Autonomia. Tracciato di un lemma nel vocabolario amministrativo italiano dal Settecento alla Costituente
Luca Mannori1
Secondo la percezione comune, ‘autonomia’ – nella sua accezione istituzionale di facoltà di governarsi da sé –, ha un sapore allo stesso tempo nuovo e antico. Nuovo perché il lemma si lega a quella fase recente dello sviluppo istituzionale caratterizzata dal venir meno dello Stato-monolite e della sua pretesa di rappresentare qualsiasi tipo di interesse pubblico-collettivo; ma anche antico, nel suo rinviarci ad un passato antecedente alla affermazione di quello Stato stesso, e dunque a uno scenario nell’ambito del quale è ragionevole attendersi che le relazioni politiche si costruissero tutte all’insegna di un intrinseco ‘autonomismo’. La storiografia giuridica conforta ampiamente questa precomprensione, riservando al nostro concetto un ruolo di primissimo piano nella sua costruzione del passato. Per constatarlo, basta aprire la voce corrispondente della Enciclopedia del diritto Giuffrè, introdotta da una densissima premessa storica a firma di Francesco Calasso nella quale ‘autonomia’ viene indicata come la nozione-cardine che ha permesso, lungo tutto il basso medioevo, d’integrare gli ordinamenti particolari entro la cornice della Respublica Christiana e d’impostare su questa base tutto il rapporto tra ius proprium e ius commune2. Queste pagine risalgono al 1959. Da allora in poi, non solo il termine ha continuato a consolidare la sua posizione nel linguaggio dei medievisti, ma si è imposto anche come un descrittore imprescindibile per affrontare l’esame di un’età moderna segnata sì dalla comparsa dello Stato territoriale, ma anche dal configurarsi di quest’ultimo come grande corpo composito, del tutto incomprensibile finché non se ne colga il carattere congenitamente plurale.
Ciò premesso, va subito aggiunto che tutto questo passato così lungamente e ostinatamente ‘autonomista’ non sapeva, per così dire, di esserlo; e ciò per l’ottima ragione che il lemma corrispondente era sconosciuto al suo lessico politico, così in Italia come altrove. ‘Autonomia’ è infatti termine greco, estraneo a quella compilazione giustinianea su cui si fonda tutto il primo vocabolario giuspolitico occidentale e che si affaccia ben raramente anche nelle altre fonti latine di cui si nutre la cultura dell’età intermedia. L’‘autonomia’ medievale è dunque una costruzione storiografica a posteriori, certo utile a rappresentare l’essenza della spazialità politica premoderna, ma che non apparteneva alla civiltà a cui la riferiamo. Altri, e più variegati, erano stati i linguaggi mediante i quali quella civiltà aveva espresso e difeso il proprio pluralismo territoriale nel corso dei secoli (da quello della ‘iurisdictio’ medievale alla ‘libertas’ del Rinascimento, dal grande discorso dei ‘privilegia’ fino a quello quasi altrettanto ricco dei ‘foedera’ politici): né di essi e delle loro continue rimodulazioni tratteremo in questa sede. Ciò che propongo è invece una breve retrospettiva del termine ‘autonomia’: termine che si affaccia nel lessico politico in epoca abbastanza recente e a cui, in Italia almeno, corrisponde un curioso percorso ‘a singhiozzo’, che solo in tempi a noi davvero vicini ha assunto un andamento più lineare e sicuro. Premetto che l’esame sarà qui centrato essenzialmente sul linguaggio giuridico, pur nella consapevolezza che solo un approccio esteso alla lingua filosofica e al lessico comune potrà fornire uno spaccato davvero esaustivo della fortuna del lemma.
1. Tra Sette e Ottocento
‘Autonomia’ entra nel vocabolario europeo grazie alla storiografia greca che, da Erodoto a Strabone a Plutarco, la impiega per indicare il particolare legame di soggezione politica contratto da alcune città della Grecia e dell’Asia Minore nei confronti di altri centri ad esse sovraordinati. Il termine, tuttavia, che già i primi dizionari greco-latini traducevano con “libertas vivendi propriis legibus” o “suo iure”3, resta a lungo ignoto alla cultura giuridica. E molto circoscritta è anche la sua presenza nel linguaggio degli storici: i quali, pur impegnati di buon’ora a censire le varie tipologie di soggezione politico-territoriale sperimentate nel corso dell’evo antico, lo registrano soltanto con riferimento a quelle città greco-orientali espressamente dichiarate “αΰτόνομαι” dai loro padroni e che quindi potevano fregiarsi di questa qualifica sulle loro mura o sulle loro monete4.
Essa sembra per la prima volta guadagnare una qualche visibilità nel secondo Cinquecento tedesco, nell’ambito del dibattito sulla libertà confessionale in seno all’Impero, quando viene recuperata appunto dai teologi cattolici come strumento di difesa del proprio culto nei confronti dei protestanti5. Di qui, essa transita nel linguaggio degli studiosi di diritto internazionale attraverso un lungo percorso assimilativo che, giunto a piena maturazione nella Germania di primo Settecento, individua nel lemma il veicolo per definire in via generale la condizione di un popolo sottomesso ad un altro, ma al quale la “clementia victoris” ha restituito la capacità di “vivere suo iure” come membro “mediate subiectum” del suo stesso corpo6.
