Autonomia differenziata: un pericolo per l’unità nazionale? Recensione a G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi, Laterza, Roma-Bari, 2018
Francesco Pallante[1]
1. Il larghissimo consenso politico che sta accompagnando la realizzazione del regionalismo differenziato[2] non esime gli studiosi dall’interrogarsi su giustificazioni, metodologie e conseguenze del procedimento in discussione. È quel che fa, in modo tanto polemico quanto stimolante, l’economista Gianfranco Viesti, in un librino, distribuito gratuitamente on-line dall’editore Laterza, intitolato Verso la secessione dei ricchi?[3].
Dopo aver presentato rapidamente il tema dell’autonomia regionale, sotto il profilo dei vantaggi e degli svantaggi che essa determinerebbe rispetto all’organizzazione accentrata dello Stato[4], e dopo aver, altrettanto rapidamente, ricostruito l’evoluzione più recente del regionalismo italiano, l’Autore entra nel vivo della questione, concentrandosi, in particolare, sulle iniziative poste in essere dall’Emilia-Romagna, a partire dalla risoluzione consiliare del 3 ottobre 2017, e dal Veneto e dalla Lombardia,a partire dai referendum regionali consultivi del 22 ottobre 2017.
Tali iniziative si inseriscono – com’è noto – nel solco tracciato dall’art. 116, co. 3, Cost., ai sensi del quale, su richiesta formulata dalla regione interessata, il Parlamento approva, a maggioranza assoluta, una legge che disciplina le «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» da riconoscersi alla regione, nei limiti di determinate materie[5], sulla base di una previa intesa raggiunta tra lo Stato e la regione stessa. La Costituzione non specifica i dettagli della procedura, rinviando evidentemente a un successivo intervento legislativo la definizione della disciplina di attuazione. In maniera del tutto inusuale, è stato invece il governo, in accordo con le regioni che per prime hanno richiesto di avviare la procedura, a dare attuazione al dettato costituzionale, producendo un atto normativo sinora sconosciuto al nostro ordinamento: la pre-intesa, vale a dire l’accordo raggiunto tra il governo Gentiloni e le giunte regionali interessate il 28 febbraio 2018[6].
Molto ci sarebbe da dire in argomento, tanto sul piano delle fonti del diritto, la cui tenuta sistematica sempre più viene erosa dal proliferare inarrestabile della soft law, quanto sul piano della forma di governo, con particolare riguardo all’abdicazione, da parte del governo, del ruolo di tutela e promozione dell’interesse generale che, proprio nei rapporti legislativi tra lo Stato e le regioni, l’art. 127 Cost. inequivocabilmente gli affida. Non è questa, tuttavia, la sede in cui affrontare tali questioni di carattere generale. Qui ci si può limitare a mettere in luce le peculiarità procedurali che segneranno i procedimenti in atto:in primo luogo, la rimessione della negoziazione dell’intesa a una Commissione paritetica Stato-Regione;in secondo luogo, l’inemendabilità dell’intesa così raggiunta dal Parlamento, che dovrà quindi limitarsi ad approvarla o respingerla;in terzo luogo, la durata decennale dell’intesa e la sua rinegoziabilità, salvo accordo tra lo Stato e la regione, solo al termine di tale periodo. Di fatto, una volta approvata l’intesa da parte del Parlamento, per dieci anni sarà impossibile tornare indietro senza il consenso della regione destinataria delle nuove competenze.
