Il nuovo ordinamento degli enti locali e le regioni: una sfida per il presente e per il futuro anche nella prospettiva di una evoluzione del sistema regionale
Francesco Pizzetti1
1. Tra la legge. n. 56 del 2014 (legge Delrio) e la discussione in atto in Parlamento sul ddl. costituzionale Renzi-Boschi, che prevede il Senato composto di senatori eletti dai consiglieri regionali fra di loro, ivi compreso un sindaco, nonchè notevoli mutamenti nella ripartizione delle competenze tra Stato e regioni, si è aperto anche un dibattito (peraltro che pare per ora sopito) sull’eventuale accorpamento delle regioni.
Un dibattito, questo, per il vero ricorrente, sia nella storia italiana fin dall’epoca di Cattaneo e Gioberti, sia nella recente cronaca italiana, almeno dagli studi della Fondazione Agnelli del 1992 e dalle proposte fatte a più riprese dalla Lega Nord, anche su suggestione di Miglio per tutti gli anni novanta.
Negli ultimi mesi questo problema è stato sollevato dai deputati PD Morassut e Ranucci, ripreso dall’allora Presidente della regione Campania Caldoro e, sia pure con altra prospettiva, più direttamente legata all’istituzione delle città metropolitane anche da Chiamparino, sia come Presidente della regione Piemonte che come Presidente della Conferenza dei Presidenti.
In questo quadro il governo, con decreto dell’allora Ministro Lanzetta, ha nominato il 29 dicembre 2014 una Commissione, presieduta dalla prof.sa Viganoni e composta da R.Bifuclo, B. Caravita,G. Falcon, P.Feltrin, G.Melis, M.Olivetti, A. Patroni Griffi, A. Petretto , F Pizzetti, A.Poggi, L.Vandelli. La Commissione ha tenuto numerose sedute sul tema e audito i Presidenti Caldoro e Chiamparino. Ha infine chiuso i suoi lavori il 25 Maggio 2015, anche se la relazione finale è ancora in fase di elaborazione.
E’ innegabile dunque che il tema del riordino delle regioni e della loro adeguatezza alle esigenze dell’Italia di oggi abbia avuto in tempi recenti una sorta di ritorno di fiamma.
Sembra però di poter dire che oggi questo tema appare in qualche modo fuori tempo. In un momento in cui il sistema di governo locale è impegnato nell’attuazione della l. n. 56, la più grande riforma del sistema locale dopo le leggi Rattazzi del 1857, il Parlamento è impegnato a discutere la riforma del Senato, e la stessa UE, alle prese con la crisi greca, sembra del tutto inopportuno aprire anche il fronte del ridisegno delle regioni, tanto più che esso difficilmente può non riguardare anche quelle a statuto speciale.
1 Professore Ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino.
Tuttavia è innegabile che in Italia, così come in ogni Paese a noi comparabile, esiste la questione, inevitabilmente sempre aperta, di quali siano le forme ottimali di organizzazione territoriale. Problema questo al quale, come è noto, ogni Paese dà risposte diverse, anche secondo le sue tradizioni e le sue inquietudini.
Significativa in questo senso la stabilità dei Landers tedeschi, che non ha neppure consentito la fusione tra Berlino e il Brandemburgo, soprattutto se messa a confronto con la situazione francese, che vede oggi la Francia impegnata per la terza volta nella ridefinizione dei confini delle sue regioni.
La realtà è che il tema della dimensione territoriale ottimale ai fini di costruire un sistema di governo locale adeguato alle esigenze dei cittadini è di per sé stesso evanescente e comunque mai facilmente conciliabile con l’obiettivo di assicurare anche una articolazione territoriale coerente con la storia, i costumi e la autoconsapevolezza delle singole comunità territoriali.
Due aspetti, questi, del tutto diversi, perché il primo assume essenzialmente l’efficienza e l’efficacia dell’attività amministrativa e il contenimento della spesa pubblica come linea guida. Il secondo invece ha come stella polare la rappresentanza democratica e la capacità di identificazione tra comunità e istituzione.
Senza ora ripetere cose notissime, specialmente con riferimento alle regioni italiane e alla loro derivazione dalle scelte compiute dallo statistico Pietro Maestri nella seconda metà del XIX secolo, e riprese nel fortunatissimo manuale di geografia di A. Pozzi a cavallo tra XIX e XX secolo, e senza attardarci sulle discussioni svoltesi in Assemblea costituente che condussero poi all’adozione dell’odg. Targetti, il quale confermava la ripartizione del Maestri e del Pozzi, cerchiamo di illuminare qualcuno degli aspetti di maggiore interesse che, nella realtà italiana di oggi, si collegano a questa tematica.
