforma razionale del sistema delle autonomie locali», sottoposto nell’ottobre 2013, da un consistente numero di giuspubblisti (primo firmatario G.C. De Martin), alle Commissioni Affari Costituzionali e ai Gruppi Parlamentari della Camera e del Senato nel corso della discussione sulla revisione costituzionale poi respinta dal referendum. Se ne riportano, anche qui, solo alcuni stralci, essendo superati quelli attinenti alla modifica del testo costituzionale.

Seguiranno alcune considerazioni di avvio alla discussione. (md)

 

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«Una proposta per un adeguamento e completamento delle riforme territoriali, a Costituzione invariata».

1. Riforme degli EE.LL. esclusivamente nel quadro costituzionale vigente, ma senza arretrare sulle linee fondanti della direzione intrapresa.

Premesso che l’esito del referendum del 4 dicembre non chiude la riflessione sulle riforme da introdurre nella seconda parte della Costituzione, il documento sviluppa una serie di considerazioni e di proposte che si muovono esclusivamente nell’ambito del quadro costituzionale vigente, ma con una premessa sostanziale: che il documento tende ad adeguare il percorso delle riforme ma senza arretramenti sulle linee fondanti e sugli obbiettivi della direzione intrapresa.

In questo quadro costituzionale invariato si collocano – afferma il documento – le esigenze di prosecuzione del percorso avviato con la legge n. 56 del 2014: l’istituzione delle Città metropolitane, la revisione delle funzioni delle Province, l’impulso alle unioni e alle fusioni di Comuni, le nuove forme di composizione degli organi degli enti di area vasta, basate su elezioni di secondo grado. Questi nuovi assetti conferiscono, tra l’altro, agli amministratori comunali importanti responsabilità anche nel governo di area vasta, oltre a quelle proprie delle forme associative; rafforzando la centralità del Comune, come cellula di base dell’intero sistema delle autonomie locali.

Ulteriori elementi di questo percorso nel cui solco – afferma il documento – è necessario rimanere sono le previsioni contenute nella l. n. 124 del 2015 (in relazione a temi come pubblico impiego, dirigenti, società partecipate, servizi pubblici), le misure incluse nella legge di bilancio (quali la definizione delle regole sul pareggio di bilancio, il fondo unico per il pubblico impiego, le nuove sanzioni su tagli di spesa e di personale).

Il filo rosso che lega l’intero documento è chesono indicati come obiettivi di fondo il superamento delle carenze dei piccoli Comuni e la ricerca di dimensioni più adeguate per l’esercizio delle funzioni e l’erogazione dei servizi, anche e particolarmente tramite le forme intercomunali, e le convenzioni tra Province, Città metropolitane, Capoluoghi, Città medie e unioni.Prioritari sono dunque gli interventi in ordine alle forme di associazionismo e collaborazione intercomunale, alla revisione della mappa comunale, alla redistribuzione delle funzioni, alle aree vaste, con il completamento dell’ordinamento delle Città metropolitane e la individuazione degli assetti e del ruolo delle Province.

Importanti affermazioni contenute nel documento sono quella secondo cui occorre superare un approccio rivolto prioritariamente al risparmio, che deve essere un obbiettivo da conseguire ad esito del processo e non un dato presupposto e preliminare ad ogni altro intervento; e quella che sottolinea l’esigenza di ricostruire l’organicità della normativa sulle autonomie locali, coordinando complessivamente la disciplina in un nuovo testo organico e coerente.

2. Funzioni e ruolo delle Province; e revisione della mappa provinciale.

Per quanto riguarda la allocazione delle funzioni e il ruolo delle Province, il documento rileva  che il processo di redistribuzione delle funzioni aperto dalla legge 56/2014 ha evidenziato una varietà di orientamenti da parte delle Regioni, nelle cui leggi possono individuarsi tre distinte prospettive: a) una, volta ad elevare a livello regionale – eventualmente demandandone l’esercizio ad agenzie – il complesso delle funzioni in precedenza conferite alle Province e non rientranti tra quelle considerate fondamentali dalla legge n. 56 (posizione espressa con particolare nettezza, ad esempio, dalla legislazione toscana); b) un’altra volta, all’opposto, a mantenere, per quanto possibile, un ruolo rilevante, anche gestionale, in capo alle Province (emblematica la legislazione veneta); c)  una terza volta a prefigurare dimensioni più ampie, in nuove aree vaste tendenti ad aggregare più territori provinciali (prospettive di questo tipo sono leggibili nelle leggi dell’Emilia-Romagna, della Lombardia, del Piemonte).

Sembrano – intrecciate a queste – profilarsi due tendenze: l’una, volta a caratterizzare il ruolo delle Province come soggetti di coordinamento, e di supporto nei confronti dei Comuni e delle loro forme associative, sviluppando particolarmente compiti che richiedono livelli di organizzazione e professionalità particolarmente elevati, come quelli di stazione appaltante, direzione lavori, ufficio espropri, avvocatura, ecc.); l’altra, tendente invece a valorizzare primariamente un ruolo di gestione in capo alle Province, quanto meno in alcuni ambiti, a partire dalle funzioni in materia di strade e di edilizia scolastica.

La questione del ruolo delle Province deve essere impostata sulla base della considerazione del tipo di legittimazione acquisito dagli Enti di area vasta con la legge n. 56/2014: legittimazione che si radica precisamente, in secondo grado, nella primaria democrazia comunale, in un modello di rappresentanza politica che supera la stratificazione tra livelli a rappresentanza distinta per configurare, invece, un sistema territoriale che dal livello di prossimità più vicino ai cittadini, dai Comuni sale a territori di area vasta.

In questo senso, ha dunque un valore sostanziale la qualificazione della Provincia (così come della Città metropolitana, del resto), come “Casa dei Comuni”, come luogo e sede in cui gli interessi locali propri dei Comuni si compongono ad un livello più ampio, facendosi carico delle esigenze di sistema, armonizzando le istanze, i bisogni, le vocazioni di ciascuno in un disegno complessivo, articolato e inclusivo. Al tempo stesso, l’Ente di area vasta diviene prioritario punto di riferimento per le esigenze di sostegno e supporto ai Comuni per conseguire i necessari livelli di adeguatezza. In sostanza, sembra preferibile una valorizzazione della Provincia come ente che, dotato di organi espressi dai Comuni, ai Comuni rivolge la propria vocazione; svolgendo un ruolo qualificato da funzioni di coordinamento e supporto, individuate come “fondamentali” dalla legge statale. A queste funzioni altre possono aggiungersi per conferimento dello Stato o delle Regioni; nonché per deleghe dal basso da parte dei Comuni stessi. Del resto, può essere opportuno riflettere sulla ipotesi di inserire compiti di questo tipo tra le funzioni fondamentali delle Province ad esercizio necessario, e non meramente eventuale.