E’ appunto come riflesso di questa fortuna internazionalistica che il lemma si affaccia per la prima volta nel discorso pubblico della nostra penisola grazie all’impegno di alcuni letterati padani di ambiente muratoriano. La vicenda s’inquadra in quella rinnovata riflessione storico-giuridica circa il rapporto tra principe e città sottoposte stimolata dai primi processi di concentrazione istituzionale di cui il nostro paese è testimone e che spingono spesso, in questo periodo, a recuperare varie tradizioni di repubblicanesimo cittadino o ad interrogarsi circa l’identità e i diritti delle ‘nazioni’ regionali sottostanti agli Stati. A questo genere di personaggi appartiene appunto il marchese veronese Scipione Maffei che, allo stato dell’arte, sembra essere stato il primo a introdurre il nostro termine in Italia in un’opera – la Verona Illustrata, del 1732 – volta a tracciare la storia istituzionale degli antichi Veneti dall’età preromana fino a Carlo Magno7. Proprio studiando il rapporto tra le città venete e la Roma repubblicana, Maffei propone una definizione categoriale del concetto greco di autonomia (a lui ben noto grazie ai suoi interessi di epigrafista), costruendolo come una variante minore di ‘ελευθηρία’, cioè di libertà. La tesi maffeiana è che “questi legali nomi non si usarono a caso, e promiscuamente dagli antichi ne’ monumenti, o nelle leggi; ma per significar ciascheduno cosa diversa”8. Liberi, in particolare, erano per i Greci e per i Romani quei popoli che, pur politicamente soggetti ad un’altra città, si mantenevano del tutto esenti dalla giurisdizione di quest’ultima; mentre autonomi venivano chiamati quelli a cui era imposta la presenza di un magistrato giusdicente di nomina centrale, e ai quali quindi era solo lasciato il privilegio di “litigare con le loro leggi” e di amministrarsi mediante propri rappresentanti9. Questa osservazione di Maffei trova un’eco, pochi anni dopo, in un’opera giuridica d’indubbio rilievo – il De ortu et progressu iuris mediolanensis, pubblicata nel 1747 da Gabriele Verri, noto giurista milanese di orientamento conservatore, seriamente preoccupato dall’impatto che le riforme teresiane stanno producendo sulla realtà del vecchio Ducato10. Scopo del volume verriano è appunto quello di dimostrare l’esistenza di un originario diritto territoriale ‘insubrico’ risalente all’età preromana, che i vari padroni succedutisi nel corso dei secoli in Lombardia avrebbero sempre rispettato proprio perché espressione di una terra da sempre riconosciuta come “provincia autonoma”. Riprendendo la distinzione di Maffei, Verri sostiene in sostanza che, se gli “Insubri” hanno perduto la loro “libertas” fin dall’epoca della conquista romana, essi hanno però conservato una “autonomia” che garantisce loro il diritto di “proprios magistratus habere propriisque legibus vivere”11. Categorie e definizioni, queste, che ritroviamo esposte con gran lusso di citazioni e di apparato erudito in un altro contributo, dato alle stampe in francese subito dopo l’opera di Verri da uno studioso di origine torinese, l’abate Ottavio Guasco, che sotto il titolo di Dissertation sur l’autonomie des villes et des peuples soumis à une puissance étrangére12 propone per la prima volta una sua teoria generale dell’autonomia. Pur riconoscendo che i romani non usavano questo termine, Guasco lo utilizza ormai come un descrittore applicabile a tutta quanta l’esperienza della Roma repubblicana e imperiale e rinviene anzi il successo della politica romana nella scelta di legare i popoli sottoposti con una serie di vincoli tipicamente ‘autonomici’ piuttosto che tramite l’assoggettamento diretto. Il libro, per il resto, non ha niente di particolarmente geniale e soprattutto continua a usare il lemma con esclusivo riferimento al mondo antico. Entro quest’ambito erudito, comunque, esso svolge una funzione importante, innescando un dibattito a cui partecipa anche Montesquieu, amico e protettore di Guasco. Il risultato è insomma quello di rimettere in circolo un lemma fino ad allora quasi completamente ignorato tanto dai giuristi che dagli studiosi.
Evidenti sono peraltro anche i limiti di questo primo ‘sdoganamento’ del termine. L’autonomia dei nostri eruditi, nel suo presentarsi esplicitamente come una variante indebolita della libertà degli antichi, non riesce a veicolare un contenuto valoriale univoco. Anzi, in questa prima letteratura le relazioni autonomiche finiscono spesso per apparire più come uno strattagemma funzionale agli interessi del popolo egemone che come un effettivo beneficio per coloro a cui il privilegio viene accordato. “Rien ne prouve tant l’amour des hommes pour la liberté, que les soins qu’ils ont eu de tout tems pour en conserver même les débris” – esordisce Guasco all’inizio del suo trattatello –: l’autonomia essendo appunto l’involucro di questa “vaine illusion” di libertà per la cui difesa, pure, i popoli continuano a versare il loro sangue, trattando come tiranni quelli che spesso non sono che governanti benintenzionati13 . E anche per Maffei, se non per Verri, autonomia evoca una specie di libertà adulterata, come quella anticamente propria dei sudditi provinciali dell’Impero, che questo autore richiama soprattutto per far risaltare a contrario i tratti della vera “libertas” goduta invece da tutti gli antichi popoli italici e in particolare dai suoi Veneti.
E’ forse anche per questo che nei decenni successivi la nostra espressione, pur conoscendo una diffusione molto più ampia rispetto al periodo precedente, non riesce a forzare i confini di un impiego erudito o tutt’al più giuridico-casuistico. Da Francesco Algarotti a Isidoro Alessi, da Ferdinando Galiani a Guido Antonio Zanetti, fino a tutto un sostrato di storici locali impegnati a riscoprire, più o meno strumentalmente, gli antichi privilegi delle loro città, ‘autonomia’ ricorre sempre per evocare un condizione privilegiata di carattere specifico, radicata in un più o meno remoto passato (anche se il suo reperimento è spesso funzionale a supportare rivendicazioni contemporanee dello stesso segno). Questo è del resto il significato su cui il termine pare attestarsi anche nella coeva letteratura francese – a questa altezza certamente la più capace, tra quelle europee, di esercitare un’influenza diretta sul linguaggio politico italiano. Nel 1751, per esempio, il primo volume dell’Encyclopédie alla voce “Autonome” riportava soltanto: “titre que prenaient certaines villes de Grece qui avoient le privilege de se gouverner par ses propres lois”14; e del tutto conforme risultava l’uso del termine da parte di specialisti dell’amministrazione, come Gustave Real de Courban, di repertori giuridici come quello di Denisart o di altre opere enciclopediche generali, quali il celebre Pancoucke15. In particolare, la nostra espressione non esercita il minimo appeal su tutto quel movimento riformatore impegnato, in questi stessi anni, a ripensare il rapporto tra centro e periferia secondo le nuove formule di ispirazione fisiocratica. Benché infatti tale movimento puntasse ad una decisa rivitalizzazione della libertà amministrativa locale, esso procedeva lungo una direttrice lontanissima da quella propria dell’antica autonomia. Per Turgot e per Dupont De Nemours – come, in Italia, per Pompeo Neri o per Pietro Leopoldo di Toscana – non si trattava certo di rinverdire vecchie libertà-privilegio del tipo di quelle evocate dal nostro lemma, ma al contrario di spazzarle via del tutto per sostituirvi un “pariforme sistema” territoriale che riconoscesse il diritto di ogni comunità di gestirsi alla stregua di una specie di condominio fondiario: e ciò in base al presupposto per cui “les soins à prendre pour l’administration des villages sont à peu près de la meme nature de ceux que chacun prend volontiers soi même pour gouverner son propre bien”16. Se ‘autonomia’ veicolava insomma il senso dell’isolamento giuridico della parte rispetto al tutto, i riformatori si muovevano proprio nel senso opposto della ricerca di una libertà fatta d’inclusione e di omogeneità giuridica. Ed esattamente in questa prospettiva continuò a muoversi l’esperienza rivoluzionaria: la quale anzi, proclamando fin dall’inizio il diritto dello Stato nazionale di disporre in assoluta libertà del proprio spazio fisico, introdusse il principio del “territorio tutto uguale”, organizzato secondo una logica puramente funzionalista. Beninteso, anche la Rivoluzione presenta, a modo suo, una componente latamente ‘autonomista’: nel senso che la nuova maglia delle circoscrizioni a carattere statale non ingloba in sé le comunità di primo livello. Le “municipalités”, in sostanza, non sono trattate alla stregua di altrettante “sections d’un même tout”, ma come soggetti portatori di una identità propria – carattere, questo, ben testimoniato dal rispetto tributato dalla Costituente nei confronti dei loro antichi confini. E tuttavia, questa specialità giuridica dell’organismo comunale viene indicata, nel linguaggio rivoluzionario, tramite un’espressione – quella di “pouvoir municipal” – ben più moderna di ‘autonomia’ e soprattutto più consona al nuovo spirito costituzionale, che non può ammettere l’esistenza di potestà normative concorrenti rispetto a quella della rappresentanza nazionale. E’ di “pouvoir municipal”, come quarto potere dello Stato, che parlano Sieyès e i costituenti già a partire dall’89; ed è soprattutto di ‘pouvoir municipal’ che continuano a parlare tutti quei liberali ottocenteschi che, da Constant a Henrion de Pansey, da Odilon Barrot a Barante a Tocqueville, si battono contro l’idra del centralismo napoleonico17.