2. Ciò premesso, il profilo su cui principalmente si concentrano le osservazioni di Viesti è di carattere economico.
A suo dire, scopo essenziale delle iniziative messe in atto da Lombardia e Veneto è quello di «ottenere, sotto forma di quote di gettito dei tributi che vengono trattenute, risorse pubbliche maggiori rispetto a quelle oggi spese dallo Stato a loro favore»[7].Lo dimostrerebbe l’originaria iniziativa referendaria veneta, che, prima di essere ridimensionata dalla Corte costituzionale attraverso la sentenza n. 118 del 2015[8], prevedeva espressamente l’attribuzione all’amministrazione regionale di almeno l’ottanta per cento dei tributi riscossi sul territorio veneto[9]. Alla medesima conclusione condurrebbe,altresì, l’insistenza della precedente presidenza lombarda sul tema dei c.d. residui fiscali – vale a dire della differenza tra quanto sul territorio regionale viene pagato in tasse e imposte e quanto sul medesimo territorio viene speso in politiche pubbliche –,calcolati in 54 miliardi di euro annui e destinati, nelle intenzioni dei promotori,a rimanere per almeno la metà alla Lombardia per far fronte alle nuove competenze[10]. Sul punto, il libro avanza due rilievi, di carattere l’uno concreto, l’altro concettuale.
3. Dal punto di vista concreto, attribuire maggiori risorse a Lombardia e Veneto (ed Emilia-Romagna) significa – essendo il complesso delle risorse nazionali disponibili dato – ridurre i finanziamenti alle altre regioni, a prescindere da ogni considerazione circa il divario che già separa, a loro favore, tali territori dal resto d’Italia. Si tratterebbe, dunque, di attribuire un ulteriore vantaggio economico ad aree che, nonostante la crisi, rimangono economicamente tra le più solide del Paese, privilegiando il loro rilancio rispetto a quello dell’economia nazionale nel suo complesso.
Particolarmente rilevanti, sotto tale profilo, sarebbero le modalità attraverso cui il trasferimento di risorse dovrebbe realizzarsi. L’idea, contenuta nelle pre-intese del febbraio 2018, è che, a regime, «le risorse nazionali da trasferire per le nuove competenze siano parametrate […] a fabbisogni standard calcolati tenendo conto [oltre che della popolazione residente] anche del gettito fiscale regionale» e «fatto comunque salvo l’attuale livello dei servizi»[11](vale a dire potendo avere, come esito, solo il mantenimento o il miglioramento della situazione esistente).
Viesti – pur favorevole alla sostituzione del criterio della spesa storica con quello del fabbisogno standard nel finanziamento degli enti territoriali[12] – sottolinea la discrezionalità cui è tecnicamente soggetto il calcolo dei fabbisogni standard. La scelta di determinati indicatori, anziché di altri, condiziona il risultato finale, sicché la quantificazione dei fabbisogni (attraverso la previa definizione dei costi standard) implica l’effettuazione di scelte necessariamente politiche. Il meccanismo previsto dalle pre-intese rimette, invece, ogni decisione alle Commissioni paritetiche che dovranno essere istituite tra lo Stato e le regioni interessate, con il risultato di escludere dall’aspetto più rilevante del processo decisionale il Parlamento. Poiché, inoltre, ogni Commissione potrà adottare criteri differenti, questioni suscettibili di avere incidenza generale risulteranno riservate a sedi decisionali particolari.
Quel che l’Autore specialmente stigmatizza è, tuttavia,un altro elemento,vale a dire la previsione del gettito fiscale regionale quale criterio da tenere in considerazione nella definizione dei fabbisogni standard. Viesti precisa che «il gettito fiscale non è stato sinora mai considerato nei complessi calcoli per i fabbisogni standard» previsti dalla legislazione sul c.d. federalismo fiscale, i quali sono risultati «collegati sempre e solo alle caratteristiche territoriali e agli aspetti socio-demografici della popolazione»[13]. A fare altrimenti si attribuirebbe, infatti, alla condizione economica dei cittadini la capacità di influire – in senso inverso rispetto a quello voluto dall’eguaglianza sostanziale – sui loro diritti e in particolare sui più costosi, quali sono l’istruzione e la salute.
A ciò si deve poi aggiungere l’ulteriore criticità derivante dalla circostanza che – come già era avvenuto per il c.d. federalismo fiscale – il processo di definizione dei costi standard avverrebbe nella persistente inattuazione della disposizione costituzionale che impone alla legislazione statale la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.). Ed è appena il caso di rilevare che, dal punto di vista logico, tale determinazione dovrebbe precedere, non seguire, la definizione dei costi standard[14].