2.1 Una migliore funzionalità degli organi.

Il modello di riparto delle attribuzioni fondato sull’alternativa tra consiglio e presidente ha suscitato molti dubbi perché ha portato ad una forte concentrazione di attribuzioni e responsabilità in capo all’organo monocratico, cui la gran parte degli statuti conferisce la competenza generale-residuale. A fronte di tale modello, che ricorre allo strumento (criticabile) della delega a singoli consiglieri, sono emerse esigenze di maggiore collegialità, che rendono necessario riflettere sulla eventualità di elevare le varie forme di coordinamento (diffusamente e variamente) previste negli statuti in un vero e proprio organo collegiale. Una semplificazione dell’organizzazione di governo delle Province potrebbe essere conseguita – almeno negli enti che non ricomprendono un numero eccessivamente elevato di Comuni e dove, dunque, l’assemblea dei sindaci presenta una composizione non pletorica – attraverso una eliminazione del consiglio provinciale, concentrando tutte le funzioni assembleari in capo alla sola assemblea dei sindaci.

2.2  Revisione della mappa provinciale.

Ai fini della razionalizzazione di cui si è detto all’inizio, il documento propone una serie di interventi volti a facilitare la revisione della mappa provinciale, invertendo la tendenza che ha portato ad aumentarle sino alle attuali 110. In questo senso, se non si vuole affrontare il tema di una complessiva revisione della mappa provinciale – accogliendo l’indicazione desumibile dalla sentenza n. 50/2015 della Corte costituzionale, secondo cui i vincoli e i procedimenti posti dall’art. 133 Cost. “risultano riferibili solo ad interventi singolari” – occorre promuovere caso per caso le opportune aggregazioni. A tal fine può presentarsi utile una semplificazione del procedimento attualmente stabilito dal TUE (art. 21, terzo comma, lett. d) che prevede tre requisiti, tre maggioranze (dei Comuni, della popolazione, dei consiglieri) non richiesti dalla Costituzione e che irrigidiscono dimensioni e logiche territoriali non rispondenti alle contemporanee dinamiche sociali, economiche e territoriali.

2.3 Elezione del sindaco e del consiglio metropolitano a suffragio diretto.

Quanto alle Città metropolitane, il documento sottolinea come sia rimasta inattuata la previsione di una legge elettorale che consenta l’opzione del suffragio diretto per l’elezione del sindaco e del consiglio metropolitano. Questa legge può essere formulata riprendendo utilmente, nel nuovo contesto, criteri già sperimentati dalle Province (dal 1993 al 2015): scegliendo, per il consiglio, l’elezione per collegi uninominali, la ripartizione dei seggi con metodo D’Hondt, il collegamento delle liste alla candidatura a sindaco metropolitano, da eleggere con sistema a doppio turno, secondo il modello sancito dal TUEL (artt. 74 e 75).

Il documento riconosce però la possibilità che non si riesca a risolvere la discrasia costituita dalla coesistenza tra Città metropolitana con organi eletti in via diretta e il grande Comune capoluogo, e si domanda quindi se non sarebbe comunque possibile mantenere la logica dell’integrazione (in luogo di quella della sovrapposizione) anche in un sistema ad elezione diretta: configurando quest’ultima come un rafforzamento della legittimazione democratica degli organi, ma mantenendo il governo della Città metropolitana in capo a sindaci e consiglieri comunali. Questo risultato potrebbe essere conseguito laddove si prevedesse una limitazione dell’elettorato passivo agli stessi amministratori comunali; stabilendo, ad esempio, che possano candidarsi alla carica di sindaco metropolitano coloro che sono candidati alla carica di sindaco in un Comune del territorio, ed alla carica di consigliere metropolitano i candidati a sindaco o consigliere comunale (e, quindi, procedendo alla proclamazione a sindaco metropolitano o a consigliere metropolitano soltanto alla condizione che il candidato risulti contestualmente eletto a sindaco o consigliere di un Comune). Una soluzione intermedia (e più flessibile) potrebbe essere, del resto, quella di consentire ai sindaci (a partire da quello del capoluogo) ed ai consiglieri comunali di candidarsi, nella sostanza non prescrivendo, ma “suggerendo” l’unione delle cariche in capo alle medesime persone.

2.4 Città metropolitane e suddivisione in più comuni del comune capoluogo.

Sottolinea inoltre l’opportunità di ripristinare l’impianto originario del disegno Delrio, che richiedeva a tutte le Città metropolitane la suddivisione del Comune capoluogo in più Comuni come condizione necessaria per la previsione dell’elezione diretta. Il che corrisponde a logiche consolidate: logiche secondo cui o si sceglie un modello a livello metropolitano ad elezione diretta, ma senza che al suo intero sussista alcun soggetto di rilevante consistenza (è il modello di Londra, che al suo interno non ha nulla di comparabile ad un grande Comune capoluogo) oppure si punta su modelli in cui il livello metropolitano ha natura associativa, incentrato su un grande Comune capoluogo (è il modello usato dalle Città metropolitane francesi, o spagnole). In ogni caso, i modelli comparati evitano la coesistenza (inevitabilmente difficile e probabilmente conflittuale) tra un soggetto metropolitano forte, con un sindaco eletto in via diretta, e un Comune capoluogo a sua volta potente e autorevole, con un sindaco che debba convivere in una sorta di “consolato” con il suo omologo metropolitano. A questa regola si atteneva il disegno Delrio, nel corso dei lavori parlamentari impropriamente derogato per i soli Comuni superiori a tre milioni di abitanti. Ora, può essere opportuno ripristinare il corretto impianto iniziale, abolendo l’eccezione introdotta per queste ultime.

3. Rilanciare la cooperazione e l’associazionismo. Superare l’impianto basato sugli obblighi di esercizio associato, così come su dimensioni rigidamente e uniformemente prefissate.

Il cuore politico del documento è quello riguarda i nessi associativi e i processi integrativi intercomunali.

Si parte dalla constatazione che la previsione dell’esercizio obbligatoriamente associato, nei termini stabiliti dalla legislazione degli anni recenti, si è dimostrata, alla prova dei fatti, inefficace e velleitaria; come hanno evidenziato le reiterate proroghe dei termini fissati, generando soltanto controproducenti effetti di incertezza normativa e difficoltà (rilevate anche dalla Corte dei conti). E i risultati concretamente conseguiti nell’attuazione dell’obbligo – che riguarda, peraltro, soltanto i Comuni di minori dimensioni, meccanicamente identificati in base a soglie demografiche – non superano, a quanto risulta, un terzo dei Comuni interessati.

Si riconosce dunque che occorre adottare una diversa prospettiva. In questa direzione, vanno emergendo (sia nell’ambito delle autonomie, sia in ambito governativo) istanze volte ad adottare una impostazione basata su processi (volontari) stimolati, incentivati, accompagnati da strumenti idonei; processi da rendere “desiderabili e attrattivi” (per usare le parole del sottosegretario Gianclaudio Bressa). E, in effetti, pur con una varietà di argomenti e di soluzioni specifiche, su una filosofia di questo tipo sembrano convergere espressioni delle autonomie locali, posizioni assunte dalla Conferenza delle Regioni, opinioni esposte in ambito governativo così come parlamentare (cfr., in particolare, le audizioni effettuate presso la Commissione Affari costituzionali del Senato).

Ciò chepuò essere utile è la fissazione di un termine (ad es., sei mesi) entro cui i sindaci stessi, in sede di area vasta (Città metropolitana e Provincia), individuino gli ambiti, includendo anche Comuni oggi non rientranti nella fascia tenuta agli obblighi associativi. Scaduto il termine, gli ambiti saranno individuati, in via sostitutiva, dalla Regione.

