Il caso di una sanzione non proporzionata a un militare per l’esercizio di critica sindacale (nota a Consiglio di Stato, Sez. II, sentenza del 6 giugno 2023, n. 5566)

Giacomo Canale[1]

Sommario:

1. Premessa: il fatto – 2. La complessità della qualificazione giuridica che comporta la pregiudizialità penale nel procedimento disciplinare – 3. L’evoluzione costituzionalistica dell’ordinamento militare – 3.1 La tesi istituzionalistica – 3.2 Il superamento della tesi istituzionalistica – 3.3 Il riconoscimento delle libertà di associazione politica e sindacale – 4. La libertà di manifestazione del pensiero del militare sindacalista – 5. Conclusioni

1. Premessa: il fatto

La sentenza del Consiglio di Stato che si annota (sent., Sez. II del 6 giugno 2023, n. 5.566) è particolarmente interessante per taluni profili relativi all’esercizio della libertà di manifestazione da parte del personale militare, soprattutto nel caso in cui questo abbia anche un ruolo sindacale. Essa, come vedremo, consente di svolgere una riflessione complessiva sullo stato dell’arte in materia e sul ruolo propulsivo esercitato dalla giurisprudenza, e principalmente dal Consiglio di Stato, in favore dell’ampliamento degli spazi di concreto esercizio delle libertà del personale militare.

Al fine di meglio comprendere le questioni che si affronteranno, è opportuno riassumere sinteticamente la vicenda oggetto del contenzioso in argomento.

Un sottufficiale dell’Esercito, il 31 dicembre 2020 inviava, in qualità di Presidente dell’Associazione Nazionale Graduati e Volontari delle Forze Armate e Corpi Militari d’Italia (Assomilitari), una lettera al Presidente della Repubblica Italiana e, successivamente, per conoscenza, a varie testate giornalistiche, a vari Vertici delle Forze Armate e a un numero indeterminato di Deputati e Senatori della Repubblica Italiana. Il Sottufficiale, evidenziando nella lettera la problematica del fenomeno dei suicidi tra gli appartenenti al Comparto Difesa e Sicurezza, ne attribuiva la responsabilità a presunti continui comportamenti vessatori messi in atto da alcuni Comandanti nei confronti delle vittime, sottoposte a situazioni di forte stress e disagio, e giungeva perfino a dichiarare che tutte le denunce, peraltro formali e circostanziate, erano state insabbiate da quelle stesse linee di comando, che avevano imposto una condizione di omertà attraverso una serie di atti mobbizzanti, vessatori, ingiuriosi e minacciosi nei confronti di coloro che avevano osato sporgerle.

Il sottufficiale, inoltre, pubblicava, sui propri profili social, un video nel quale, dopo aver richiamato l’attenzione sui frequenti casi di suicidi nelle Forze Armate e nella Polizia di Stato, opinava che le cause erano spesso da attribuire ad ambienti lavorativi non sereni, caratterizzati da situazioni irregolari o vessatorie.

Tali condotte erano state ritenute gravemente lesive dei doveri inerenti al giuramento prestato, al grado rivestito, alla dipendenza gerarchica, allo spirito di corpo, al senso di responsabilità nonché in aperto contrasto con il contegno esemplare che ciascun militare deve osservare in ogni situazione a salvaguardia del prestigio dell’Istituzione alla quale appartiene. Ciò perché queste erano state poste in essere senza il rispetto dell’obbligo di osservare la via gerarchica e di mantenere la riservatezza necessaria per gli argomenti trattati, in considerazione del tenore gravemente lesivo delle espressioni utilizzate e della assoluta genericità delle accuse mosse, prive del benché minimo riscontro probatorio.

Pertanto, al sottufficiale era stata inflitta la sanzione disciplinare di stato della rimozione dal grado a seguito dell’apposito procedimento svolto nelle more dei numerosi procedimenti penali aperti con riferimento ai medesimi fatti.

Il sottufficiale impugnava il provvedimento disciplinare sostanzialmente per due asserite violazioni e cioè perché il procedimento disciplinare non era stato sospeso, come previsto dall’art. 1.393, comma 1, del D.lgs. n. 66/2010 (Codice dell’Ordinamento Militare – C.O.M.), in attesa delle sentenze penali che erano state tutte di assoluzione del militare e perché riteneva che le critiche formulate erano espressione del suo legittimo esercizio della libertà di manifestazione del pensiero.

2. La complessità della qualificazione giuridica che comporta la pregiudizialità penale nel procedimento disciplinare

Il primo profilo critico concerne, dunque, il rapporto tra procedimento disciplinare[2] e processo penale.

Al riguardo, occorre evidenziare che nella sua formulazione originaria, l’art. 1.393 C.O.M. disciplinava la c.d. pregiudizialità penale, prevedendo che il procedimento disciplinare, avente ad oggetto un fatto per il quale era già stata esercitata l’azione penale, dovesse essere sospeso ovvero, qualora l’azione penale non fosse già stata esercitata, potesse essere promosso solo al termine del processo penale. In altri termini, il procedimento penale aveva sempre la precedenza temporale su quello disciplinare.