4. Dal punto di vista concettuale, è la stessa nozione di residui fiscali a venire messa in discussione dall’argomentazione di Viesti. Come già accennato, con l’espressione «residuo fiscale» si fa riferimento al risultato ottenuto «sottraendo dalla spesa pubblica che ha luogo in un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti sullo stesso territorio». Se il risultato è negativo, allora la popolazione di quel territorio riceve in spesa pubblica meno di quanto versa in imposte: «ciò significa che se non facesse parte di una comunità nazionale più ampia, potrebbe “permettersi” una spesa maggiore»[15].
Al di là delle difficoltà tecniche connesse alla realizzazione del calcolo (la spesa va conteggiata tenendo conto solo delle amministrazioni pubbliche? O vanno considerate anche le imprese pubbliche? E, nel calcolo del gettito fiscale, a quale territorio attribuire le imposte di imprese che svolgono la propria attività in una regione ma hanno sede in un’altra?)[16], i diversi studi sono concordi nell’individuare Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Piemonte, Toscana come le regioni che esprimono un residuo fiscale negativo. A seconda dei criteri di calcolo utilizzati, a esse possono essere aggiunte Lazio, Marche, Liguria e, tra le regioni a Statuto speciale, Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Tutte le altre regioni hanno residui fiscali positivi, sia pure in misura ultimamente meno marcata causa del maggiore impatto che le misure di austerità adottate in questi anni hanno avuto sul Mezzogiorno.
Il ragionamento sui residui fiscali – argomenta Viesti – è tuttavia viziato da un errore concettuale che lo mina alla radice. A beneficiare della spesa pubblica e a pagare le imposte non sono infatti i territori regionali, ma i singoli cittadini, sulla base della loro condizione di benessere o di bisogno, che è tale a prescindere dal luogo in cui risiedono. Aggregare i cittadini sulla base della loro appartenenza territoriale è, oltre che giuridicamente sbagliato, ideologicamente arbitrario. È giuridicamente sbagliato, perché nel nostro ordinamento costituzionale la cittadinanza è nazionale, non regionale, dunque gli inderogabili doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. valgono nei confronti di tutti i cittadini italiani, non nei confronti dei soli corregionali. Ed è ideologicamente arbitrario perché – anche a voler far proprio il discorso sui residui fiscali – non si capisce per quale ragione lo si dovrebbe limitare alle regioni evitando di spingerlo alle province, ai comuni, ai quartieri, alle strade, ai condomini, ai pianerottoli. Perché, per esempio, nessuno sostiene che il comune di Pino torinese mantiene quello di Castelnuovo don Bosco, mentre si legge che la Lombardia “mantiene” la Sicilia? Evidentemente, perché mentre l’ideologia regionalista esiste, non altrettanto può dirsi per l’ideologia “comunalista”.
Come spiega efficacemente il Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ampiamente citato da Viesti[17], «gran parte della redistribuzione tra aree territoriali è semplicemente il risultato dell’interazione tra programmi di spesa di cui i beneficiari ultimi sono gli individui sulla base di caratteristiche che prescindono dall’area di residenza – quali l’età, lo stato di salute, il reddito – e delle modalità di finanziamento di tali programmi»[18]. Detto altrimenti, nell’ambito della Repubblica, operano meccanismi di redistribuzione della ricchezza, in forza dei quali vi sono cittadini che beneficiano di interventi di spesa pubblica finanziati con il gettito derivante dalle imposte pagate, in misura maggiore, da altri cittadini. Esattamente quel che prevede il combinato disposto degli artt. 3, co. 2, e 53 Cost., per i quali la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che, in concreto, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ed è tenuta a farlo raccogliendo le risorse necessarie tramite un sistema tributario ispirato a criteri di progressività. Stiamo parlando del cuore stesso del dettato costituzionale, rivolto alla realizzazione di quel principio personalistico che per molti studiosi è il vero tratto distintivo della nostra Carta fondamentale[19]. Sostituire la solidarietà nazionale tra tutti i cittadini italiani con una pluralità di solidarietà regionali tra di loro contrapposte significherebbe trasformare le autonomie regionali in fattori di potenziale disgregazione dell’unità della Repubblica, in violazione dell’equilibrio tra autonomia e unità sancito nell’art. 5 Cost.