2. Va subito detto peraltro che non è certo di particolare interesse discutere ora se la via migliore per accorpare le regioni esistenti sia quella di puntare sul regionalismo differenziato e sull’ultimo comma dell’art. 117 Cost. (sostenuta in Commissione Viganoni da Poggi e Pizzetti) o invece quella di puntare innazitutto a una modifica degli artt. 131 e 132 Cost. (tesi sostenuta nella Commissione da Bifulco, Olivetti e Petritto).
Né ha senso che ci soffermiamo ora su quali potrebbero essere gli accorpamenti preferibili tra i tanti proposti nel corso degli anni, anche perché, come ha messo in rilievo nel corso dei lavori della Commissione, la presidente Veganoni, illustre geografa dell’Orientale di Napoli, nulla è più fluido e impalpabile del concetto di confine, specialmente in una società intrinsecamente mobile e a collocazioni territoriali multiple, nelle quali una stessa persona può vivere in un territorio, lavorare in un altro, avere il centro dei suoi interessi in un terzo, in una sorta di caleidoscopio che oggi segna, appunto, la dimensione del territorio se raccordata alla persona piuttosto che alla comunità.
Qui interessa mettere a fuoco il problema di come il tema dell’accorpamento di regioni si presenta in concreto nella realtà italiana di oggi, fermo restando che, come si è detto, in ogni caso esso non potrà che essere affrontato dopo che la l. n. 56 del 2015 avrà cominciato a dispiegare i suoi effetti, specialmente con riferimento alle città metropolitane e, dopo che riforma costituzionale, col nuovo Senato eletto dai consigli regionali, sarà entrata in vigore.
Proprio tenendo presente il vincolo posto dalla l. n. 56, almeno relativamente alla sua prima fase di attuazione, è opportuno dunque ricostruire, almeno in linea di massima, il disegno istituzionale che ne è alla base, specialmente con riferimento alle regioni.
3. Il valore più importante della legge n. 56, e quello destinato a segnare di più il carattere innovativo della riforma, riguarda essenzialmente le città metropolitane.
Come si è detto anche in altri saggi2, nella l. n. 56 le città metropolitane, a differenza delle province e delle stesse unioni di comuni, sono prima di tutto enti territoriali con alcune specifiche e dichiarate finalità, ad esse assegnate dall’art. 1, comma 2, della legge.
Ricordo per memoria che queste finalità sono definite “finalità istituzionali generali” e sono: “cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione di interesse della città metropolitana; cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, ivi comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee”.
Dunque le città sono prima di tutto enti a finalità definite, cosicché sia le funzioni fondamentali ad esse assegnate dal comma 44 e, per richiamo, dal comma 85, devono sempre essere esercitate nell’ambito delle finalità di cui al comma 2 e per gli scopi che queste finalità indicano.
La stessa cosa si deve dire per quanto riguarda il processo di riordino delle funzioni non fondamentali delle vecchie province, o per l’eventuale assegnazione in futuro di nuove competenze o funzioni, sia da parte dello Stato che delle regioni.
Il carattere di enti a finalità tipizzate, proprio delle città metropolitane, impone infatti due vincoli: uno che riguarda le città, il secondo che vale sia per lo Stato che per le regioni, fino a incidere sulla stessa applicazione dell’art. 118 Cost.
4. Per le città il vincolo consiste nel fatto che esse devono esercitare le funzioni nell’ambito e nel perimetro delle loro finalità, e dunque innanzitutto per perseguire lo sviluppo strategico del loro territorio. E’ questa la finalità principale intorno alla quale ruotano anche le altre elencate nel comma 2. Infatti la finalità della promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione è strettamente caratterizzata dal collegamento con l’interesse della città metropolitana, e dunque col suo scopo principale, che è lo sviluppo del territorio.
Lo stesso si può dire per quanto riguarda l’altra finalità, quella relativa alla cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello, ivi comprese quelle con le città e le aree metropolitane europee. E’ chiarissimo infatti che l’inciso “afferenti al proprio livello” è il fondamento di un potere relazionale e di raccordo per un verso illimitato e, dall’altro, condizionato solo dal suo rapporto con lo scopo principale della città, che è appunto lo sviluppo strategico del territorio.
In sostanza, e questo è il primo punto fermo, la città metropolitana è un ente a finalità determinate e il cui ruolo è concentrato essenzialmente sullo sviluppo.