Nessuna sorpresa, allora, che ‘autonomia’ costituisca un termine non molto presente anche nel discorso pubblico italiano di primo Ottocento, che continua ad usare il vocabolo semplicemente nel senso di “quella troppo sovente vana apparenza di libertà, che lasciavano i Romani ai popoli soggetti”18. Certo, quello stesso discorso, dopo la tempesta rivoluzionaria, è affannosamente in cerca di modelli costituzionali alternativi rispetto a quelli di cui la penisola ha fatto così mediocre prova durante il triennio ‘giacobino’; e, da Cuoco a Romagnosi a Tommaseo, sono in molti ad interrogarsi sulla possibilità di fondare il nuovo edificio della libertà politica non sulla “sabbia molle e disciolta dell’individualità sgranata”, ma su quella “potenza unita, vigente e con costante istinto di libertà che è la persona immortale di una corporazione”19. Almeno fino agli anni Quaranta, però, questo tipo di esigenza non sembra incrociare spesso la storia del nostro vocabolo; il quale viene degnato di ben poca attenzione anche da parte di una storiografia che pure sta riscoprendo con travolgente interesse tutta la vicenda del nostro medioevo comunale. Basti, per tutti, il caso di Sismondi: la cui monumentale Histoire des République italiennes au moyen age, pubblicata tra il 1808 e il 1818, non sembra registrare neppure una sola ricorrenza di ‘autonomia’. In realtà, ciò che il romanticismo liberale italiano va cercando nel medioevo cittadino non è certo l’autonomia così come intesa dagli antiquari quanto piuttosto una libertà dai tratti univoci e dai forti contenuti esistenziali – quella appunto di cui i Comuni hanno goduto nella loro stagione eroica basso-medievale e la cui celebrazione quasi religiosa permette alla cultura patriottica di lenire il senso di frustrazione indotto dalla assenza di una qualsiasi tradizione statual-nazionale.
2. L’Ottocento risorgimentale e liberale
Nonostante tutto ciò, ‘autonomia’ sta silenziosamente preparando una riscossa in grande stile, che comincia a manifestarsi già alla vigilia del ’48, per produrre poi tutti i suoi frutti nei decenni postunitari.
La spinta principale a rilanciare il vocabolo sembra largamente esterna rispetto alla proto-storia che ne abbiamo tracciato fin qui e si lega invece alla strepitosa fortuna che il termine ha nel frattempo acquisito nel linguaggio filosofico, grazie alla nuova definizione kantiana della libertà soggettiva come, appunto, “Autonomie des Willens”. Rovesciando tutta la precedente tradizione sensista, che aveva visto nella libertà la capacità di realizzare senza ostacolo la naturale pulsione di ognuno all’appagamento dei suoi bisogni, l’idealismo affida proprio al termine ‘autonomia’ il compito di esprimere il suo nuovo principio di una libertà intesa come auto-determinazione assoluta e apre quindi al nostro termine un orizzonte ben più ampio di quello, ancora prevalentemente erudito, in cui esso era stato confinato per l’avanti. Si tratta di una rivoluzione semantica da inquadrare in un contesto tedesco in cui il termine indicava da molto tempo, come già accennato, una “libertas credendi” di carattere religioso20; e di qui, probabilmente, la facilità con cui in Germania si iniziò a parlare correntemente di autonomia a proposito della autosufficienza politica spettante ad ogni Stato sovrano nonché, per estensione e su scala minore, anche alle comunità locali21. Di tutto ciò, però, poco era filtrato in un’Italia dove la stessa recezione del kantismo avvenne, com’è noto, con cospicuo ritardo. E tuttavia anche da noi a metà Ottocento, in coincidenza certo non casuale con la frattura quarantottesca, il vocabolario politico si arricchisce di espressioni quali “autonomia nazionale”, “dello Stato”, “politica”, “internazionale”, “religiosa”, “dei popoli”, “italiana”, “universitaria” e così via (uno dei primi ad appropriarsi di questo linguaggio ed a contribuire potentemente alla sua diffusione fu Vincenzo Gioberti, la cui opera più celebre inizia proprio con una solenne definizione del concetto22). Ecco quindi che già negli anni Quaranta si crea un clima favorevole a fare del termine ‘autonomia’ un predicato generale degli enti intermedi, dal momento che esso non evoca più una forma minore e quasi pervertita di libertà, ma l’essenza stessa del vivere libero, propria di ogni soggetto individuale o collettivo. E’ appunto una valorizzazione del lemma di questa natura che si riscontra in alcuni storici-giuristi prequarantotteschi, come Francesco Forti, Federigo Sclopis, Luigi Cibrario o Giuliano Ricci, ai quali risale un primo uso consapevole di espressioni come “autonomia comunale”, “municipale”, “cittadina” o “locale”23. Per quanto ancora legati ad un impiego essenzialmente storiografico del termine (nel dibattito propriamente politico di questi anni, il tema del pluralismo istituzionale continua ad essere declinato essenzialmente richiamandosi al “principio federativo”24) questi autori ne dilatano ormai la capacità referenziale fino a farne una categoria interpretativa fondamentale di tutta la storia italiana. “I comuni – scrive per es. Cibrario con riferimento al medioevo piemontese – formavano una lunga scala; da’ più bassi dove il comune dinotava una piccola terra suddita d’un piccolo principe o barone, o d’un altro comune, v’erano infinite gradazioni di potenza e di libertà, ma anche il più misero comune godea le prerogative dell’autonomia, salvaguardia contro gli abusi dell’autorità”25; mentre Ricci celebra il municipio italiano come quello che più di ogni altro in Europa “seppe acquistare la più perfetta autonomia locale, ed opporre all’amministrazione la reazione più energica, e la più durevole, come la più moderata ed ordinata”26. Nel decennio successivo, dunque, il nostro concetto comincia ad essere maturo per transitare dal linguaggio storiografico a quello politico-amministrativo: anche se questo passaggio sembra compiersi davvero solo all’indomani dell’unificazione, in un contesto finalmente sbarazzato dalle barriere censorie e propiziato dal nuovo credo liberale27. E’ a quest’altezza, finalmente, – auspice