Se proprio si vuole parlare di residui fiscali,occorre farlo, in definitiva,con riguardo agli individui, assumendo a riferimento il principio di eguaglianza «che implica che il residuo fiscale (il saldo tra i benefici ricevuti dalla spesa pubblica e il contributo al finanziamento della spesa) sia lo stesso per individui che si trovano nella stessa posizione»personale socio-economica, a prescindere da quale sia la loro regione di residenza[20].
5. La conclusione del pamphlet di Viesti è meno radicale di quanto ci si potrebbe forse aspettare dato lo svilupparsi dell’argomentazione. Lungi dal proporre di interrompere i percorsi di differenziazione regionale in atto – percorsi che interessano, oramai, quasi tutte le regioni ordinarie italiane, essendo al momento rimaste inerti solo Abruzzo e Molise –, l’Autore suggerisce l’adozione di una serie correttivi, sia di carattere procedurale, sia di carattere sostanziale[21].
Quanto ai primi, la sua convinzione è che il finanziamento delle nuove competenze debba muovere dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., e solo successivamente passare a individuare i fabbisogni standard. Questi ultimi andrebbero, poi, definiti per l’intero territorio nazionale ed escludendo ogni riferimento al gettito fiscale. Riguardo al processo decisionale, si dovrebbe prevedere la più ampia partecipazione dei soggetti istituzionali interessati e una valutazione finale in sede parlamentare, di modo che l’intesa tra lo Stato e la regione sia stipulata solo dopo che il Parlamento si sia espresso. Potrebbe, inoltre, risultare utile l’inserimento nelle intese di un clausola di salvaguardia che consenta al governo, previa valutazione degli effetti delle nuove forme di autonomia, di intervenire per sospenderne o correggerne alcuni profili anche senza l’assenso della regione interessata.
Quanto ai secondi, la preoccupazione di Viesti è che l’estensione dell’attribuzione di nuove competenze – relative a ben ventitré materie nel caso della Lombardia; leggermente inferiore in quelli del Veneto e dell’Emilia-Romagna – sia eccessiva. Occorrerebbe, anzitutto, verificare se alcune esigenze di autonomia non potrebbero essere comunque soddisfatte attraverso forme di decentramento o di devoluzione meno incisive. Inoltre, sarebbe preferibile muoversi con grande prudenza in ambiti quali le grandi reti di trasporto e di navigazione, la produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, la tutela della salute, l’istruzione. Con riguardo a quest’ultima, di fronte al rischio di una vera propria «regionalizzazione» della scuola (assunzione del personale, rapporto di lavoro, organizzazione del servizio, programmi, ecc.), sarebbe preferibile arrestarsi completamente: l’istruzione scolastica uguale per tutti è, probabilmente,la principale precondizione alla realizzazione della cittadinanza e solo il suo mantenimento in capo allo Stato può davvero garantire il raggiungimento di tale obiettivo.
[1] Professore associato di Diritto costituzionale nell’Università di Torino.
[2] E. Grosso e A. Poggi, Il regionalismo differenziato: potenzialità e aspetti problematici, in «Il Piemonte delle Autonomie, n. 2, 2018.
[3] G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari 2018 (pp. 53).
[4] In sintesi (G. Viesti, op. cit., pp. 8-10): a favore rileverebbero (a) l’avvicinamento delle istituzioni di governo ai cittadini (con conseguente maggiore responsabilizzazione delle prime e maggiori poteri di controllo in capo ai secondi), (b) la maggiore coincidenza tra raccolta delle risorse tramite il prelievo fiscale e le decisioni di spesa, (c) la differenziazione delle politiche pubbliche secondo le esigenze e le peculiarità locali, (d) l’introduzione di forme di competizione virtuosa tra i territori; a sfavore verrebbero invece in evidenza (a) la perdita dei vantaggi economici derivanti dalle economie di scala garantite da una gestione centralizzata dei servizi pubblici, (b) la maggiore eguaglianza negli standard delle prestazioni pubbliche (specie per sanità e istruzione), (c) la minore esposizione ai rischi derivanti da eventi avversi che possono colpire le economie regionali, (d) la riduzione delle esternalità, indesiderate dalle altre regioni, derivanti da scelte politiche regionali, (e) la riduzione della concorrenza fiscale al ribasso tra i territori, (f) la minore permeabilità degli amministratori a forme di corruzione dovute all’eccessiva vicinanza ai cittadini.