Essendo la competenza legislativa a regolare tale processo, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 50 del 2015), una competenza statale (dal momento che le forme istituzionali di associazione tra Comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza non costituiscono “un ente territoriale ulteriore e diverso rispetto all’ente Comune” e, dunque, “rientrano nell’area di competenza statuale sub art. 117, secondo comma, lett. p. della Costituzione), il documento sottolinea però come di questa competenza lo Stato può avvalersi in forma flessibile; non ricorrendo a rigide soglie demografiche, non imponendo schemi uniformi e vincolanti, ma piuttosto indicando obbiettivi omogenei da perseguire sull’intero territorio nazionale, e puntando al massimo coinvolgimento delle autonomie nella loro realizzazione.

Il documento afferma la necessità di esprimere un’opzione netta a favore del perseguimento della massima estensione e del massimo irrobustimento possibili delle forme associative, come strumenti fondamentali per il perseguimento del principio costituzionale di adeguatezza. Per realizzare questo obbiettivo, però, si rende necessario esaminare con franca concretezza i limiti evidenziati dall’esperienza, e dare risposte alle obiezioni avanzate nel dibattito attuale (in particolarte alle osservazioni critiche espresse dall’Associazione Nazionale Piccoli Comuni, ANPCI), secondo cui le Unioni e le forme associative sarebbero attivate principalmente grazie agli incentivi, nonostante la loro non dimostrata efficacia ed economicità, mentre comporterebbero una concentrazione dei servizi nel capoluogo. Né mancano osservazioni critiche sulla complessità delle procedure. Non è da escludere, in effetti, che in alcuni casi possano verificarsi inconvenienti di questo tipo; inconvenienti cui occorre dare risposte effettive: semplificando i procedimenti e, soprattutto, distribuendo i servizi a favore dell’intero territorio, e utilizzando le maggiori capacità operative e le competenze di cui dispone il Comune capofila non come occasione di concentrazione, ma all’opposto per farne il baricentro di un sistema a servizio dell’insieme dei Comuni coinvolti. Le Regioni, in questa prospettiva, possono svolgere un ruolo utile e importante, non solo nella incentivazione, ma anche nel sostegno operativo alle forme associative. In effetti, l’asimmetrica concentrazione in alcune parti del territorio delle forme associative e delle stesse fusioni di Comuni sembra indicare una correlazione con l’attivismo di alcune Regioni, mentre l’inerzia di altre pare corrispondere ad una diffusa carenza di realizzazioni concrete. Considerando, appunto, gli insegnamenti dell’esperienza, occorre dunque valorizzare il ruolo di stimolo e sostegno delle Regioni che manifestano un proficuo dinamismo su questo versante; ma evitare, anche attraverso adeguati interventi suppletivi, che nell’inazione e nella distrazione di altre una (rilevante) porzione del territorio nazionale rimanga estranea agli (ormai imprescindibili) processi di riordino territoriale.

Un apporto importante può essere fornito dagli Enti di area vasta; particolarmente laddove si punti essenzialmente su un loro futuro ruolo incentrato sulle funzioni di sostegno e coordinamento degli enti locali. In una prospettiva di valorizzazione di un ruolo di questo tipo, si può anche affidare alle stesse Città metropolitane e Province l’elaborazione di un piano di unioni e fusioni, su cui prevedere un parere (Bressa) o una approvazione da parte della Regione, chiamata a ricomporre e armonizzare il tutto in un nuovo piano regionale di riordino territoriale “dal basso”, punto di riferimento per l’erogazione degli incentivi e le azioni di sostegno.

Complessivamente, si tratta, comunque, di abbandonare un disegno basato fondamentalmente su una logica di imposizione, per aprire invece un processo dinamico volto ad attuare il principio di adeguatezza mediante una varietà di forme e di strumenti, tra cui in ciascuna situazione possa scegliersi, utilizzarsi e graduarsi la soluzione più opportuna ed efficace.

Questi processi, in effetti, possono essere sostenuti da incentivi e da supporti operativi e progettuali.

Le convenzioni e (forse) i consorzi. Attualmente, i Comuni possono avvalersi, per la gestione  associata delle funzioni, di convenzioni e di unioni. Non sempre, peraltro, alla forma utilizzata corrispondono contenuti omogenei: l’esperienza dimostra che esistono convenzioni che, pur in assenza di una distinta personalità giuridica, riescono ad aggregare un nucleo importante di funzioni e servizi, istituendo efficaci forme di coordinamento politico e strategico tra gli organi dei Comuni e particolarmente i sindaci; aggregando apparati in uffici comuni; avvalendosi proficuamente delle risorse di un Comune capofila. All’inverso, non troppo raramente all’autonoma personalità giuridica delle Unioni non corrisponde l’effettivo conferimento di una consistente serie di compiti. Occorre, dunque, che l’incentivazione alle forme associative e collaborative tra Comuni colga la effettiva sostanza, premiando quelle che – al di là della forma giuridica prescelta – aggreghino funzioni consistenti; a partire dai compiti serventi trasversali (direzione generale, segreteria, affari generali, contratti, ICT, ecc.). Su questa base può essere poi costruita l’aggregazione dei servizi di settore (dal sociale all’urbanistica, dalla istruzione alla mobilità, dal commercio alla polizia locale). In questo senso, si può pensare ad un accordo in Conferenza Unificata che individui standard e soglie di aggregazione di funzioni e servizi, in base ai quali graduare gli incentivi. Sui metodi e parametri del conferimento di incentivi e apertura di flessibilità finanziarie sono state avanzate varie proposte: dalla riserva alle Unioni di una quota del fondo di riequilibrio ad una correlazione con il risultato conseguito in termini di risparmio di spesa, dall’aumento dei trasferimenti statali alla quantificazione dei contributi specifici previsti da leggi regionali, dalla assegnazione di spazi finanziari in deroga al principio del pareggio di bilancio alla possibilità di procedere ad assunzione di personale, sino alla previsione di priorità nel riparto di finanziamenti.

Ma gli incentivi economici non sono sufficienti; e spesso i processi di aggregazione richiedono supporti tecnici, capacità progettuali, competenze professionali di cui i Comuni, particolarmente di minori dimensioni, non dispongono. In questo, l’asimmetria di impegno (economico e organizzativo) delle Regioni va ricondotto ad un quadro unificante; e in questa direzione potrebbe operare utilmente l’accordo in sede di Conferenza unificata sopra accennato, che coinvolga Stato, Regioni e Autonomie locali in un comune sforzo di rilancio, in ogni parte del territorio nazionale, di vigorose forme e modalità di associazionismo intercomunale. In questo senso, l’accordo dovrebbe prevedere – oltre agli standard di unificazione cui legare le misure incentivanti – un supporto operativo flessibile, da adeguare ad ogni singola realtà territoriale, con una task force che si avvalga di professionalità tratte da tutti i livelli coinvolti. Un gruppo misto in grado di accompagnare e sostenere ogni fase dei processi di aggregazione, fornendo le necessarie competenze tecniche, giuridiche, specialistiche in relazione ai settori di volta in volta interessati: sviluppare piani organizzativi e industriali adeguati alle concrete esigenze, elaborare comuni programmi e piani (a partire da quelli territoriali, strategici e finanziari), sistemare gli assetti del personale e suggerire la migliore allocazione delle competenze, seguire le questioni specifiche dei principali settori coinvolti, valutare le migliori modalità di armonizzazione dei tributi e dei bilanci. Quanto all’alternativa delle convenzioni, essa va mantenuta e sostenuta, considerato che viene apprezzata in molte situazioni come strumento più snello dell’Unione e che, per di più, secondo alcune valutazioni (espresse, in particolare da UPI e ANPCI) eviterebbe rischi di sovraordinazione e di concentrazione altrimenti possibili.