una storiografia che ha ormai fatto del lemma uno dei caposaldi del suo vocabolario medievistico28 – che “la teorica dell’autonomia comunale e provinciale” viene riconosciuta come “il cardine di tutte le legislazioni”: “e sebbene varie siano le modalità colle quali essa è attuata per mantenerla in armonia colle condizioni dei vari paesi e il loro genio rispettivo si può dire che chi imprendesse a contrastarla in principio imiterebbe Don Chisciotte, quando combatteva contro i mulini a vento”29. Duplice è il fondamento di questa raggiunta posizione di forza – come duplice è il contenuto semantico (storico e filosofico) di cui il termine si è venuto rivestendo nel corso della sua vicenda pregressa. Da un lato, infatti, riferirsi agli enti locali come a soggetti ‘autonomi’ implica di proclamare la loro precedenza rispetto allo Stato e dunque il carattere intrinsecamente plurale di quest’ultimo, conformemente a quanto insegnato da tutta la tradizione storiografico-erudita precedente; mentre dall’altro ciò equivale a riconoscere che quegli enti stessi sono portatori della medesima ‘libertà di volere’ che contraddistingue lo Stato in quanto ente sovrano e che perciò Comuni e Provincie godono, almeno in principio, di una sorta di parità di rango rispetto ad esso. “Il corpo dello Stato – scrive per es. Lorenzo Meucci – non è un organismo solo e semplice, ma è composto da organismi minori che nella loro autonomia non sacrificano ad esso se non quanto è mestieri a creare l’unità statale”30; ed in questo senso si può ben dire essere lo Stato stesso “una varietà di enti autonomi ridotti ad unità”31. “Le società comunali – chiosa ancora il celebre manuale Astengo –, sebbene incorporandosi con lo Stato abbiano perduto la intiera loro autonomia, hanno però conservato una parte di sovranità che esercitano sotto la dipendenza del potere supremo”32: sì che, parlando di “autonomie locali” (al plurale, come si comincia ora a scrivere comunemente) si evoca in modo immediato il panorama di un tappeto di piccole sovranità originarie, limitate certo dalla necessaria soggezione ad un comune potere centrale, ma non per questo titolari di una autorità qualitativamente diversa da quella propria dell’ente che tutte le abbraccia.
Sembra, dunque, che il termine, in capo ad un sia pur faticoso processo di emersione, si sia ormai guadagnato un solido posto nel gergo amministrativo italiano. Le cose, però, non stanno esattamente così. Se per un verso, infatti, la presentazione dell’autonomia ora richiamata poggia su un basamento “fortemente ideologico”, che rispecchia il continuo refrain anticentralista della società italiana di questi anni, per un altro essa appare anche “giuridicamente incerta”33 e poco capace di superare le affermazioni di principio per funzionare come efficace strumento interpretativo della realtà istituzionale. A denunciare questi limiti si levano già alcune voci degli anni Settanta: come per esempio quella di Costantino Baer in un saggio dedicato appunto alla critica del nostro concetto. Nella cornice dello “Stato moderno”, rileva in sostanza l’autore, ormai dominata tutta dal principio di legalità, la nozione di autonomia non può più essere credibilmente declinata né come una prosecuzione delle libertà territoriali d’antico regime né tantomeno come espressione di una libertà potestativa omologa a quella statale. Chi insiste a leggere le cose in questo modo si scontra con la contraddizione inevitabile “tra le sue aspirazioni e i fatti”, i quali dicono chiaramente che il Comune, “non avendo oggi facoltà di crearsi e di determinarsi il diritto a se medesimo, e di organizzarsi a suo modo, è diventato piuttosto un esecutore delle leggi, ossia un organo dell’amministrazione pubblica dello Stato”34, che non un soggetto ad essa giustapposto. Una presentazione del genere aveva senso nel quadro dello “Stato assoluto” che, non configurandosi come “il vindice del diritto” e il “rappresentante degli interessi generali” della società, stimolava quest’ultima a cercare in se stessa argini efficaci contro il potere centrale: ma oggi che lo Stato non è più un altro da sé rispetto al sociale, si chiede Baer, che valore avrebbe mai una simile strategia?
“Qui sento oppormi che io dimentico essere il Comune un ente morale, formato dalla natura e preesistente allo Stato, con diritti suoi proprii e inerenti alla sua medesima natura di associazione di tutti coloro che dimorano o posseggono in esso. Io sono il primo a riconoscere l’esistenza di cotesti diritti; ma devesi concedermi che solo la legge può determinarli e sanzionarli. Allorché il Comune è entrato a far parte dello Stato, il suo potere legislativo per determinare e sanzionare il diritto è soppresso, per essere affidato a quei poteri che rappresentano gli interessi generali di tutte le Comunità. Per certo le leggi saranno tanto migliori, quanto più riconoscono que’ diritti e li rendono efficaci; … ma a nessun altro che a’ rappresentanti dello Stato dev’essere concesso di farsi autore del proprio diritto”35.
Il termine ‘autonomia’, dunque, riferito agli enti locali, non può più intendersi alla lettera come ‘capacità di autonormazione’; ma nemmeno, più in generale, come diritto a difendere una sorta di separatezza giuridica rispetto allo Stato, giacché le funzioni di quegli enti sono ora inscindibilmente connesse a quelle di quest’ultimo. La vera autonomia, l’autonomia moderna, non è insomma ‘autonomia dallo Stato’, ma ‘autonomia nello Stato’ e ‘per lo Stato’. E’ in sostanza Selfgovernment e Selbstverwaltung, nel senso (pur non poco variegato e spesso contraddittorio) che la coeva dottrina tedesca tende ad attribuire ora a questi vocaboli: cioè collaborazione della società nel suo complesso allo svolgimento di compiti statali (secondo la famosa immagine dell’ordinamento inglese proposta da Gneist) ovvero piuttosto esercizio, da parte dei singoli enti periferici, di una potestà di auto-gestirsi che è però lo Stato ad assegnare loro e anzitutto nel proprio interesse (secondo l’altrettanto nota presentazione labandiana).