La situazione è radicalmente mutata a seguito delle modifiche apportate all’art. 1.393 C.O.M. dall’art. 15 della L. n. 124/2015 e dall’art. 4, comma 1, lett. t) del D.lgs. n. 91/2016, che hanno determinato il superamento di tale necessaria pregiudizialità.

Nella formulazione attualmente vigente, l’art. 1.393 C.O.M. prevede la regola generale secondo cui il procedimento disciplinare deve essere avviato, proseguito e concluso anche nel caso in cui abbia ad oggetto un fatto analogo, in tutto o parzialmente, a quello in relazione al quale l’Autorità giudiziaria ha avviato un procedimento penale. Quindi viene fissata una regola generale opposta a quella della pregiudizialità penale, stabilendo l’autonomia del procedimento disciplinare.

Vi sono, tuttavia, due eccezioni:

  • la prima, disciplinata dall’art. 1.393, comma 1, secondo periodo, C.O.M., a mente del quale ove il procedimento disciplinare abbia ad oggetto l’accertamento di un’infrazione di maggiore gravità (ossia punibile con la consegna di rigore ovvero con sanzione di stato ex art. 1.357 C.O.M.) e l’A.G. ha già esercitato l’azione penale per i medesimi fatti, il primo dovrà essere promosso solo a procedimento penale concluso qualora l’accertamento sia di particolare complessità, ovvero l’Autorità disciplinare non disponga di sufficienti elementi conoscitivi;
  • la seconda, disciplinata dall’art. 1.393, comma 1, terzo periodo, C.O.M., in base al quale l’Autorità disciplinare deve sospendere il procedimento in attesa dell’esito di quello penale, ove abbia ad oggetto atti e comportamenti posti in essere dal militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio.

Nel caso in cui il procedimento disciplinare sia, in applicazione di una delle citate eccezioni alla regola generale, sospeso o non avviato, l’art. 1.393, comma 1, quarto periodo, C.O.M. prevede la possibilità di procedere comunque alla sospensione precauzionale dall’impiego ex art. 916 C.O.M..

In conclusione, come già detto, la novella del 2016 ha ridisegnato il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare nel senso di una più accentuata (quasi totale) indipendenza di quest’ultimo, il cui iter non risulta più essere subordinato alla conclusione del giudizio in sede penale, salvo le limitate eccezioni che dovrebbero comunque essere formalmente motivate.

Nel caso oggetto della sentenza che si annota, già nel primo grado di giudizio il compente Tribunale Amministrativo Regionale aveva ritenuto che vi fosse stata la violazione del comma 1 dell’art. 1.393 C.O.M., in quanto si verteva in un caso di “particolare complessità dell’accertamento del fatto” e quindi si era in presenza di una delle due eccezioni che mantengono la c.d. pregiudizialità penale.

L’Amministrazione militare ha appellato tale motivo, ritenendo invece che il caso non rientrasse nelle due ipotesi derogatorie della regola generale di autonomia del procedimento disciplinare.

Il Collegio ha confermato la statuizione del giudice di primo grado, confortato da una recente statuizione dell’Adunanza plenaria, secondo la quale “in materia di procedimento disciplinare, l’attesa della sentenza conclusiva dell’intero processo penale, onde avviare o riprendere il procedimento sanzionatorio, lungi dal costituire un irragionevole ritardo, costituisce invece una evidente garanzia per la completezza e correttezza del giudizio, e ciò sia in favore del dipendente pubblico (militare) sia in favore non già dell’amministrazione/soggetto, ma del valore costituzionalmente tutelato del buon andamento dell’attività amministrativa; quella medesima esigenza, cioè, che aveva ex ante reso opportuno sospendere il procedimento disciplinare” (Cons. Stato, Ad. plen., 13 settembre 2022, n. 14).

In particolare, il Collegio, dopo avere svolto una ricognizione del dato normativo sopra illustrato, ha rilevato che le due eccezioni – che prevedono la sospensione (o il non avvio) del procedimento disciplinare – alla norma di carattere generale – che sancisce l’autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale – si verificano:

  • allorquando si riscontri o una “particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al militare” o quando l’amministrazione “all’esito di accertamenti preliminari, non disponga di elementi conoscitivi sufficienti ai fini della valutazione disciplinare” (secondo periodo dell’art. 1.393, comma 1, C.O.M.);
  • nel caso in cui il procedimento riguardi “atti e comportamenti del militare nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio” (terzo periodo dell’art. 1.393, comma 1, C.O.M.).

Nella prima ipotesi di eccezione, ciò che rileva – e che rende doveroso per l’Amministrazione di non procedere disciplinarmente – è l’impossibilità o l’estrema difficoltà di raccogliere tutti gli elementi idonei a sostenere una contestazione disciplinare (Cons. Stato, sez. IV, 18 settembre 2018 n. 5451).

In questa ipotesi, ciò che il legislatore intende evitare è un procedimento disciplinare destinato a non concludersi per difetto di elementi suffraganti la responsabilità, ovvero concluso con un provvedimento viziato per difetto di istruttoria o di motivazione.

Nella seconda ipotesi di eccezione, invece, ciò che rileva non è una “difficoltà istruttoria” (che ben può non esservi), quanto la circostanza particolare che le condotte astrattamente costitutive di illecito disciplinare sono commesse “nello svolgimento delle proprie funzioni, in adempimento di obblighi e doveri di servizio”.