Un ente impegnato quindi a esercitare tutte le sue funzioni, fondamentali e non, con lo scopo di raggiungere questa finalità e nell’ambito da questo scopo definito.
In questo senso esso è un ente del tutto nuovo nella tradizione locale italiana, che fino ad ora aveva sempre conosciuto soltanto enti territoriali a finalità generali, il cui ruolo consisteva essenzialmente, e anzi unicamente nella soddisfazione delle esigenze dei loro cittadini, ovviamente nell’ambito delle funzioni ad essi assegnate.
La città metropolitana non ha come primi e principali interlocutori i cittadini delle comunità ricomprese nel suo territorio, se non per la parte in cui essi sono i primi e i più diretti interessati allo sviluppo.
La città metropolitane non sono dunque enti che hanno nella soddisfazione dei bisogni dei cittadini il loro core business, il che giustifica anche la particolare forma di governance, basate su elezioni di secondo grado.
Come in altra sede si è detto3 esse sono enti che si muovono e operano tra dimensione locale e una dimensione sovranazionale: grandi mongolfiere nel cielo, ancorate al proprio territorio soltanto dal filo rosso dello sviluppo.
In questo senso, ancora, esse sono enti che, assicurando lo sviluppo del proprio territorio operano anche nell’interesse del più ampio contesto nel quale questo territorio è inserito e che va dalla regione allo Stato, fino alla medesima Unione Europea.
5. Come si è detto al paragrafo 3, il vincolo derivante dal fatto che l’art. 1, comma 2, della l. n. 56 assegna alle città metropolitane finalità definite incide anche sulla regione e sullo Stato, condizionandone il potere di assegnazione di nuove funzioni, sia nell’ambito del processo di riordino che in quello di ulteriori future assegnazioni.
Il medesimo vincolo inoltre incide anche sull’art. 118 Cost., che non può più essere interpretato soltanto come un ascensore grazie al quale è possibile collocare le funzioni amministrative al livello territoriale più efficiente per svolgerle.
Dall’art. 1, comma 2, della l. n. 56 e dal fatto che le città metropolitane sono enti a finalità definite, discende anche il fatto che sia lo Stato che le regioni potranno assegnare a questi enti ulteriori funzioni a condizione che esse siano compatibili con le loro finalità istituzionali.
Dunque, l’ascensore di cui al comma 118 Cost. potrà fermarsi al piano delle città metropolitane soltanto quando quelle funzioni siano utili, o indispensabili, al perseguimento delle finalità strategiche di questi enti.
Per concludere su questo punto: così come le città metropolitane sono tenute ad esercitare le funzioni fondamentali ad esse attribuite avendo sempre di mira le finalità ad esse assegnate e prima di tutto lo sviluppo, allo stesso modo regioni e Stato potranno assegnare a esse compiti nuovi solo in quanto con queste finalità compatibili.
6. Se è così ne discende innanzitutto che le leggi regionali e statali di attribuzione di nuove funzioni (o che di soppressione da parte dello Stato di alcune funzioni fondamentali assegnate) potranno essere sottoposte al giudizio della Corte costituzionale anche relativamente al rispetto di queste condizioni.
In secondo luogo è evidente che le regioni nella quali esiste una città metropolitana hanno compiti e ruoli specifici.
Da questo punto di vista il primo e più fondamentale compito riguarda la necessità di avere, secondo modalità che dovranno essere definite dalle singole leggi regionali, un dialogo costante e continuo con le città metropolitane, sia per condividerne i progetti di sviluppo, sia per assicurare un efficace coordinamento tra le scelte relative all’intero territorio regionale e il progetto di sviluppo della città.
Nulla di più sbagliato, dunque, che immaginare che regioni e città metropolitane siano alternativamente fungibili.
Altrettanto sbagliato è ipotizzare che in futuro l’ambito di attività delle regioni possa essere limitata alle parti del paese sulle quali non insistono le città metropolitane.
I due enti hanno funzioni e compiti del tutto diversi, che imporranno certamente specifiche forme di cooperazione e collaborazione in un quadro di necessaria convivenza.
Se questa ricostruzione è corretta, è anche vero, ovviamente, che con la istituzione delle città metropolitane, le regioni non sono più tutte eguali come invece accadeva fino alla l. n. 56, regioni a statuto speciale a parte.