Sarà appunto lungo questa direttrice, che potremmo chiamare della ‘autonomia-immedesimazione’, che si incammineranno poco per volta i più autorevoli esponenti della dottrina amministrativistica negli ultimi decenni del secolo. Basti per tutti il riferimento a Vittorio Emanuele Orlando: che nei Principii di diritto amministrativo del 1891, pur individuando ancora nell’autogoverno locale uno dei pilastri dello Stato di diritto, ritiene senz’altro che “le circoscrizioni territoriali, tanto le maggiori come le minori, va[dano] considerate puramente e semplicemente come organi dello Stato, e che tutta la loro attività non sia che conseguenza di una delegazione di poteri che lo Stato fa ad essi”36. Un quadro, questo, in cui l’autonomia si risolve tutt’al più nella scelta dello Stato di far esercitare questi poteri ad organi elettivi piuttosto che a funzionari burocratici (“chiameremo ‘autonoma’ quell’amministrazione locale affidata ad organi… costituiti in seno stesso della comunità come emanazione diretta di essa”, e “‘autonomia comunale’ l’idea generale che vi si riferisce”37) e a proposito del quale qualcuno comincia a sostenere che non sia più possibile spendere credibilmente il termine stesso di autonomia (così per es., sempre nel ’91, Antonio Longo, che ritiene incompatibile il concetto con l’oggettiva, strettissima inclusione di Comuni e Province nel corpo dell’amministrazione generale disposta dal legislatore italiano: “dimostrato che non esiste, per il nostro ordinamento, l’autonomia comunale e che invece gli enti locali non sono che organi sottoposti alla subordinazione gerarchica, ne discende la conseguenza… che un tale ordinamento non consenta l’esistenza di diritti pubblici subbiettivi negli enti locali”38).
3. Da Romano alla Costituente
Del tutto comprensibile, in questa luce, risulta la scelta compiuta dalla nostra dottrina sullo scorcio del secolo di rimpiazzare ‘autonomia’ con un neologismo di conio classico – ‘autarchia’ –, confezionato appositamente per sancire l’assenza di ogni potestà originaria in capo agli enti locali. L’ingresso del lemma nella lingua giuridico-amministrativa, avvenuto a seguito di un percorso insieme geniale e rocambolesco, è stato ricostruito troppe volte per tornarvi ancora39. Basti ricordare che il termine, per quanto non esplicitamente proposto dal suo creatore (il Santi Romano del 1897) come sostitutivo di ‘autonomia’, venne immediatamente recepito in questo senso dalla giuspubblicistica coeva, che lo salutò come la parola lungamente attesa capace di esprimere al meglio la condizione degli enti locali entro la cornice della modernità. Se infatti in quella cornice tali enti “non possono dar leggi a se stessi, ma soltanto amministrarsi liberamente nei limiti e secondo le norme fissate dalla legge”40, è chiaro che, per definire la loro prerogativa essenziale, non di ‘auto-nomia’ bisognerà parlare, ma tutt’al più di semplice ‘auto-comando’, cioè di un potere omologo a quello che lo Stato esercita nell’ambito della propria funzione amministrativa. Né vale dire che chi parla oggi di ‘autonomia’ a proposito dell’organizzazione amministrativa attribuisce al termine “un significato diverso dal letterale, usandolo nel senso di amministrazione e non di legislazione”41. Una tale ridefinizione convenzionale non vale infatti a spogliare la parola di quella ben più ricca aura semantica che le deriva dal suo significato filosofico e che, chiamando in causa una potestà normativa in cui si riassume l’essenza stessa della sovranità, porta inevitabilmente a collocare le comunità minori su un piano molto prossimo a quello dello Stato. Sostituire il ‘νόμος’ con il ben più modesto l’’αρχή’ significa appunto chiarire una volta per sempre che Comuni e Province non sono titolari di alcuna capacità di autodeterminazione assoluta né, quindi, di alcun potere originario, ma che ogni loro attributo potestativo è il necessario prodotto di una delega statale – tanto che autarchia sta, romanianamente, per “amministrazione indiretta dello Stato”, attività che lo Stato svolge tramite persone giuridiche diverse da sé per soddisfare fini propri. Giusto, quindi, è espungere ‘autonomia’ dal piano del diritto positivo per ricacciarla in quel dominio della storia da cui essa è uscita impropriamente solo una quarantina d’anni prima. Quel senso di “sovranità relativa, di partecipazione alla sovranità”42 che il lemma porta iscritto in sé lo rende atto ad evocare un paesaggio pre- o proto-statuale, non certo lo scenario uscito dalla Rivoluzione francese. “Storicamente, il concetto di autarchia si è sviluppato da quello d’autonomia” e ne ha oggi preso felicemente il posto43. Si lasci dunque autonomia agli storici, sgombrando il terreno della contemporaneità da una nozione che più non le appartiene.
Questo invito, accolto dai giuristi dell’età giolittiana con una immediatezza ed un unanimismo che ancor oggi non cessa di stupire, non lo fu ovviamente allo stesso modo da parte dei grandi movimenti di massa: i quali al contrario proprio in quegli anni individuarono nella ‘lotta per le autonomie’ una delle loro più qualificanti e insistite parole d’ordine. Mentre il linguaggio giuridico, dunque, cancella ‘autonomia’ dal proprio lemmario, il termine prosegue trionfalmente la sua corsa nell’ambito del lessico politico, dove gode per un buon venticinquennio di una popolarità che certamente gli era stata ignota nel secolo precedente. Tale biforcarsi della fortuna del lemma è solo in apparenza contraddittorio e rivela piuttosto come la parola si sia ormai caricata per tutti di una fortissima politicità: la differenza essendo che i giuristi ritengono il concetto costituzionalmente incompatibile con la cornice dello Stato moderno-contemporaneo, mentre i vari gruppi mobilitati in suo sostegno ne denunciano la negazione da parte di quello Stato stesso come un intollerabile abuso. Difficile penetrare fino in fondo le ragioni che spinsero la giuspubblicistica italiana verso una chiusura così radicale nei confronti della nostra espressione, sottoscritta senza riserve anche da giuristi ben difficilmente sospettabili di atteggiamenti statolatrici (basti pensare a Silvio Trentin, che ancora nel 1924, poco prima di prendere la via di un esilio che lo avrebbe portato a divenire uno dei padri del pensiero federalista italiano, sentiva il bisogno di spiegare in una importante prolusione come ‘autonomia’ fosse nozione per sua natura incompatibile con la posizione di qualunque ente subordinato e che solo ‘autarchia’ riuscisse ad esprimere esattamente il rapporto tra lo Stato e le collettività minori44). Certo è che, mentre il fascismo assume la teoria degli enti autarchici a fondamento ufficiale delle sue riforme illiberali in materia di governo locale, è solo in sede di comparazione costituzionale che la nostra cultura accademica riesce a mantener vivo un suo interesse per l’autonomia territoriale: come testimonia il saggio di Gaspare Ambrosini del ’33 sulla forma di Stato della repubblica spagnola, celebre per aver affacciato per la prima volta nella nostra letteratura il concetto di Stato regionale44. Le regioni spagnole, nota in sostanza Ambrosini, grazie alla carta del ’31 si qualificano come ‘autonome’ in un senso molto vicino a ciò che erano state le loro progenitrici medievali – esse sono infatti soggetti collettivi che lo Stato non “crea”, ma “riconosce”, configurandole come titolari di “diritti proprii” dei quali il legislatore ordinario non può disporre. E tuttavia, proprio questo riproporre lo schema antico di un ordinamento prestatuale porta l’autore a vedere in una soluzione del genere un “sistema … destinato ad agire solo in una fase transitoria”, per poi sciogliersi necessariamente in uno Stato accentrato o federale46. L’autonomia, insomma, appunto in ragione della sua radice antica, difficilmente può corrispondere per il giurista ad un assetto pienamente compatibile col tempo presente, né tantomeno rappresentare un principio generale di costruzione dello spazio politico.