In questa ipotesi, il legislatore intende evitare che la “sovrapposizione” di diverse qualificazioni giuridiche del medesimo fatto (il quale può, sotto diversi parametri, contemporaneamente costituire – in via potenziale – sia illecito penale sia illecito disciplinare) porti l’amministrazione ad una valutazione “viziata” del fatto medesimo, potendo essa ritenerlo un profilo, per così dire, connesso e dunque giustificato dal dovere d’ufficio, laddove invece l’accertamento in sede penale e la riconosciuta penale responsabilità del militare recidono il “legame” ipotizzabile tra svolgimento della funzione e atti o comportamenti che – così diversamente contestualizzati – ben possono configurare illecito disciplinare.

Anche in questa ipotesi, dunque, il legislatore intende evitare l’instaurazione di procedimenti disciplinari il cui esito provvedimentale potrebbe essere viziato per difetto di motivazione, ovvero essere basato (nel caso di esito disciplinare assolutorio) su una ritenuta attinenza dell’atto o della condotta ad un dovere di servizio, che, invece, potrebbe essere escluso in sede penale (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2021, n. 1672).

Ciò chiarisce la scelta compiuta dal Collegio che appare condivisibile, avendo stabilito che la complessità per la quale è legalmente necessario sospendere il procedimento disciplinare può concernere non solo la ricostruzione del fatto, ma anche la sua qualificazione giuridica.

Difatti, la definizione di questo aspetto può illuminare l’esatta dimensione dell’illecito disciplinare e dunque della sua conseguente sanzione. Nel caso in argomento l’assoluzione del sottufficiale in tutti i procedimenti penali, militari e ordinari, scaturiti dalla vicenda sembra dimostrare l’eccessiva sproporzione della sanzione inflitta (rimozione del grado) rispetto ad una condotta penalmente irrilevante.

In definitiva, viene chiarito che la complessità può riguardare anche l’esatta qualificazione giuridica di illeciti semplici nella loro dimensione fattuale. In tali ipotesi, sembra, infatti, opportuna la scansione prevista dalla pregiudizialità penale, onde evitare una valutazione disciplinare abnormemente difforme dal giudicato penale, soprattutto nei casi in cui la sanzione disciplinare di stato che può essere comminata assume profili marcatamente sanzionatori come nel caso in esame.

Si può, infatti, ritenere, come peraltro in conclusione fa intendere lo stesso Collegio, che se le risultanze del procedimento disciplinare fossero state meno severe e si fosse rimasto nell’ambito delle sanzioni disciplinari di corpo (richiamo, rimprovero, consegna e consegna di rigore), verosimilmente le valutazioni avrebbero potuto essere diverse, poiché le sanzioni di corpo sostanzialmente hanno uno scarso carattere afflittivo, soprattutto per una categoria, i sottufficiali, la cui carriera è principalmente costituita da promozioni per anzianità.

3. L’evoluzione costituzionalistica dell’ordinamento militare

Il punto principale della decisione in esame, però, riguarda la possibilità o meno di inquadrare la lettera inviata come legittimo esercizio del diritto di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost. da parte di un militare, nonché presidente di un’associazione sindacale militare. A tale riguardo, sembra opportuno premettere alcune considerazioni sul rapporto tra ordinamento militare e ordinamento generale in considerazione delle conseguenze che ciò determina anche per i profili di stretto interesse della pronuncia in argomento.

3.1 La tesi istituzionalistica

Come è noto, infatti, tradizionalmente la condizione militare è stata considerata emblematica di fortissime restrizioni delle libertà a causa della specificità dei compiti istituzionali delle Forze Armate. Ciò ha per lungo tempo favorito l’egemonia di una concezione, c.d. “tesi istituzionalistica”[3], dell’ordinamento militare, secondo la quale quest’ultimo era un ordinamento assolutamente speciale con regole proprie, derogatorie anche dei principi generali dell’ordinamento comune.

Tale tesi, come vedremo, oggi è ormai stata superata, ma essa è stata sostanzialmente prevalente durante una significativa parte della stagione repubblicana, favorendo l’affermarsi di una prospettiva “segregazionista” dell’ordinamento militare, percepito come connesso ma separato dal quadro valoriale ordinario.

Ciò può agevolare la comprensione della tendenziale marginalità della condizione militare, testimoniata anche dal progressivo processo di smilitarizzazione delle Forze di polizia, che ha inizio con la legge n. 121/1981 (Polizia di Stato).

In definitiva, prevale per lungo tempo una visione generale che tende a ridurre la condizione militare ad atavico status contraddistinto dalla notevole compressione delle libertà, ma che viene in qualche modo tollerato in virtù della sua limitata estensione numerica, riguardando i soli militari di carriera, mentre per la restante parte della popolazione militare (i coscritti), ciò avviene solo per un tempo molto limitato e dunque il sacrificio può essere considerato proporzionato al superiore scopo della difesa della Patria.

Questo è il contesto nel quale prospera la tesi istituzionalistica, la quale affievolisce significativamente lo spazio delle libertà dei militari, in quanto, sulla base di essa, il bilanciamento tra efficienza operativa dello strumento militare e esercizio dei diritti dei militari è svolto in modo unidirezionale in favore del primo e il sacrificio dei diritti di libertà è celato dietro ad una limitazione del loro esercizio che però è sostanzialmente pressoché totale.