Il mantenimento delle convenzioni va sostenuto nell’ottica, sopra accennata di una valorizzazione del ruolo dei Comuni capofila, e delle relative capacità per lo sviluppo e il miglioramento dei servizi. Il ricorso alle convenzioni, in alternativa alle Unioni, merita tuttavia sostegno e incentivazione alla condizione che esso determini una reale e sostanziosa aggregazione di funzioni e servizi, anche tramite la costituzione di uffici comuni che, avvalendosi delle maggiori risorse umane e professionali normalmente presenti nel Comune capofila, realizzino le condizioni per un esercizio delle funzioni comunali su una scala adeguata.
In questa prospettiva, merita attenzione anche l’ipotesi di nuova valorizzazione dei consorzi; che uniscono, ad una governance alquanto semplificata, le opportunità connesse ad una distinta personalità giuridica cui imputare gli atti adottati, consentendo di coinvolgere nelle azioni intraprese Comuni di diverse dimensioni demografiche.

In sostanza, la forma (unione o convenzione, eventualmente consorzio) diviene secondaria rispetto al risultato, rilevando esclusivamente il conseguimento, nella specifica realtà, di idonei standard di rendimento. Alla verifica di conseguimento di tali standard va commisurata, come si è visto, la concessione degli incentivi statali e regionali, in una piena armonizzazione di modalità e parametri di contribuzione.

Sul piano della legittimazione democratica e dell’autorevolezza della governance associativa, poi, può meritare riflessione l’idea di introdurre anche in Italia (riprendendo, ad esempio, l’esperienza del fléchage francese), modalità che consentano agli elettori di votare per il proprio Comune e, al tempo stesso, per la forma associativa.

4. L’eccessiva frammentazione comunale.

La questione della eccessiva frammentazione comunale, che si presenta, in Italia, nota e risalente, viene, dal documento, presa di petto, ammettendo innanzi tutto che l’evoluzione recente, la crescente complessità dei compiti da esercitare, le perduranti difficoltà finanziarie non hanno fatto altro che accentuare le incongruenze e le inadeguatezze che, in molti casi, contrassegnano la mappa comunale esistente.

Altrettanto note, d’altronde, sono le difficoltà, nel nostro Paese, di giungere ad adeguati ridisegni territoriali; anche se, negli anni recenti, sembra potersi registrare – per la prima volta nella storia repubblicana – inversione di tendenza: ridimensionando il numero dei Comuni (arrivato a 8.104) al di sotto degli 8.000. E’ certamente una svolta contenuta, particolarmente se raffrontata con gli accorpamenti realizzati in una gran parte di Paesi europei (dalla Germania all’Inghilterra, dal Belgio ai Paesi scandinavi, sino alla Grecia); ma è comunque un segnale significativo, che va colto e sostenuto.

Concrete esperienze dimostrano che, laddove si sviluppi un progetto attendibile e un impegno convinto (particolarmente da parte degli amministratori), pregiudizi e localismi possono essere sconfitti e, anche tra le popolazioni chiamate ai referendum, possono prevalere nuove identità, meno anguste e campanilistiche; con risultati positivi, nella ottimizzazione del personale, nella razionalizzazione degli uffici e dei servizi, nel miglioramento delle professionalità disponibili, nel miglioramento della situazione finanziaria.

E’ importante, dunque, puntare ad una estensione di questi processi; stimolando e promuovendo una diffusa riconsiderazione delle identità locali e del rapporto con il territorio. In questa direzione, occorre attuare una attenta operazione di ascolto, informazione e formazione che coinvolga, territorio per territorio, amministratori, stakeholders, cittadini.

In questa direzione ed a questi scopi, le fusioni potrebbero costituire un obbiettivo fondamentale del piano straordinario di riordino territoriale la cui elaborazione – come si è visto sopra – può essere affidata alle Aree vaste, verificando caso per caso la eventuale esistenza di condizioni che consentano l’attivazione di un percorso volto alla fusione e sostenendone lo svolgimento, il sostegno tecnico e operativo già accennato.

Sviluppando, nelle singole realtà territoriali (a partire da quelle dove il dibattito si è già aperto, o dove le inadeguatezze emergono con particolare evidenza) un’azione di riflessione, coinvolgimento, illustrazione di opportunità, economie di scala, miglioramento dei servizi, benefici che le aggregazioni possono conseguire per i cittadini e per le imprese… riflessione, sensibilizzazione e dibattito possono risultare convincenti, inducendo a mettere in discussione confini spesso determinati da vicende storiche e mezzi di trasporto superati da secoli, alla ricerca di risposte più adeguate alle esigenze e alle dinamiche attuali. Aprendo nuovi processi di integrazione e di in nuove comunità, più ampie e più aperte.

… esperienze di altri Paesi possono fornire interessanti indicazioni su modalità e forme di governance che rendano possibile, per un certo periodo, la conciliazione tra l’istituzione di un nuovo Comune, esito di un processo di fusione, e la considerazione delle identità preesistenti; conservando, nei Comuni fusi, un nucleo di compiti e funzioni di prossimità (a partire da quelli più simbolici, come i matrimoni). Il riferimento, anche in questo caso, è particolarmente alla Francia; dove l’esperienza delle “Communes nouvelles” sembra essere riuscita a smuovere resistenze – nel Paese assai radicate – a rivedere la mappa comunale.

In questo contesto, come si è accennato, un ruolo importante svolgono i meccanismi di incentivazione finanziaria che, nei casi di fusioni, meriterebbero di essere valorizzate ed estese, sia nella misura, sia nella durata.

Quanto al procedimento di realizzazione della fusione, merita qualche riflessione l’esperienza che sta sviluppandosi in relazione ai referendum che in tale perocedimento intervengono. In una nuova dinamica, le iniziative che vengono assunte sono ormai numerose; ma queste sono spesso frustrate dall’esito di referendum (senza quorum) in vari casi assai poco partecipati. Sta riguardando anche e particolarmente procedimenti di questo tipo, in effetti, la tendenza a disertare le votazioni da parte di chi è favorevole alla delibera già assunta dagli organi istituzionali, mentre partecipano coloro che vi si oppongono.

Ora, ove appunto in favore della fusione si siano già pronunciati gli organi istituzionali competenti (con delibere dei consigli comunali interessati), può essere da esaminare l’ipotesi di adottare la medesima logica e un criterio simile a quello espresso dall’art. 75 Cost., in materia di referendum, secondo cui l’opzione contraria alla posizione espressa dalle istituzioni (in questo caso con legge) è approvata “se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi”.