E’ appunto su posizioni di questo tipo che troviamo ancora schierata la gran parte dei giuristi presenti alla Assemblea Costituente. Nel clima dell’immediato dopoguerra, certo, ‘autonomia’ torna ad essere d’un tratto una delle parole-chiave del lessico politico, con la quale non è possibile ora non confrontarsi seriamente (tra i primi ad accorgersene, com’è noto, è proprio Romano, che nell’aprile del ’45 dedica al lemma una lunga, densa voce del suo Dizionario47). Per la sensibilità dei più, tuttavia, è pacifico che la nozione non possa assurgere a categoria fondativa del nuovo Stato: prova ne sia che per un lungo tratto il linguaggio dei costituenti la impiega cumulativamente ad autarchia, e non in alternativa a quest’ultima. Per Ambrosini stesso, relatore in seconda Sottocommissione del progetto del titolo V, inizialmente solo le regioni, in quanto titolari di una potestà di autonormazione, sono enti autonomi, mentre tutte le altre collettività locali continuano ad essere semplicemente autarchiche – e tali devono rimanere, egli sostiene in polemica con Zuccarini, se non si vuol rischiare un ritorno al medioevo48. Solo nel corso dei lavori, in capo ad un percorso assai tortuoso, si giunse a quella “generalizzazione dogmatica” del concetto (per usare le parole di Luigi Giovenco, uno dei primi commentatori a prospettarsi seriamente tale possibilità49) dalla quale scaturì l’attuale formulazione dell’art. 5. Com’è noto, decisivo per il trionfo di quella formulazione risultò l’intervento personale di Meuccio Ruini, che rivendicò l’appartenenza di ‘autonomia’ ad una tradizione linguistica italiana rispetto alla quale l’autarchia romaniana aveva segnato una “discutibilissima” deviazione; mentre è al repubblicano Tommaso Perassi che si deve la conclusiva ricollocazione dell’articolo, originariamente posto in apertura del titolo V, nell’ambito dei principi generali50. L’esito della vicenda non fu certo casuale e rivela come una parte almeno della dottrina guardasse ormai oltre la forma di Stato prefascista. E tuttavia, si sa, ancora per un buon ventennio autonomia venne tenuta accuratamente ai margini del linguaggio amministrativo grazie a una lettura che la riduceva a potestà normativa indiretta dello Stato, ponendola in parallelo ad autarchia e così facendone semplicemente la sorella povera di quest’ultima51. Per niente turbati dall’accoglimento del lemma in costituzione (“le parole contano poco: occorre intendersi sul loro significato”52) i giuristi della stagione della inattuazione continuarono a far blocco sull’immagine di uno Stato amministrativo che non poteva consentire agli enti locali di sganciarsi dal proprio tronco. Furono singole voci, come quelle di Esposito, di Giannini o più tardi di Benvenuti, a rivendicare al termine, poco per volta, un significato ben più ampio di quello, tutto tecnico, di auto-normazione. Autonomi ex art. 5, spiegano questi giuristi, non sono gli enti “che possano emettere in qualche caso sporadico atti normativi”, com’è da sempre accaduto in una forma o nell’altra, ma solo quelli “posti in grado di disciplinare in concreto tanta materia e in maniera tanto organica che ne sorgano ordinamenti particolari entro l’ordinamento territoriale dello Stato”; ovvero ancora quelli che “siano così fatti e organizzati, e abbiano tanto potere, da assurgere a centro di vita effettiva ed individuata nella vita dello Stato”, potendo così essi esercitare un’azione “rispondente ai principi e alle direttive prevalenti tra gli uomini che vivono sul territorio”53. Il riferimento alla potestà normativa, al gesto del normare, vale dunque come semplice spia di una kantiana capacità di auto-determinarsi inerente ad ogni collettività locale e tale da conferire ad essa il carattere di un ordinamento proprio. Una ridefinizione del lemma, questa, che a sua volta s’innesta su un’immagine del rapporto costituzione/amministrazione ben diversa da quella già propria della tradizione giuridica pre-repubblicana. L’autonomia degli enti minori può essere ora proclamata senza riserve in quanto la nazione non è più costretta a cercare la sua coesione nella monolitica unità dell’amministrazione statale, come ha dovuto fare per quasi un secolo, ma può trovarla in un decalogo di valori costituzionali appositamente predisposti a questo effetto. E’ la costituzione, non l’amministrazione, che, nella nuova cornice repubblicana, tiene insieme e garantisce la tenuta complessiva del corpo sociale. Appunto per questo è possibile ora aprire senza timori la stagione nuova delle autonomie.
Nel complesso, dunque, la fortuna di ‘autonomia’ nel nostro lessico amministrativo sembra radicarsi, in età liberale, alla confluenza di due distinte tradizioni semantiche. L’una, che potremmo definire della ‘autonomia-separatezza’, risale alla prima parte del Settecento e propone un uso del vocabolo abbastanza aderente al suo significato originario, ma appunto per questo incapace di rimuovere dalla sua superficie quella certa opacità che ne aveva accompagnato l’utilizzo nel corso dell’evo antico. L’altra invece, quella della ‘autonomia-libertà’ o della ‘autonomia-autodeterminazione’, è propria del linguaggio filosofico idealista, che riverbera a sua volta sull’uso istituzionale del lemma la straordinaria carica vitale di cui la parola si è nel frattempo arricchita uscendo dal suo campo semantico d’origine e divenendo uno dei termini-chiave del linguaggio della modernità. D’altra parte, proprio la stessa forza evocativa di cui il termine è divenuto ora portatore genera un crescente disagio in chi si trova a riferirlo ad un ambito come quello amministrativo, sempre più refrattario, dalla fine dell’Ottocento in avanti, ad ospitare entro i suoi confini l’idea di una libertà sub-statale di carattere assoluto. Di qui, l’inizio di quella parabola discendente che porterà ad una completa rimozione del vocabolo dal linguaggio giuspubblicistico – salvo il suo progressivo, faticoso recupero da parte di un secondo Novecento segnato dalla dispersione dei ‘centri’ e dal venir meno della immagine dello Stato-persona come unico titolare della libertà di volere.
1. Professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche, Università degli Studi di Firenze
2. F. CALASSO, Autonomia (Storia), in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 349-356.
3. Cfr. ad es. A. TORRESANO, Dictionarium graecum cum interpretazione latina, Venetiis, Manuntio, 1524, p. 28; ma ancora K. SCHREVEL, Lexicon manuale graeco-latinum et latino-graecum, ed. Patavii, Manfrè, 1715, p. 139.
4. Così, per es., il celebre numismatico Ezechiel SPANHEIM, autore, nel 1664, di un De praestantia et usu numismatum antiquorum costituente uno dei primi testi in cui la nozione viene richiamata e discussa con una qualche ampiezza (ed. Londinii–Amstelaedami 1717, vol. I, pp. 683-685).
5. Il riferimento è soprattutto all’opera di F. BURKARD (ma in realtà A. ERSTENBERGER), De autonomia. Das ist Freystellung mehrerley Religion und Glauben, Munchen, Berg, 1586; in generale, sulla parabola del termine in Germania cfr. R. POHLMANN, Autonomie, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, Basel, Schwabe & Co., 1971, pp. 701-719.
6. Così soprattutto S. COCCEJI, Autonomia iuris gentium, sive de discrimine civitatis mediate et immediate liberae, Francofurti, Viadrum, 1718, pp. 19-20, che pare essere il primo ad affrontare una disamina approfondita del concetto in relazione tanto all’esperienza antica che a quella contemporanea (è a quest’opera che sembra doversi riportare anche il disseppellimento di vari altri termini greco–romani destinati a successiva fortuna nel linguaggio amministrativo, come ‘autoteleia’, ‘autotulela’ o ‘autodichia’). Non pare però che il termine si sia immediatamente radicato nel linguaggio degli studi internazionalistici, se è vero per es. che esso non sembra registrare ricorrenze di rilievo in Barbeyrac o in Vattel.
7. S. MAFFEI, Verona illustrata, Parte I, Verona, Vallarsi e Berno, 1732. Sulla genesi e il contenuto dell’opera cfr. per tutti G. P.ROMAGNANI, Scipione Maffei, ad vocem, in Dizionario biografico degli Italiani, vol.67, Roma, Treccani, 2007, pp. 302-310.
8. MAFFEI, Verona, cit., p. 86.
9. Ibidem, p. 86.
10. Per un inquadramento dell’opera si veda F. VENTURI, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Torino, Einaudi, 1969, p. 651-2.
11. G. VERRI, De ortu et progressu iuris mediolanensis, Mediolani, Malatesta, 1747, p. XXXIII: citando Strabone, infatti, l’autore sostiene che tutte le città che fin dall’antichità “in provinciae formam redigebantur, etiamsi libertatem amisissent, tamen suis legibus nequaquam spoliatas fuisse”: e ciò proprio perché “autonomiam a libertate ita distingui, ut qui hac destituti essent, eam servarent”(ibidem). L’autonomia, insomma, era eretta in statuto di diritto comune nei rapporti centro-periferia.
12. L’opera (che qui citeremo dal vol. miscellaneo O. GUASCO, Dissertations historiques, politiques et litteraires, Tournay, Varlé, 1756, vol.I, ove è riprodotta alle pp. 269-314) esce in francese nel 1748 ed è tradotta in italiano nel ’51. Su Guasco, C. PRETI, ad vocem, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 60, Roma, Treccani, 2003, pp. 457-60.
13. Dissertation, cit., pp. 269-70.
14. Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des art set des métiers, vol. I, Paris, Briasson et alii, 1751, p. 897. Ancora più datato era il significato della voce ‘Autonomie’ : “sorte de gouvernement anarchique où le peuple se gouverne par cantons, se donnant des chefs pendant la guerre et des juges pendant la paix”, ma riservandosi di revocarli in ogni momento, come Erodoto riferiva a proposito degli antichi Babilonesi (ibidem).
15. G. REAL DE COURBAN, La science de Gouvernement, Paris, Briasson, 1765, vol.I, pp. 245-49; J.B. DENISART, Collection de décisions nouvelles et de notions relatives à la jurisprudence, vol. VI, Paris, Desaint, 1783, pp. 234-5; Encyclopédie methodique, Liège, Panckoucke, vol. I, 1783, p. 259.
16. Così il celebre Mémoire sur les municipalités di Turgot–Dupont del 1775, in Œuvres posthumes de M. Turgot, Lausanne, s.e., 1787, p.20.
17. Per questa vicenda cfr. per tutti S. MANNONI, Une et indivisible. Storia dell’accentramento amministrativo in Francia, vol. II. A quanto pare, ‘autonomie’ entra nel vocabolario politico francese solo a partire dalla metà del secolo, grazie a studi come quelli di Ferdinand Bechard sull’organizzazione municipale romana, svizzera e statunitense.
18. Così, per tutti, G. FRANCHI–PONT, Dei torsi secusini, in Mémoires de l’Académie impériale des sciences, littérature et beaux arts de Turin, vol. XV, 1805, Turin, Imprimerie de l’Académie Impériale, 1805, p. 503. Ricorrenze di più ampio respiro, non del tutto assenti dal nostro panorama (cfr. ad es. M. DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di San Marino [1804], Firenze, Fabris, 1843, che riferendosi appunto a questo piccolo centro rileva come nel medioevo esso abbia goduto “de’ principali diritti della libertà, quelli cioè dell’Autocrazia e dell’Autonomia, non riconoscendo altra autorità e potere che nel suo popolo, né altre leggi che quelle ch’essi stessi s’imponevano”, vol. I, p. 61), restano comunque marginali nel panorama complessivo.
19. G.D. ROMAGNOSI, Istituzioni di civile filosofia, ossia di giurisprudenza teorica, in Opere, vol. XIX, Firenze, Piatti, 1839, p. 550.
20. Cfr. per tutti J. ZALLINGER, Istitutionum iuris naturalis et ecclesiastici publici libri , Augustae Vindelicorum, Riger, 1784, p. 165: “autonomia est ius cuiusque… ab aliorum hominum iudicio et arbitrio independens sentiendi de religione, ut cuique videtur”.
21. Cfr. C. ROTTECK, C. WELCKER, Staats–lexikon oder Encyclopaedie des Staatswisenschaften, Teil II, Altona, Hammerich, 1835, ‘Autonomie’, pp. 76-84.
22. “Per chiarire in che consista il primato italico, scopo è notare che ogni maggioranza naturale deriva dall’autonomia, per cui un essere sovrasta ad altri esseri e non ne dipende. L’autonomia considerata generalmente importa due prerogative; l’una delle quali consiste nel non pigliare altronde la propria legge; l’altra nel governare gli enti subordinati, comunicando loro la somma delle loro operazioni…”(Del primato morale e civile degli italiani, Bruxelles, Meline, Cans & C., 1843, vol. I, p. 13). Che si tratti di un uso linguistico abbastanza nuovo in Italia è testimoniato, proprio con riferimento a Gioberti, da un noto linguista coevo: F. UGOLINI, Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso, Firenze, Barbera, 1855, p. 254.