[5] Si tratta oltre che di tutte le materie elencate all’art. 117, co. 3, Cost., dell’organizzazione della giustizia di pace, delle norme generali sull’istruzione e della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
[6] Cfr., in argomento, A. Ferrara, Regionalismo asimmetrico: pre-intesa delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto con il governo Gentiloni, in «Issirfa», 21 marzo 2018 (http://www.issirfa.cnr.it/regionalismo-asimmetrico-pre-intesa-delle-regioni-emilia-romagna-lombardia-e-veneto-con-il-governo-gentiloni-antonio-ferrara.html), dove sono anche consultabili le pre-intese relative alle tre regioni interessante.
[7] G. Viesti, op. cit., p. 24.
[8] Cfr. S. Bartole, Pretese venete di secessione e storica questione catalana, convergenze e divergenze fra Corte costituzionale italiana e Tribunale costituzionale spagnolo, anche con ripensamenti della giurisprudenza della prima, in «Giurisprudenza costituzionale», n. 3, 2015, pp. 939 ss.; F. Conte, La Corte costituzionale sui referendum per l’autonomia e l’indipendenza del Veneto. Non c’è due senza tre. Anche se…, in «Quaderni costituzionali», n. 3, 2015, pp. 759 ss.; G. Ferraiulo, La Corte costituzionale in tema di referendum consultivi regionali e processo politico: una esile linea argomentativa per un esito (in parte) prevedibile, in «www.federalismi.it», n. 20, 2015; R. Romboli, Nota a Corte cost., sent. 118/2015, in «Il Foro italiano», parte I, 2015, pp. 3024 ss.; D. Tega, Venezia non è Barcellona. Una via italiana per le rivendicazioni di autonomia?, in «Le Regioni», nn. 5-6, 2015, pp. 1141 ss.
[9] G. Viesti, op. cit., p. 18.
[10] G. Viesti, op. cit., p. 20, là dove si fa riferimento all’audizione del Presidente Roberto Maroni innanzi alla Commissione parlamentare per le questioni regionali (cfr. Documento conclusivo dell’indagine conoscitiva sull’attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, con particolare riferimento alle recenti iniziative delle Regioni Lombardia, Veneto ed Emila-Romagna, 6 febbraio 2018 (file:///Users/francescopallante/Downloads/News%202018-02-07%20Attuazione_art_116_terzo_comma_Cost_iniziative_Reg_Lombardia_Veneto_Emilia_Romagna_DOCUMENTO_CONCLUSIVO_APPROVATO_06_02_18.pdf), p. 32).
[11] G. Viesti, op. cit., p. 27.
[12] G. Viesti, op. cit., p. 28.
[13] G. Viesti, op. cit., p. 27.
[14] G. Viesti, op. cit., pp. 29-30. Sul punto, sia consentito rinviare a F. Pallante, I diritti sociali tra federalismo e principio di eguaglianza sostanziale, in «Diritto pubblico», n. 1, 2011, pp. 249 ss.
[15] G. Viesti, op. cit., p. 32.
[16] Più diffusamente, G. Viesti, op. cit., pp. 32-33.
[17] G. Viesti, op. cit., pp. 34-35.
[18]Audizione del Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio Giuseppe Pisauro nella V Commissione della Camera dei Deputati, in merito alla distribuzione territoriale delle risorse pubbliche per aree regionali, 22 novembre 2017 (http://en.upbilancio.it/wp-content/uploads/2017/11/Audizione_22_11_2017.pdf), p. 3
[19]Di recente, A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in «Federalismi.it», 28 agosto 2013.
[20] G. Viesti, op. cit., pp. 35 ss.
[21] G. Viesti, op. cit., pp. 49-52.