Stabilire un quorum di partecipazione per respingere l’opzione favorevole alla fusione espressa dai consigli comunali porterebbe ad un maggiore impegno nel confronto democratico locale, inducendo i cittadini, anche favorevoli alla fusione, a partecipare, e comunque facendo in modo che l’atteggiamento favorevole alle fusioni espresso in via generale dal legislatore – e nel caso concreto anche dagli organi comunali – non sia frustrato da un’esigua minoranza, nell’indifferenza dei più.

5. Rilanciare e diffondere la partecipazione.

In vari luoghi, in questi anni, è stata sviluppata, anche nel nostro Paese, un’ampia varietà di esperienze di coinvolgimento di organizzazioni sociali od economiche, di cittadini e gruppi, di esperti e soggetti interessati, nella elaborazione e attuazione di politiche locali.

Forme che si estendono dalle “istruttorie pubbliche” ai “Town meeting”, dai “progetti partecipati” ai “laboratori di urbanistica”, dai “bilanci partecipati” alle collaborazioni tra cittadini e amministrazioni “per la cura dei beni comuni”, sino ai procedimenti per l’elaborazione di piani strategici, le modalità di coinvolgimento delle comunità locali si sono moltiplicate nelle previsione di statuti, regolamenti, prassi locali; trovando talora sostegno da parte di qualche legislatore regionale (come, in particolare, in Toscana o in Emilia-Romagna).

Ora, queste esperienze possono diffondersi nell’intero territorio nazionale, in base ad un accordi da stipularsi in Conferenza unificata …

6. Ripensare lo status degli amministratori locali.

Si presenta condivisibile, e meritevole di consolidamento la integrazione degli incarichi di governo adottata dalla legge 56/2014, concentrando su sindaci e consiglieri comunali responsabilità di governare anche enti di livello superiore (Città metropolitane e Provincia, oltre alle forme associative).

Peraltro, questa integrazione si è realizzata in un contesto contrassegnato da forti orientamenti “anticasta”, rilevanti sul piano elettorale, importanti nella comunicazione televisiva e giornalistica, dilaganti sul web. Il tema è delicato, e certamente soltanto il trattarne può sollevare suscettibilità, obiezioni, critiche. Ciò nonostante, si presenta ormai necessaria una riflessione complessiva, sulle regole relative allo status degli amministratori ed alle indennità connesse all’esercizio di funzioni pubbliche.

Così, se su un piano generale, occorre ricordare che la previsione di indennità per chi svolge pubbliche funzioni si è affermato come strumento imprescindibile per l’affermarsi e il radicarsi delle democrazie moderne, superando la concentrazione delle cariche esclusivamente in una oligarchia aristocratica, su un piano concreto non va taciuto che, su questo punto, l’applicazione delle regole del 2014 ha comportato ad una evidente discrasia tra l’affidamento di compiti e responsabilità anche di notevole rilievo e l’attribuzione di un corrispettivo o ristoro economico: così, ad esempio, l’incarico di consigliere delegato di una Città metropolitana non comporta alcuna indennità, neppure laddove sia assegnato a consiglieri di Comuni, anche di piccole dimensioni, che ricevono gettoni pressoché simbolici esclusivamente quando partecipino a sedute del proprio consiglio comunale (partecipazione che, paradossalmente, l’esercizio delle funzioni metropolitane può rendere complesso). In questi termini, non pare dubbio che l’esercizio di funzioni a titolo sostanzialmente gratuito – o meglio, a spese proprie, considerati i costi che ogni amministratore deve sostenere, a partire da quelli delle assicurazioni personali – costituisca un iniquo squilibrio, recando danno all’interesse generale nel circoscrivere drasticamente l’ambito dei possibili aspiranti all’incarico pubblico, limitandolo ai titolari di adeguate rendite personali.

L’aporia va dunque affrontata, anche rischiando di sfidare impopolarità.

Così, sembra equo rivedere il sistema, stabilendo per ciascun incarico indennità proporzionate al carico di lavoro e di responsabilità. Magari adottando misure comunque volte al contenimento dei costi delle istituzioni; ad esempio, vietando ogni cumulo, in modo che ciascun interessato possa esercitare una propria ragionevole opzione tra indennità metropolitana o provinciale, ad esempio, e indennità comunale; ma la medesima logica potrebbe applicarsi agli incarichi nelle forme associative che richiedano un impegno sostanzioso.

7. Impostare la finanza locale in termini coerenti adeguati alle funzioni.

Gli interventi sulla finanza locale sono stati contrassegnati da esigenze contingenti, da tagli, da mancanza di prevedibilità. Ora, è auspicabile che sussistano le condizioni per realizzare un sistema coerente rispetto ai principi dell’art. 119 Cost. e del federalismo fiscale delineato dalla l. n. 42 del 2009, migliorando in termini concreti la prevedibilità e certezza sulle risorse disponibili e la responsabilizzazione degli amministratori locali.

E’ essenziale che le scelte sulla finanza siano in piena sintonia con le linee dell’ordinamento degli enti locali. La questione riguarda, anzitutto, le Città metropolitane e – pur in termini distinti – le Province; su cui hanno gravato, in questi anni, tagli di dimensioni insostenibili.

Ma qualche riflessione merita anche l’allocazione delle risorse ai livelli associativi intercomunali: considerato che l’inadeguatezza del funzionamento di varie unioni è spesso collegato alla modestia delle risorse di cui queste dispongono (talora sostanzialmente corrispondenti all’importo degli incentivi ricevuti dallo Stato e dalla Regione). E merita riflessione il fatto che, all’opposto, in Francia le forme di intercomunalità gestiscano ormai bilanci che molto spesso raggiungano importi pari alla somma dell’insieme dei bilanci dei Comuni associati.

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Per una riforma razionale del sistema delle autonomie locali (ottobre 2013).

« … Quanto al destino delle Province … riteniamo che non si possa comunque con legge ordinaria sopprimere le funzioni di area vasta delle Province e attribuirle a Regioni e Comuni, né trasformare gli organi di governo da direttamente a indirettamente elettivi, né rivedere con una legge generale gli ambiti territoriali di tutte le Province. Non si possono, infatti, svuotare di funzioni enti costituzionalmente previsti e costitutivi della Repubblica (art. 114), né eliminare la diretta responsabilità politica dei loro organi di governo nei confronti dei cittadini, trasformando surrettiziamente la Provincia in un ente associativo tra i Comuni, mentre le funzioni da svolgere non sono comunali. Quanto alla revisione generalizzata degli ambiti territoriali provinciali, c’è il problema della compatibilità con il procedimento previsto dall’art. 133 Cost. …

[…] le funzioni di area vasta, [non risultano] tutte attribuibili ai Comuni o alle Regioni. [Queste] funzioni, di cui tutti riconoscono l’esistenza e il necessario esercizio, sia quelle operative (viabilità, edilizia per l’istruzione secondaria, lavoro e formazione professionale, trasporti pubblici locali, gestione del ciclo dei rifiuti, protezione della natura e dell’ambiente), sia quelle di coordinamento (le pianificazioni con riflessi territoriali cioè le più rilevanti scelte di localizzazione) non sono attribuibili ai Comuni, che anzi sono in molti casi i principali destinatari delle scelte di area vasta operate nei loro confronti. L’attribuzione delle funzioni di area vasta alle Regioni è, a sua volta, in contrasto con la configurazione costituzionale, non amministrativa e operativa, dell’ente regione, che dovrebbe invece qualificarsi essenzialmente come sede di scelte legislative e programmatorie, evitando di burocratizzarsi e di accentrare gestioni amministrative, oltretutto in contrasto con il principio di sussidiarietà.