23. F. FORTI, Istituzioni di diritto civile adattate all’uso del foro, Firenze, Vieusseux, 1840, vol. I, , p. 379; L. CIBRARIO, Storia della monarchia di Savoia, vol.I, Torino, Fontana, 1840, p. 157; G. RICCI, Del Municipio considerato come unità elementare della città e della nazione italiana, Livorno, Meucci, 1847 (quest’ultimo testo è soprattutto interessante ai nostri fini, sia per la frequenza nell’utilizzo del lemma sia per i contesti in cui compare: è probabilmente qui (p. 117) che per la prima volta esso viene espressamente proposto come equivalente del Selfgovernment inglese).
24. Così ancora, per tutti, il Gioberti del Primato: “il corpo dei municipii è una vera confederazione di repubblichette temperate ad aristocrazia monarchica, e raccolte attorno all’unità dello Stato e della nazione”(ed. cit., vol. I, p. 98).
25. Storia, cit., p. 157.
26. Del Municipio, cit., p. 344.
27. Così, almeno, stando ad una ricognizione lessicografica effettuata su Google Books. Da essa si ricava per es. che un’espressione come “autonomia comunale”, ricorrente solo 30 volte nel decennio 1838–1847 ed esclusivamente in opere di carattere storico, aumenta soltanto di quattro unità in quello 1848–1857 e senza che il suo impiego riferito alla attualità prenda il sopravvento su quello storiografico; solo nel periodo 1858–1867 la stringa s’impenna fino a 127 occorrenze e viene usata ormai in larga prevalenza con riferimento alla realtà istituzionale contemporanea.
28. Per tutti, F. SCLOPIS, Storia delle legislazione italiana, Torino, Utet, 1863, vol. II, con riferimento al Comune italiano.
29. Così, tipicamente, un anonimo collaboratore della “Rivista amministrativa del Regno”, XVIII (1867), p. 771.
30. L. MEUCCI, Instituzioni di diritto amministrativo, [1879] Torino, Bocca, 1892³, p. 165.
31. Ibidem, (?) p. 163.
32. C. ASTENGO, Guida amministrativa, ossia commentario della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865, Milano, Di Giacomo Pirola, 1865, p. 878.
33. Così F. RUGGE, Dottrina tedesca e crisi dell’”autonomismo giuridico” in Italia fra Ottocento e Novecento, in “Amministrare”, XXIII (1993), n. 1, p. 101.
34. C. BAER, L’autonomia de’ Comuni, in “Nuova Antologia”, Serie seconda,, IV (1877), p. 598.
35. Ibidem, p. 597.
36. Principii di diritto amministrativo [1891], Firenze, Barbera, 1892², p. 140.
37. Ibidem, pp. 145-6.
38. A. LONGO, La teoria dei diritti pubblici subbiettivi e il diritto amministrativo italiano, in “Archivio di diritto pubblico”, I (1891), p. 329.
39. Tale ingresso, com’è noto, fu preparato da un repêchage del termine filosofico greco ‘αΰτάκεια’ (cioè autosufficienza) da parte di alcuni giuristi italiani come Filomusi Guelfi (nel 1873) e Malgarini (nel 1883), che lo resero però assai goffamente con l’italiano ‘autarchia’, il quale richiamava piuttosto il corrispondente classico “αΰταρχίa” (cioè, nelle fonti, ‘autocrazia’ o ‘dominio assoluto’). Codacci Pisanelli prima, Romano poi, stimolati dall’incontro casuale con questo lemma, lo applicarono invece in un senso nuovo alla materia degli enti locali, prestandogli il significato (ricavato da un étimo immaginario) di ‘capacità di amministrarsi da se stesso’ , nell’accezione di ‘auto–comandare’ o di ‘auto–disporre’, ed usandolo quindi Codacci come equivalente dell’inglese ‘Selfgovernment’ e Romano come corrispondente alla tedesca ‘Selbstverwalung’ nel senso definito da Mayer e da Laband. Sulla vicenda B. MIGLIORINI, Storia del termine ‘autarchia’ [1934], ora in ID., Saggi sulla lingua del Novecento, Firenze, Sansoni, 1963³, pp. 223–244; G. CIANFEROTTI, Storia della letteratura amministrativistica italiana, I, Milano, Giuffrè, 1998, pp. 679 ss.
40. C.F. FERRARIS, Teoria del dicentramento amministrativo, Milano–Palermo, Sandron, 1898², p. 4.
41. Ibidem, p. 5.
42. T. MARCHI, L’istituto giuridico dell’autarchia, Modena, Tipografica, 1904, p. 86.
43. Ibidem, p. 85.
44. S. TRENTIN, Autonomia – Autarchia – Decentramento, ora in ID., Politica e amministrazione. Scritti e discorsi 1919-1926, a cura di M. Guerrato, Venezia, Marsilio, m1984, pp. 335-373.
45. G. AMBROSINI, Un tipo di Stato intermedio tra l’‘unitario’ e il ‘federale’, caratterizzato dall’‘autonomia regionale’, ora in ID., Autonomia regionale e federalismo, pp. 7-15.
46. Ibidem, p. 13.
47. Frammenti di un dizionario giuridico [1947], Milano, Giuffrè, 1953², pp. 14-30.
48. Seduta del 6 dicembre 1946 (l’intervento è riprodotto in G. AMBROSINI, Relazioni e discorsi parlamentari, Palermo, Ires, 1953, p. 53).
49. L. GIOVENCO, Autarchia amministrativa e governo locale – Cap. VI, in “Corriere amministrativo”, 1946, p. 49.
50. Sulla vicenda E. GUSTAPANE, Profilo storico di un termine giuridico in disuso, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, XXX (1980), pp. 200-10.
51. Sulla contrastata fortuna del concetto tra Costituente e centrismo, P. AIMO, L’idea di autonomia nelle riviste giuridiche (1946–1953), in Le autonomie locali dalla Resistenza alla I legislatura della Repubblica, a cura di P.L. Ballini, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010, pp. 3-44, da cui si evince come gran parte dei tecnici continuino a considerare ‘autonomia’ come una locuzione “volgare”, o quantomeno “poco ortodossa”, se non addirittura come una “pietosa bugia” del costituente, subito smentita dalla dura lezione dei fatti.
52. G. TREVES, Autarchia, autogoverno, autonomia, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, VII (1957), p. 291.
53. C. ESPOSITO, Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art. 5, in ID., La costituzione italiana, Padova, Cedam, 1954, pp. 78-80.