Naturalmente, l’avvento della Costituzione avrebbe dovuto comportare il superamento di questa tesi, ma ciò è avvenuto molto gradualmente anche in virtù di quel noto fenomeno di “vischiosità”[4] delle formule giuridiche e delle dottrine di cui la storia e la pratica del diritto di tutti i tempi offrono larga e significativa testimonianza, secondo il quale determinati concetti continuano a sopravvivere anche quando vi è un trapasso di regime informato a principi e valori antitetici che farebbero presumere il contrario.

Infatti, malgrado il palmare tenore della disposizione dell’art. 52, 3° co., Cost., (“l’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”), l’ordinamento militare per lungo tempo ha continuato ad avere connotati di specialità non sempre pienamente informati allo spirito democratico dell’ordinamento[5], soprattutto, per l’appunto, con riferimento alle gravose limitazioni dell’esercizio delle libertà costituzionali previste per il personale militare[6].

3.2 Il superamento della tesi istituzionalistica

Il clima inizia lentamente a mutare quando il legislatore traduce l’esigenza di informare l’ordinamento delle Forze Armate al carattere democratico dell’ordinamento generale con l’approvazione della Legge 11 luglio 1978, n. 382 (“Norme di principio sulla disciplina militare”), la quale costituirà la base del futuro regolamento di disciplina militare (Decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 1986, n. 545) che introdurrà un radicale cambiamento nel mondo militare così fieramente attaccato alle tradizioni.

Si pone, dunque, una base sulla quale poi sviluppare un percorso evolutivo di piena integrazione ordinamentale che può dirsi ormai quasi integralmente compiuto, ma che allora, appunto, muoveva i primi timidi passi in un contesto di generale sfavore per la condizione militare di cui si è già detto.

In particolare, si esplicita il principio che ai militari spettino i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai cittadini, con la sola precisazione che per garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate la legge impone ai militari limitazioni nell’esercizio di alcuni di tali diritti, nonché l’osservanza di particolari doveri nell’ambito dei princìpi costituzionali. Si specifica, dunque, che le limitazioni nell’esercizio di diritti e delle libertà dei militari devono avere fondamento legislativo e, soprattutto, essere connesse con l’assolvimento delle funzioni[7]. Si delimita, altresì, l’ampiezza del dovere di obbedienza del militare, la quale secondo una secolare tradizione era totale e incondizionata[8], con la previsione che gli ordini devono essere conformi alle norme in vigore, attenere alla disciplina, riguardare il servizio e non eccedere i compiti di istituto e che al militare a cui viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce comunque manifestamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare al più presto i superiori. E la circostanza che tale precisazione appaia al lettore contemporaneo un’ovvietà ci indica plasticamente il percorso compiuto rispetto ad un tempo relativamente recente in cui era sentita pressante l’esigenza, allora rivoluzionaria, di prevedere espressamente questa odierna “ovvietà”.

Si afferma, inoltre, il principio di neutralità politica delle Forze Armate, con conseguente esplicitazione del divieto di partecipare a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative quando si è in una delle condizioni di applicazione della disciplina militare, cioè quando si è in servizio, in caserma, se si indossa un’uniforme o se ci si qualifica espressamente come militari. Ma ciò comporta logicamente che quando non si versa in una di queste condizioni, vengono meno le ragioni del divieto. Lo stesso schema di formulazione negativa è seguito per la libertà di riunione con la previsione del divieto di riunioni non di servizio nell’ambito dei luoghi militari o comunque destinati al servizio o comunque assemblee o adunanze di militari che si qualifichino esplicitamente come tali o che siano in uniforme.

Va particolarmente evidenziato, invece, come sin da allora la riforma abbia previsto una disciplina di ampio favore per l’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero e della libertà di culto, attraverso una formulazione positiva secondo la quale i militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione, e possono liberamente professare qualsiasi credo, esercitarne il culto e ricevere l’assistenza dei loro ministri, compatibilmente con le esigenze di servizio.

Viene, invece, confermato l’assoluto divieto di esercizio del diritto di sciopero, nonché di costituire associazioni professionali a carattere sindacale, aderire ad altre associazioni sindacali, ma con la previsione dell’introduzione della rappresentanza militare, cioè di organismi di vario livello i cui componenti sono eletti dai militari sulla base della categoria di appartenenza (ufficiali, sottufficiali e militari di truppa) deputati a trattare determinate materie connesse al benessere del personale militare.

Quest’ultima previsione era particolarmente innovativa e ha dato molti buoni frutti, creando una consolidata consuetudine con le logiche della rappresentanza nel mondo del lavoro, anche durante la vigenza del divieto di libertà sindacale.