[…] consentire alle Regioni di costituire con proprie leggi enti intermedi per svolgere le funzioni di area vasta … appare … assai opinabile, perché cade in una contraddizione evidente: se si riafferma l’esistenza di funzioni di area vasta (né comunali, né regionali), queste funzioni non possono essere attribuite ad enti di incerta e variabile natura (in qualche regione enti o uffici dipendenti, in altre enti locali a base associativa, in altre enti locali elettivi).

Occorre, invece, una garanzia generale dell’esistenza di enti locali “necessari” di area vasta per tutto il territorio nazionale (salvo forse il caso delle Regioni più piccole) di cui la Costituzione e la legge statale devono continuare a tracciare gli elementi di base, a partire dalle funzioni e dal carattere direttamente elettivo degli organi. Nel contempo va ridotta drasticamente la miriade di enti e altri soggetti strumentali e di società a vario titolo costituite da Regioni e Enti locali, che complicano, spesso duplicano e comunque costano, sfuggendo anche al controllo democratico e alle garanzie che debbono offrire autonomie effettivamente responsabili. L’affidamento eventuale di funzioni di area vasta ad enti o soggetti politici (burocratici o solo indirettamente elettivi), appare oltretutto, chiaramente in contrasto anche con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea delle autonomie locali, trattato internazionale che vincola direttamente il nostro legislatore, anche ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., costituendo altresì un parametro per il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

Sul versante delle Città metropolitane [è necessario] …  affrontare la questione del riparto delle funzioni locali all’interno del sistema metropolitano; [evitando di prefigurare] forme di governo metropolitano assai deboli, con incarichi a titolo gratuito e peso determinante dei Comuni capoluogo, in contrasto con la necessità di dar vita ad un modello di governo differenziato, con un riequilibrio nei rapporti tra capoluogo e comuni contigui, in queste aree strategiche di forte conurbazione in cui risiede la maggioranza della popolazione italiana.

Quanto, infine, alla riduzione della frammentazione territoriale dei piccoli comuni, che rende del tutto virtuale la loro autonomia, se va di massima condivisa la soluzione – prevista anche nel ddl n. 1542 – della obbligatorietà di unioni polifunzionali dei piccoli comuni (sotto i cinquemila abitanti, ridotti a tremila nelle zone montane), in modo da realizzare gestioni associate più efficienti, incentivando al tempo stesso processi di fusione delle realtà comunali più frammentate, si deve per altro verso sottolineare che [è necessaria] la previsione di una dimensione territoriale o demografica massima delle unioni, che devono servire a concretare e rafforzare l’autonomia dei Comuni, con funzioni e servizi di prossimità, evitando però che si trasformino in una sorta di Province o in enti di area vasta mascherati. …

[Al fine] di tracciare una linea di riforma delle autonomie locali condivisa ed efficace, […] si deve sottolineare anzitutto l’urgenza di attuare finalmente in modo corretto il disegno di riassetto delle funzioni amministrative nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza sanciti nell’art. 118 Cost., approvando una Carta delle autonomie che sia la premessa per riorganizzare, semplificare  e garantire effettive autonomie responsabili sul piano sia politico-amministrativo che finanziario, applicando anche in modo sistematico quanto previsto dall’art. 119 Cost. in ordine alla correlazione tra funzioni e risorse in base a standard oggettivi di fabbisogni e di costi (salve eventuali perequazioni). ….

In questa prospettiva, sul piano delle misure di carattere ordinamentale riguardanti le autonomie locali riteniamo in particolare prioritario:

– accelerare, in primo luogo, il processo di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni e Province (e Città metropolitane), tenendo conto anche del principio di “unicità” per la distribuzione delle funzioni (ad evitare la sovrapposizioni di compiti), nonché della distinzione tra funzioni di prossimità e di area vasta nel riassetto delle funzioni locali;

– mantenere alla legge statale la definizione degli elementi di base della Provincia (funzioni fondamentali, organi, elezione), salvo a riconoscere un ruolo maggiore alle Regioni:  nell’attribuzione di nuove funzioni (ora accentrate a livello regionale o gestite da enti strumentali); nella determinazione di strumenti di raccordo interistituzionale infraregionale (al di là dei Consigli delle autonomie previsti dall’art. 123, ultimo comma, Cost.); nei procedimenti di revisione territoriale delle Province. A quest’ultimo proposito potrebbe essere riscritto (non soppresso) l’art. 133, primo comma, Cost., attribuendo alla Regione un ruolo di proposta in un procedimento di legge statale volto ad una revisione complessiva dei territori delle Province (con una loro significativa riduzione rispetto alla recente proliferazione) entro un tempo breve e certo; …

– approvare norme statali di guida e stimolo alla revisione, necessariamente regionale, dei territori comunali, ricorrendo a forme associative “forti” (quanto a dimensioni minime e massime, a funzioni, a organi di governo, a fiscalità propria) o a processi di fusione che producano – entro tempi brevi e certi – il risultato della riduzione degli apparati amministrativi (e dei centri di spesa) comunali;

– ricondurre, in tempi brevi e certi, agli enti autonomi territoriali le funzioni amministrative attualmente esercitate dalla miriade di enti e società strumentali regionali e locali (pubblici o privati in controllo pubblico), in larga misura da sopprimere  (semplificando e risparmiando non poco), anche perchè figli di una pessima concezione dell’autonomia politica degli enti territoriali, con scarsa trasparenza e controlli nelle gestioni e quindi anche  fonti frequenti di sprechi e di fenomeni corruttivi.

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I firmatari del documento ora esposto hanno organizzato un prossimo seminario (a fine maggio 2017) sul tema “Un sistema di autonomie responsabili nella cornice della Costituzione e della Carta europea dell’autonomia locale”. Nella lettera di convocazione si legge che l’obiettivo del seminario « – tenendo anche conto dell’appello (inascoltato) “per una riforma razionale del sistema delle autonomie locali”, da noi promosso nell’ottobre 2013 e sottoscritto da oltre 40 giuspubblicisti – è di riprendere una riflessione sul futuro del sistema delle autonomie, che si è notevolmente complicato e indebolito con gli interventi degli ultimi anni, tanto sul piano della legislazione ordinaria che su quello della riforma costituzionale. La bocciatura referendaria di questo disegno pone almeno due ordini di interrogativi essenziali: come uscire, nell’immediato, dalla palude e correggere la legislazione vigente per ricondurre l’ordinamento nell’alveo della Costituzione e della Carta europea dell’autonomia locale ed evitare ulteriori complicazioni; come attuare (finalmente) e implementare in modo organico gli artt. 116, 117 II/p, 118 e 119 Cost., per realizzare autonomie effettivamente responsabili, semplificando e razionalizzando il sistema, valorizzando la democrazia locale e riqualificando il ruolo legislativo statale e regionale riguardante gli ordinamenti territoriali».