Quelle che ricomprendono le città metropolitane hanno infatti doveri e compiti diversi dalle altre poiché avranno anche il compito di promuovere e attuare forme di collaborazione con le città metropolitane che massimizzino la capacità di entrambi gli enti di far fronte ai rispettivi compiti istituzionali.
7. Del tutto diversa invece la situazione delle province.
Il comma 3 dell’art. 1 della l. n. 56 si limita a definire le province enti di area vasta, rinviano la loro disciplina ai commi da 51 a 100.
La legge non assegna a questi enti alcuna finalità, limitandosi ad attribuire loro poche funzioni fondamentali, strettamente connesse al loro carattere di enti di area vasta. Un numero ristretto, coerente con il rispetto del dettato costituzionale, che riconosce agli enti territoriali che fanno parte della Repubblica, e fra i quali è tuttora ricompresa la provincia, il diritto a essere titolari di funzioni fondamentali ex art. 117, comma secondo, lettera p) Cost..
Per il resto la l. n. 56 affida sostanzialmente a un Accordo tra Stato e regioni da sancire in Conferenza unificata (comma 92), e poi alle leggi regionali, il compito di riallocare le funzioni e le risorse umane, finanziarie e di personale delle precedenti province.
A parte le difficoltà rilevanti poste di fatto dalla l. n. 190/2014, specialmente nei commi da 418 a 430, che oggi ritardano e rendono più complessa l’attuazione rapida della riforma, è chiaro nel sistema della l. n. 56 che, a parte la governance, costruita anche per le province sulla falsariga delle città metropolitane e il fatto che le funzioni fondamentali delle province spettano anche alle città, l’uno e l’altro tipo di ente sono concepiti e regolati secondo due prospettive diversissime fra loro.
Per le città metropolitane la l. n. 56 disegna con chiarezza non solo la struttura ma anche le finalità e, consapevole che esse sono e resteranno una parte costituzionalmente fondamentale della Repubblica, ne definisce le funzioni fondamentali in modo ampio e del tutto coerente con le finalità ad esse affidate.
Invece, per quanto riguarda le nuove province, la l. n. 56 si limita a definirle come enti territoriali di area vasta e ad individuare soltanto poche funzioni fondamentali coerenti con questo loro carattere.
E’ del tutto evidente che nella prospettiva della l. n. 56 le province sono destinate a trasformarsi in enti di area vasta rispetto ai quali, salvo che per quanto riguarda gli aspetti generali del loro ordinamento, e in particolare la struttura e le modalità di formazione degli organi, sarà compito della regione definire finalità e funzioni e, in prospettiva, anche gli ambiti territoriali4.
Del resto che questo sia il contesto nel quale la l. n.56 va letta è testimoniato da due elementi di grande rilievo.
Il primo, che il ddl. n. 1542, contenente la proposta iniziale di quella che ora è la legge n. 56, fu presentato l’8 agosto del 2013, contestualmente al ddl. costituzionale n. 1543 relativo alla soppressione delle province e alla rimessione alle regioni di ogni competenza in materia di area vasta (si tratta del noto disegno di legge Quagliariello, poi superato dal più ampio progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi).
Il secondo elemento da tenere presente, anch’esso non meno essenziale, è che la l. n. 56, pur entrata in vigore il 7 aprile del 2014, ha anticipato di fatto lo schema seguito poi dal disegno di legge costituzionale Renzi-Boschi, che non a caso prevede la totale soppressione delle province quali enti costituzionalmente necessari (ed anzi ne cancella anche il nome in Costituzione), mentre all’art. 39, comma 4, prevede che per quanto riguarda gli enti di area vasta, fermo restando la competenza statale in materia di ordinamento generale, la disciplina degli enti di area vasta sia totalmente di competenza delle regioni.
In tal modo il ddl. costituzionale Renzi-Boschi chiude il cerchio iniziato dai ddl. n. 1542 e n. 5143 dell’8 agosto 2013 e diventa parte essenziale, a livello costituzionale, del disegno strategico della l. n. 56 del 2014.
8. Più complessa è infine la situazione delle unioni dei comuni.
La legge Delrio al comma 4 si limita a definirle come enti locali costituiti dall’associazione di due o più comuni, evitando sia di qualificarli come enti territoriali che di definirne le finalità, salvo stabilire i casi in cui è obbligatorio per i comuni esercitare le funzioni fondamentali attraverso forme associate e, in prospettiva, solo attraverso le unioni.