Già da questi brevi cenni, si può intuire che la frontiera più avanzata delle conquiste delle libertà riconosciute ai militari è stata rappresentata nel nostro ordinamento dalla libertà di associazione politica e sindacale, perché fortissime erano le resistenze al loro esercizio, a causa della ritenuta equipollenza, per lungo tempo, tra la scelta sindacale e quella politica. Si presumeva, infatti, che «i sindacati così detti liberi debbono necessariamente agire nell’ambiente stesso in cui operano le grandi organizzazioni d’obbedienza politica, e non possono restarne avulsi né ignorarlo, sotto pena di rendere sterile la loro funzione» (Cons. Stato. Ad. Plen., 4 febbraio 1966, n. 5). Da siffatta equipollenza, si deduceva che la sindacalizzazione dei militari avrebbe comportato la loro politicizzazione con il rischio di ledere il principio di neutralità politica delle Forze Armate e delle Forze di polizia, allora tutte ad ordinamento militare, con i conseguenti timori per la tenuta del regime repubblicano.

Dunque, non sorprenderà scoprire che proprio sul terreno della libertà di associazione politica e sindacale siano stati compiuti i più recentissimi progressi relativamente alle libertà esercitabili dai militari, al punto che oggi tale condizione non rappresenta più uno status regressivo quanto piuttosto una qualità che esprime specifiche competenze. Ed è facilmente intuibile come il riconoscimento delle due predette libertà finisca con l’ampliare notevolmente lo spazio di esercizio della libertà di manifestazione del personale militare, poiché l’esercizio delle anzidette libertà associative spesso presuppone l’espressa manifestazione del pensiero anche sotto forma del diritto di critica, cioè di quella forma che nella superata tesi istituzionalistica sarebbe stata difficilmente ammissibile.

3.3 Il riconoscimento delle libertà di associazione politica e sindacale

La novella legislativa menzionata apre idealmente una nuova stagione per l’ordinamento delle Forze Armate. Si ha infatti il definitivo espresso superamento della tesi istituzionalistica nella giurisprudenza costituzionale. In particolare, si afferma che «la Costituzione repubblicana supera radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare e, ricondotto anche quest’ultimo nell’ambito del generale ordinamento statale, particolarmente rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppur no, definitivamente impedisce che la giurisdizione penale militare si consideri ancora come “continuazione” della “giustizia disciplinare” dei capi militari, tesa a garantire e rafforzare l’ordine e la gerarchia militare contro le violazioni più gravi». (Corte cost. 23 luglio 1987, n. 278).

Ma questa affermazione, ampiamente condivisibile e che fornisce nuovo vigore alla tutela delle libertà esercitate dai militari, non ha ancora un suo compiuto svolgimento, restando ancora escluse alcune libertà, cioè quelle associative, il cui esercizio, anche in forma limitata e condizionata, è considerato strutturalmente incompatibile con i compiti delle Forze Armate e indirettamente condiziona anche la libertà di manifestazione del pensiero esercitabile dal personale militare.

Infatti, con riferimento alla libertà sindacale, la stessa Corte costituzionale stabilisce ancora alla fine dello scorso millennio che «il rilievo che la struttura militare non è un ordinamento estraneo, ma costituisce un’articolazione dello Stato che in esso vive, e ai cui valori costituzionali si informa attraverso gli strumenti e le norme sopra menzionati, non consente tuttavia di ritenere illegittimo il divieto posto dal legislatore per la costituzione delle forme associative di tipo sindacale in ambito militare. Se è fuori discussione, infatti, il riconoscimento ai singoli militari dei diritti fondamentali, che loro competono al pari degli altri cittadini della Repubblica, è pur vero che in questa materia non si deve considerare soltanto il rapporto di impiego del militare con la sua amministrazione e, quindi, l’insieme dei diritti e dei doveri che lo contraddistinguono e delle garanzie (anche di ordine giurisdizionale) apprestate dall’ordinamento. Qui rileva nel suo carattere assorbente il servizio reso in un ambito speciale come quello militare (art. 52, primo e secondo comma, della Costituzione)» (sent. n. 449/1999).

Possiamo percepire le contraddizioni tipiche delle fasi di transizione che contraddistinguono i radicali cambiamenti, in quanto, da un lato, vi è la solenne proclamazione del riconoscimento dei diritti fondamentali dei militari, dall’altro lato, permangono alcune riserve sull’esercizio in concreto delle libertà di associazione politica e sindacale, ritenute potenzialmente pericolose per la compattezza dello strumento militare.

Ma negli ultimi anni proprio su queste due principali libertà si assiste a un radicale mutamento che è stato promosso dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale.

Al riguardo, la pronuncia n. 5845/2017 del Consiglio di Stato, IV Sez., in materia li libertà di associazione politica, ha stabilito che la mera iscrizione, non anche l’assunzione (vietata) di cariche statutarie poiché incompatibili col divieto di neutralità, di un appartenente alle Forze Armate ad un partito politico costituisce, allo stato attuale della legislazione, un comportamento lecito che in nessun caso può essere stigmatizzato dall’Amministrazione militare. Mentre la pronuncia n. 120/2018 della Corte costituzionale in materia di libertà sindacale (anche se occorre evidenziare che il giudice rimettente è sempre il Consiglio di Stato[9]), ha stabilito l’illegittimità costituzionale del solo divieto di costituire associazioni sindacali tra militari e non anche quello di aderire ad altri sindacati[10].