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Il primo dei documenti sopra esposti rappresenta una sintesi della dottrina che ha ispirato le politiche legislative e costituzionali degli ultimi anni. Il secondo, della dottrina che non ne ha condiviso alcune scelte (in particolare quelle confluite nel ddl di revisione costituzionale e quelle ad esse propedeutiche).

La differenza principale tra i due testi sta nel fatto che il primo «tende ad adeguare il percorso delle riforme, ma senza arretramenti sulle linee fondanti e sugli obbiettivi della direzione intrapresa». Il secondo, invece, critica «gli interventi degli ultimi anni, tanto sul piano della legislazione ordinaria che su quello della riforma costituzionale», e dunque nega che si possa procedere senza arretramenti sulle linee fondanti e sugli obbiettivi della direzione intrapresa. E infatti considera necessario non solo «uscire, nell’immediato, dalla palude» ma anche «correggere la legislazione vigente per ricondurre l’ordinamento nell’alveo della Costituzione e della Carta europea dell’autonomia locale ed evitare ulteriori complicazioni».

Non intendiamo qui ripercorrere tutta la complessità dei temi sollevati nei due documenti, ma solo avviare (anzi, preannunciare) una discussione “che prenda il toro per le corna” e che tenda a delineare – una volta sviluppata – un quadro semplice e chiaro, al cui interno collocare le decisioni di minore portata.

Innanzi tutto va rilevato, oggi, che i due documenti, letti a Costituzione invariata, appaiono in buona parte sovrapponibili. Sembra dunque che traccino una strada sulla quale, con buona volontà, si potrebbe procedere.

Resta però una domanda di fondo, la cui risposta non è facile da trovare: perché siamo arrivati a questo punto, che tutti definiscono ormai intollerabile, di disordine generato dal sovrapporsi irrazionale ed episodico di interventi non coordinati? Qual è la causa di questa inflazione di interventi a singhiozzo? Come è noto, già la emanazione della cd. legge Rattazzi, nel lontano 1859, fu difficile e contrastata; ma a partire dall’attuazione dell’ordinamento regionale la questione del governo locale è diventata un rompicapo.

Le idee esposte nei documenti sopra riportati nascono, ovviamente, dal convincimento che la libertà delle comunità territoriali (dunque una libertà collettiva) sia una cosa buona, e che dunque sia ragionevole e desiderabile – vere dignum et iustum, aequum et salutare– che la Costituzione la protegga, affinché le comunità locali possano esercitarla nel regolare la loro vita interna.

Si sa che la dottrina giuspubblistica italiana ha prediletto, rispetto al concetto di autonomia, quello di autarchia, avendo aborrito da ogni declinazione dello status degli Enti Locali in termini di self government. In effetti le proposte qui delineate hanno di mira l’obiettivo – in sé apprezzabilissimo – di delineare un ordinamento finalizzato a fornire – con il massimo di efficienza, efficacia ed economicità – “servizi” per i cittadini. In quest’ottica, i fornitori di questi servizi sono necessariamente configurati come “terminali” di un’azione amministrativa complessiva, da razionalizzare. Terminali che vengono, ancora, denominati “Comuni e Province”. L’ésprit de géometrie che ispira questo obiettivo sarebbe sicuramente piaciuto a Louis de Saint-Just, ma siamo sicuri che risponda a una idea diversa da quella degli enti territoriali come enti autarchici? L’obiettivo di fondo della “stagione delle autonomie”, degli anni Settanta del secolo scorso, era quella di trasformare l’intero modo d’essere dello Stato attraverso le Regioni e gli Enti territoriali. Obiettivo forse troppo ambizioso, ma neanche tanto se si pensa a quante anticipazioni furono effettuate dalle Regioni, coinvolgendo Province e Comuni, in tema di organizzazione del servizio sanitario, di sua integrazione con i servizi sociali, di programmazione socio-economica e di pianificazione territoriale … : tutte chiamando i Comuni e le loro associazioni a un nuovo modo d’essere, attraverso le zonizzazioni (agricole, bacini di traffico …) e i loro soggetti esponenziali: i comprensori, i consorzi polifunzionali dei quali le ASL (o le USSL in Piemonte) dovevano essere la prima – ma solo la prima – proiezione per la gestione associata di funzioni sempre più ricche …. Una visione che era retta da una convinzione di fondo: che la dimensione territoriale (dalle Regioni in giù) avrebbe sprigionato una fortissima energia partecipativa (che effettivamente si materializzò, soprattutto nell’enorme sforzo “volontario” che fu messo in atto per la realizzazione della riforma sanitaria) e una audace “fantasia riformatrice” (che si materializzò negli strumenti partecipativi alla programmazione socio-economica e alla pianificazione territoriale: si pensi alla politica dei parchi).

Ma il disegno di adesso qual è? E quali sono le risorse politiche attivabili? In nome di quale futuro le riforme proposte sono necessarie?

I documenti – entrambi – pongono al centro il problema della fornitura di servizi ai cittadini. E’ certo il problema centrale, ma, per così dire, finale: il risultato. Ma il cuore dell’autonomia non è l’efficacia, efficienza … del risultato raggiunto. Efficacia, efficienza … possono essere anche il risultato atteso da una dittatura, o da un sistema amministrativo napoleonico. Il cuore di un sistema autonomistico – come quello che la Costituzione vuole – è la libertà, la possibilità di esercizio della soggettività delle comunità locali.

E’ questo il problema. Il primo documento, giustamente, ipotizza un possente movimento di partecipazione che sorregga il disegno ipotizzato. Ma in questo paese rancoroso e disorientato, dominato da una avarizia morale sempre più profonda, abbiamo una qualche certezza di poter coniugare il disegno razionalizzatore con le necessarie energie che lo realizzino? Una mobilitazione anche solo lontanamente paragonabile a quella che portò alla realizzazione del Servizio Sanitario Nazionale?

Il problema ovviamente è enorme, ma perché continuare ad accanirsi sul quadro organizzativo e sulla “mappatura” degli EE.LL. – in un contesto in cui non sono definite nemmeno le loro funzioni fondamentali – lasciando aperte possibilità diverse, che potrebbero avere ricadute tecnocratiche (in sé – metafisicamente – né buone né cattive) ma certamente contrarie al principio autonomistico (vedi la propensione lombarda per sostituire le province con delle “agenzie”)?

Non sarebbe più semplice delineare un quadro istituzionale certo (con un ente – la provincia – in grado di rendere effettiva innanzi tutto la sussidiarietà “discendente”, che soccorre i comuni esercitando come proprie le funzioni che questi non sono in grado di svolgere, e lasciando per il resto i comuni liberi di dar vita – incentivandole – alle forme aggregative che preferiscono, nelle dimensioni che preferiscono, ed eventualmente di fare riferimento, ove lo ritengano, alla provincia come sussidio invocato in via ascendente)?

Insomma: limitarsi a chiarire e a semplificare un quadro “certo”, essendo difficile pensare che il principio autonomistico non abbia come contenuto essenziale anche il “diritto di essere lasciati in pace” (fin tanto che sia possibile).

Se non vogliamo essere destinati a un marasma perenne di sovrapposizioni e incrostazioni, è necessario individuare chi sia il soggetto che le ha generate e che continua a generarle. E la risposta non può essere che: la legislazione statale, che non è mai uscita dall’alternativa tra autarchia e autonomia. 