Anche qui la legge Delrio va letta tenendo presente che essa si è collocata come un ponte fra una Costituzione attuale, che nulla dice in materia di associazionismo comunale, e una Costituzione futura che invece, almeno sulla base del ddl. cost. Renzi- Boschi, prevede al nuovo art. 117, secondo comma, lettera p) che siano di competenza statale le norme di principio sulle forme associative dei comuni. Una formula questa che è destinata a dare piena e definitiva copertura costituzionale al disegno complessivo che è alla base della l. n. 56.
9. Si tratta ora di capire meglio, tenendo conto delle considerazioni svolte, quale sia nel quadro definito dalla l. n. 56 e di fatto convalidato dal ddl. cost. Renzi-Boschi, il ruolo futuro delle regioni.
Adottando questa impostazione e questo metodo di lavoro, la prima cosa che emerge è che molto probabilmente in questa fase è prematuro porsi il tema dell’accorpamento delle regioni e comunque della loro differenziazione.
Il cambiamento in atto è infatti di tale portata che tutto consiglia di rinviare a una seconda fase, quando questo primo terremoto istituzionale sarà assestato, il tema delle regioni.
In ogni caso è indispensabile che quando sarà il momento di affrontare questo tema si tenga conto del quadro nel quale ci muoviamo, e sempre più saremo costretti a muoverci.
Il nuovo sistema di governo locale di secondo livello come definito dalla l. n. 56 è destinato a diventare elemento essenziale del quadro istituzionale futuro. Esso si fonda su una visione disassata dei due tipi di enti di area vasta, e su un modello di unioni di comuni molto duttile, che in futuro, anche sulla base delle scelte regionali, potrà condurre non solo all’accorpamento dei piccoli comuni ma anche alla soluzione dei problemi di alcune conurbazioni di media ampiezza demografica, caratterizzate da un comune centrale di medie dimensione circondato da comuni più piccoli, in un contesto urbano e produttivo di fatto ormai già integrato.
Un quadro istituzionale dunque nel quale il rapporto tra città metropolitana e regione è destinato ad essere del tutto diverso da quello fra regioni e province-enti di area vasta. Allo stesso tempo le regioni potranno e dovranno affrontare anche il tema delle unioni e delle forme associative, che costituisce già oggi una ulteriore forma di ente intermedio, sia pure finalizzato essenzialmente all’associazionismo comunale.
10. Volendo riassumere possiamo dire che le regioni si trovano già oggi, e ancor più si troveranno in futuro, a dover svolgere un triplice e diverso ruolo rispetto agli enti locali operanti sul loro territorio.
Pieno e sostanzialmente tutto rimesso alle scelte regionali, quello relativo province; concorrente con lo Stato ma fortemente condizionato dalle scelte dello Stato e dei comuni, per quanto riguarda le unioni di comuni; di raccordo e di leale collaborazione quello relativo al rapporto con le città metropolitane, in un contesto che di fatto le vincola non solo per quanto riguarda le funzioni proprie di questi enti ma anche per quanto riguarda le scelte che la stessa regione deve compiere.
Per completare il quadro va infine tenuto conto del nuovo ruolo che sarà attribuito dalla futura Costituzione al Senato della Repubblica. Un ruolo che vede i consigli regionali (non le regioni) al centro della scelta dei colleghi destinati a diventare senatori, ma che di fatto assegna alle regioni nuove possibilità di incidere anche sulle scelte e sulle decisioni, legislative e non, dello Stato centrale.
In un contesto istituzionale così in movimento si conferma ulteriormente la convinzione che appare oggettivamente difficile affrontare oggi, con la necessaria consapevolezza, il tema del riordino delle regioni dal punto di vista del loro numero e dei loro ambiti territoriali.
Affrontare anche questo tema significherebbe oggi rischiare di compiere scelte non adeguatamente mediate, perché mosse più dalle esperienze positive o negative del passato che non da una lucida visione del futuro.
2 Si veda F. Pizzetti, La riforma degli enti territoriali, città metropolitane, nuove province e unioni di comuni, Giuffrè, Milano, 2015 e ID., Le città metropolitane per lo sviluppo del territorio: tra livello locale e livello sovranazionale, in Federalismi, 2015.
3 Cfr. F. Pizzetti, Le città metropolitane per lo sviluppo strategico del territorio: tra livello locale e livello sovranazionale, cit.
4 Per ulteriori approfondimenti rispetto al ragionamento qui svolto si veda F.Pizzetti, La legge Delrio: una grande riforma in un cantiere aperto. Il diverso ruolo e l’opposto destino delle città metropolitane e delle province, in Rivista AIC, in corso di pubblicazione.