Ed è la stessa Corte costituzionale a evidenziare la rilevanza teorica delle due pronunce sulla tematica in argomento, in occasione della pronuncia n. 170/2019 sull’assorbimento del Corpo forestale nell’Arma dei Carabinieri quando di fronte all’accusa che l’intervento legislativo aveva previsto un coattivo peggioramento della condizione degli effettivi del Corpo forestale divenuti per legge militari, la Corte sdrammatizza la questione, osservando che «la specificità dell’ordinamento militare rispetto a quello civile è stata in parte mitigata dalla recente sentenza di questa Corte n. 120 del 2018, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1.475 C.O.M., il quale non consentiva ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale, nonché dalla giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, sezione IV, 12 dicembre 2017, n. 5845), che ha riconosciuto il diritto di iscrizione ai partiti politici e di elettorato passivo ai militari, con l’unico limite dell’assunzione di cariche statutarie»[11].

Come è stato già evidenziato, il riconoscimento delle predette libertà associative svolge inevitabilmente un ruolo di ampliamento dello spazio effettivo di esercizio della libertà di manifestazione del pensiero del personale militare, perché la legittima appartenenza di un individuo ad un’associazione politica o sindacale è già di per sé un concludente esercizio della stessa e spesso è prodromica alla manifestazione espressa, per scritto o oralmente, del proprio pensiero, facoltà resa molto più frequente dallo sviluppo delle varie piattaforme social (Facebook, You Tube, X, Linkedin ecc.).

Un’ulteriore conferma di quanto detto, si rinviene nella legge 28 aprile 2022, n. 26 (“Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo”), la quale ha disciplinato organicamente le associazioni sindacali militari che comunque la citata pronuncia della Corte costituzionale aveva reso immediatamente operative attraverso la rinvenibilità immediata nell’ordinamento nazionale di condizioni e limiti all’esercizio del diritto di associazione sindacale militare[12].

In particolare, limitatamente al profilo della libertà di manifestazione del pensiero, l’art. 14 della menzionata legge n. 46/2022 recita che:

“I militari che ricoprono cariche elettive nelle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari riconosciute rappresentative a livello nazionale (…):

a) non sono perseguibili in via disciplinare per le opinioni espresse nello svolgimento dei compiti connessi con l’esercizio delle loro funzioni, fatti salvi i limiti della correttezza formale e i doveri derivanti dal giuramento prestato, dal grado, dal senso di responsabilità e dal contegno da tenere, anche fuori del servizio, a salvaguardia del prestigio istituzionale; (…)

d) possono manifestare il loro pensiero in ogni sede e su tutte le questioni non soggette a classifica di segretezza che riguardano la vita militare, nei limiti previsti dalla presente legge e nelle materie di cui all’articolo 5; possono interloquire con enti e associazioni di carattere sociale, culturale o politico, anche estranei alle Forze armate e alle Forze di polizia a ordinamento militare, e partecipare a convegni e assemblee aventi carattere sindacale, nei modi e con i limiti previsti dalla presente legge;

e) possono inviare comunicazioni scritte al personale militare sulle materie di loro competenza, nonché visitare le strutture e i reparti militari presso i quali opera il personale da essi rappresentato quando lo ritengono opportuno, concordandone le modalità, almeno trentasei ore prima, con i comandanti competenti”.

Sembra evidente che la problematica dei limiti all’esercizio della libertà di manifestazione del pensiero del personale militare che abbia un ruolo sindacale debba tenere conto di detta disposizione che integra il dettato costituzionale e ordinario già vigente.

4. La libertà di manifestazione del pensiero del militare sindacalista

Ciò chiarito, occorre evidenziare che la pronuncia che si annota non tiene conto di questo sviluppo normativo, perché il fatto è precedente all’entrata in vigore della legge sui sindacati militari e si basa esclusivamente sulle norme previgenti, anche se non si può escludere che la conoscenza dello sviluppo normativo non abbia agevolato le conclusioni cui il Collegio è giunto, nella misura in cui la consapevolezza dell’orientamento sistematico di un ordinamento può aiutare l’interprete nella risoluzione dei casi concreti.

Nel caso in argomento, dunque, il Collegio ha fatto espresso riferimento all’art. 21 Cost. e alla disciplina eurounitaria (art. 11, comma 1, della Carta diritti fondamentali UE, secondo cui “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”), nonché, infine, a quella europea (art. 10, comma 1, della Convenzione EDU, a mente del quale “Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”).

Peraltro, va evidenziato che la medesima Sezione del Consiglio di Stato su una analoga vicenda (sentenza n. 1.905/2022) aveva stabilito che se, da un lato, negli ordinamenti liberali — al novero dei quali quello italiano va ascritto, quantomeno in ragione della sua adesione alle testé evocate organizzazioni e convenzioni internazionali — in linea di principio non è vietato al cittadino avere opinioni personali di qualsiasi contenuto, anche dissonante dai principi costituzionali fondanti, né esprimerle, purché continentemente e comunque sempre con modalità non apologetiche, neppure v’è dubbio, che più stringenti limiti, anche in punto di espressione di tali opinioni, possano essere imposti ai militari in servizio e ad alcune categorie di pubblici funzionari; sicché tale oggettiva ed astratta riconducibilità della condotta del militare all’evocato principio fondamentale non vale ex se ad escludere la possibile rilevanza disciplinare della stessa, in considerazione dei limiti che il suo perimetro applicativo sopporta.