Se cosi è, il tema delle garanzie costituzionali delle autonomie diventa essenziale ed è difficile dire che occorre procedere solo a Costituzione invariata (anche se non si può che partire, oggi, da lì). Sappiamo troppo bene che l’originario Titolo V a sua volta risentiva della stessa tensione; e che la successiva revisione del 2001 non l’ha superata.

D’altra parte il punto più fecondo della legislazione statale sono statila L. 22 luglio 1975, n. 382 e il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, che non sono stati per nulla “succubi” del Titolo V, ma, al contrario, lo hanno felicemente reinterpretato, con uno sforzo intellettuale rimasto ineguagliato (contro i “desolati” lettori del Titolo V come pagina bianca). Da qui si potrebbe trarre la conclusione che il Titolo V dovrebbe essere quanto più scarno possibile: pochi principi essenziali e davvero fondamentali, saldati a un corpus legislativo, altrettanto essenziale, che sviluppi la definizione delle funzioni fondamentali, che oggi rimane il vero punto di frizione, poiché da quella definizione deriva tutto il resto. Una normativa scarna, diretta a enti territoriali-politici concepiti come poleis e non solo come aggregati di tanto esigenti quanto passivi “pretenditori” di servizi.

C’è molto lavoro culturale da fare per definire una filosofia del sistema autonomistico lontana dal modello “discendente” degli enti autarchici. E altrattanto per individuare il luogo in cui si forma l’indirizzo politico che presiede alla sua attuazione. Il Parlamento nazionale ha da sempre (ci ricordiamo i primi atti – deleghe più decreti – di trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni?) dimostrato una famelicità intrigante (ribadita in modo parossistico nel recente ddl di riforma costituzionale “rifiutato”) che non lascia presagire niente di buono. Meglio un sistema elastico che punti sul legislatore regionale per definire l’ordinamento sub-regionale, dentro un corsetto costituzionale nitido e preciso, che lasci allo Stato anche margini di intervento in casi politicamernte eccezionali, da valutare discrezionalmente, perché nessun ordinamento di regole può prevedere tutto e provvedere a tutto (come già sapevano i muratori di Lesbo, che usavano un regolo di piombo perché più adattabile alle asperità dei muri, e come invece non sa l’odioso pangiurisdizionalismo attuale). E anche l’ordinamento sub-regionale dovrà essere elastico, come si conviene ad un ordinamento che ha come destinatari soggetti “autonomi” nel pieno senso della parola, e dunque “liberi”. Mirato dunque a favorire aggregazioni libere e non obbligate degli enti minori, e a costruire un sistema di rappresentanza, negli enti associativi e di area vasta, non ispirato a criteri politici divisivi. Di divisione – più simulata, e priva di reali basi, che effettivamente fondata su diverse “visioni del mondo” – ce n’è già troppa (o troppo poca, se seria) a livello nazionale.

In ogni caso, e questo è ancora più difficile, è da abbandonare il clima culturale volto a indebolire lo Stato (in vista di un suo dissolvimento nel mercato) che ha dominato tutta la fase a cavallo degli anni Novanta (e oltre). Lo Stato è il luogo naturale della democrazia. Altro problema sono le sue dimensioni e la sua eventuale forma federale. Ma uno Stato non potrà mai essere solo la mera arena “giuridica” delle pretese di garanzia dei protagonisti del mercato. E’ una follia pensare che un’Europa forte, unita e “giusta”, cioè conforme alle acquisizioni costituzionali dei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale (dai cui disastri, e da quelli che la generarono negli anni successivi alla Prima, il progetto europeo deriva) possa essere costruita sulle macerie degli Stati-nazione, ridotti a circoscrizioni giurisdizionali per l’applicazione della lex mercatoria europea.

Senza arrivare a sostenere che ci sia stato un unico disegno unitario con tanti esecutori, nella cultura diffusa del nostro Paese c’è stata una forte ventata anti-statalista, che mirava a valorizzare la dimensione privata rispetto a quella pubblica, di cui possono essere considerati sintomi (oltre alla banalizzazione delle autonomie, che mirava anch’essa a svilire il ruolo politico democraticamente forte e incisivo della Repubblica), la “privatizzazione” del diritto amministrativo, contro l’idea stessa che compito primario della PA sia il perseguimento dell’interesse generale (accordi con i privati, indebolimento dell’autoritarietà, invasività delle giurisdizioni …); lo smantellamento degli strumenti di governo pubblico dell’economia (fine delle partecipazioni statali, ondata di privatizzazioni, liberalizzazioni dei settori economici riservati al monopolio o al controllo pubblico); l’adesione a trattati internazionali sul commercio votati unicamente alla concorrenza; l’idea della sussidiarietà orizzontale (prima i cittadini liberamente organizzati, poi, in via eventuale e sussidiaria, lo Stato) …

“Larghe e forti istituzioni rappresentative” (come diceva Carlo Alberto) non vogliono dire una Repubblica slabbrata, impantanata, complicata, inconcludente, sempre sul filo del provvisorio. Potrebbero ben dire il contrario. (md)

 LETTURA

(ARISTOTELE, LA POLITICA[2],

libro III, 9, 1280a, 31 – 1280b, 15)

 «… nemmeno [gli uomini] si sono associati e riuniti in vista del puro vivere, ma piuttosto in vista del vivere bene …, né a scopo di un’alleanza, per non subire ingiustizie da nessuno, nè per gli scambi e per l’utilità reciproca, perché in tal caso Etruschi e Cartaginesi e tutti coloro che  hanno trattati reciproci, sarebbero come cittadini di un’unica città. Certamente essi hanno convenzioni sulle merci di scambio, trattati a garanzia da torti, e protocolli di alleanza; per tutte queste materie, però non costituiscono cariche politiche comuni, ma ciascuno dei due ne ha di diverse e nessuno dei due si preoccupa di quali determinate qualità debba possedere l’altro, nè si da da fare perchè nessuno di coloro che sono vincolato ai patti sia ingiusto e non abbia alcun vizio, ma si preoccupa semplicemente che non ci si faccia alcun torto reciproco. Viceversa quanti si preoccupano di un buon ordine politico sono molto attenti alla virtù e al vizio della cittadinanza, donde è anche evidente che la città, quella almeno che voglia chiamarsi veramente tale e non lo sia solo a parole, deve prendersi cura della virtù. Altrimenti la comunità diventa un’alleanza, diversa soltanto per il luogo dalle altre alleanze tra alleati distanti tra loro e la legge diventa una convenzione e … un garante di ciò che è giusto per gli uni verso gli altri, ma incapace di rendere buoni e giusti i cittadini.

E’ evidente che la questione sta in questi termini. Se infatti si unificassero i territori in modo tale che le città di Megara e di Corinto si collegassero con le mura, non si avrebbe ancora un’unica città … [perché]fine della città è il “vivere bene” … una vita compiuta ed autosufficiente e questo coincide – come diciamo noi – con il vivere in modo felice e in modo “bello”.

Si dovrà quindi concludere che la comunità politica esiste in vista delle “azioni belle” e non in funzione del convivere»



[1]Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.

[2]Istituto italiano per la Storia antica, Aristotele, La Politica, direzione di Lucio Bertelli e Michele Curnis, a cura di Paolo Accattino e Mauro Maggi, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2013.