Limite applicativo che per il personale militare in generale si incontra nella disposizione ordinaria che attua l’art. 21 Cost. e cioè l’art. 1.472 C.O.M.. Esso, difatti, recita così: “1. I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione. 2. Essi possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica. 3. Nei casi previsti dal presente articolo resta fermo il divieto di propaganda politica”.

In linea generale, si può quindi sostenere che la disciplina prevista per l’esercizio della libertà di manifestazione del personale militare è ampiamente garantistica e i limiti che pone (l’autorizzazione nelle ipotesi di argomenti a carattere riservato di interesse militare o di servizio e il divieto di propaganda politica) appaiono ragionevoli, proporzionali ed equilibrati e dunque idonei a superare un eventuale scrutinio di legittimità costituzionale.

Naturalmente, i problemi possono sorgere in concreto nella esatta specificazione dei suddetti limiti. In particolare, sembra pacifico in dottrina e giurisprudenza che il carattere riservato non comporta necessariamente il possesso di una delle classificazioni legali di riservatezza. Anche la pubblicazione di scritti contenenti informazioni rappresentati in documenti non classificati può richiedere l’autorizzazione, qualora ciò possa compromettere l’assolvimento di determinati compiti delle unità militari o la loro sicurezza. Mentre sembra pacifico che la manifestazione di pensiero relativa ad argomenti di interesse militare ma di natura esclusivamente storica non richiedono nessuna autorizzazione, poiché non verrebbe in rilievo nessuno specifico interesse militare concreto e attuale. Ciò sempre nella prospettiva che i limiti all’esercizio delle libertà costituzionali devono avere un loro obiettivo fondamento funzionale, onde evitare una ingiustificata disciplina in peius del personale militare.

Anche il divieto di propaganda politica va declinato nella sua concretezza perché va contemperato con il riconoscimento della liceità per il militare di iscriversi a partiti politici e dunque di esprimere, anche pubblicamente il suo sostegno. Sembra evidente che il divieto faccia principalmente riferimento al divieto di compromettere la neutralità politica delle forze armate e, dunque, esemplificativamente il divieto di tenere assemblee politiche in caserma, il divieto di diffondere in ambienti militari scritti di propaganda politica ecc..

In tal senso, sembra vi possa essere una differenziazione funzionale dei limiti all’esercizio delle libertà costituzionali[13], la quale comporti che vi siano limiti più severi per determinate categorie di personale in funzione del grado o dell’incarico ricoperto. Ciò può valere anche per la manifestazione del libero pensiero quando, ad esempio, vengano in rilievo militari investiti di una elevata funzione di rappresentanza istituzionale o con compiti/ruoli particolari.

Nel caso del sottufficiale destinatario della sanzione disciplinare della rimozione dal grado, va necessariamente evidenziato che egli ricopriva un ruolo sindacale in quanto presidente di una associazione sindacale militare legalmente riconosciuta[14]. Sembra quindi evidente che un rappresentante sindacale abbia uno spazio di manifestazione del pensiero sufficientemente ampio per svolgere il suo ruolo che notoriamente può comportare anche dei momenti di aperta conflittualità con l’organizzazione di appartenenza. A maggiore ragione, a noi sembra che ciò possa avvenire quando si siano verificati un significativo numero di suicidi in caserma, cioè in luoghi di lavoro. Ciò, infatti, suscita allarme perché il personale militare è selezionato sulla base di severi accertamenti psico-fisici che proseguono periodicamente durante l’intera carriera militare. Stupisce, dunque, registrare un elevato numero di episodi di autolesionismo letale in persone in buone condizioni di salute generale e spesso anche giovani. Pertanto, non sembra eccessiva la denuncia di un rappresentante sindacale di condizioni ambientali particolarmente stressanti quale possibile fattore di concausa di questo fenomeno, soprattutto se relativo ad un determinato e circoscritto ambito lavorativo.

Peraltro, il Collegio giustamente osserva che le forme irrituali della denuncia del militare e il mancato rispetto della scala gerarchica tuttalpiù avrebbero potuto determinare l’inflizione di sanzioni disciplinari di corpo, cioè sanzioni tipicamente militari dalla ridotta carica afflittiva[15]. Per intendersi, la rimozione dal grado per la denuncia di un rappresentante sindacale del fatto che si siano avuti troppi suicidi nelle caserme di una unità militare appare sproporzionato e irragionevole, soprattutto in considerazione del fatto che i toni, talvolta anche offensivi, della denuncia non hanno assunto una rilevanza penale, rimanendo dunque nell’ambito penalistico del diritto di critica e potendo quindi, come già evidenziato, essere sanzionati disciplinarmente in modo significativamente più lieve.

D’altronde, dovrebbe essere a tutti chiaro che il riconoscimento di libertà associative fondamentali, come quella sindacale, può determinare anche un clima di accesa conflittualità con l’organizzazione datoriale e/o l’Amministrazione di appartenenza e ciò dovrebbe comportare che anche la valutazione delle manifestazioni di pensiero critico ne tengano debitamente conto, salvo i limiti che la giurisprudenza penale ha nel tempo consolidato al riguardo a tutela della dignità e dell’onorabilità di persone fisiche e giuridiche.

5. Conclusioni

In conclusione, pare opportuno evidenziare alcuni dati evolutivi di particolare interesse teorico che anche questa pronuncia sembra confermare.

In primo luogo, si osserva il sempre più frequente ricorso al parametro di fonti sovranazionali per l’ampliamento delle libertà riconosciute ai militari[16], talvolta, come nel caso delle due sentenze summenzionate sulle libertà associative, per il superamento di consolidate posizioni di netta chiusura motivate sulla base delle disposizioni costituzionali. Si pensi, paradigmaticamente, alle libertà di associazione politica e sindacale riconosciute ai militari, che in passato sarebbero state ritenute espressive della sovranità nazionale con conseguente esclusione di qualsiasi rilevanza alle fonti esterne. Oggi, invece, assistiamo al fenomeno contrario ed è paradossale che i giudici italiani trovino soluzioni favorevoli all’esercizio concreto delle libertà fondamentali esercitabili dai militari più conformi ai valori e principi costituzionali in virtù del parametro di fonti sovranazionali[17].

In secondo luogo, si osserva il ruolo di promotore delle libertà riconosciute ai militari, ma non solo, svolto principalmente dalla giurisdizione. E anche questo è un aspetto molto singolare rispetto alla tradizione costituzionale liberaldemocratica, nella quale la rappresentanza politica ha storicamente svolto il ruolo di artefice dei diritti e delle libertà dei cittadini. Oggi, invece, sempre più spesso questo ruolo è esercitato dalle diverse Corti, nazionali e sovranazionali. E nel caso del personale militare, per ovvie ragioni di riparto di giurisdizione, è la giurisprudenza amministrativa a svolgere un ruolo determinante. Anche la sentenza in commento contribuisce significativamente a rafforzare le libertà del personale militare, perché dopotutto la dimensione della tutela effettiva è essenziale in materia di libertà, affinché queste non divengano vuoti simulacri di solenni declamazioni.

Infine, si può osservare che gli orientamenti giurisprudenziali citati e i conseguenti sviluppi normativi hanno operato una sostanziale inversione della condizione militare. Questa non è più percepita come tendenzialmente marginale per la notevole compressione delle libertà gravante sul personale. Anzi, per l’appunto, sembra di essere in presenza di una significativa inversione di tendenza nella quale la condizione militare esercita una decisa forza attrattiva proprio alla luce delle ridotte differenze sostanziali in tema di esercizio delle libertà fondamentali con la condizione comune, come indicato nella citata pronuncia della Corte costituzionale sull’assorbimento del Corpo Forestale nell’Arma dei Carabinieri. Si tratta della prima volta repubblicana in cui si ha l’inquadramento di una forza di polizia ad ordinamento civile in una ad ordinamento militare in marcata controtendenza con le linee evolutive ordinamentali del nostro recente passato e può rappresentare un momento di autentica svolta ordinamentale, ma prima ancora culturale.

E, difatti, la sentenza in commento testimonia il cambio di paradigma, in quanto qualche tempo fa sarebbe stata impensabile una soluzione del genere e la dura sanzione disciplinare di stato sarebbe stata considerata legittima. Oggi le Forze Armate sono cambiate ed è mutato notevolmente il loro posizionamento nell’ordinamento generale. Possiamo dire che le Forze Armate hanno maturato una solida coscienza democratica che consente loro di assolvere i compiti istituzionali con la massima operatività, conformando la loro vita alle fisiologiche tensioni delle organizzazioni delle società liberaldemocratiche, tra le quali vanno senza dubbio annoverate le manifestazioni, anche aspre (e talvolta sgradevoli), della libertà di critica sindacale.

  1. Dottore di ricerca in diritto pubblico. Consigliere della Corte costituzionale, già Ufficiale dell’Esercito Italiano.
  2. Per l’approfondimento della problematica sui procedimenti disciplinari militari, si rinvia alla guida tecnica della Direzione Generale del Personale Militare del Ministero della Difesa consultabile al seguente link: Guida_tecnica_disciplina_anno_2021.pdf
  3. Per tale concezione, si veda A. Tesauro, Il diritto disciplinare nel sistema del diritto pubblico, in Rassegna di diritto pubblico, 1961, pagg. 197 ss.; G. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Giuffrè, 1967, pagg. 273 ss.; G. Morbidelli, Lo spirito democratico e il servizio militare, in Foro amministrativo, 4-5, 1970, II, pp. 982 ss.; F. Modugno, L’ordinamento militare è in estinzione?, in AA. VV. (a cura di), Studi in onore di Vittorio Bachelet, Giuffrè, 1987, I, pagg. 451 ss..
  4. R. Ursi, L’Amministrazione militare, Giappichelli, 2018, pagg. 219-222.
  5. “Negli anni Cinquanta il dibattito scientifico sull’ordinamento militare è pressoché assente essendo inserito nel più generale confronto sull’applicabilità alla pubblica amministrazione della categoria dell’ordinamento organizzatorio. Il tratto innovativo della Costituzione non viene percepito: la questione dei rapporti tra legalità amministrativa e disciplina militare è in larga misura testata sul carattere dell’ordinamento militare, qualificato come particolare rispetto a quello della pubblica amministrazione”. R. Ursi, L’Amministrazione militare, cit., pag. 239.
  6. R. Balduzzi, Principio di legalità e spirito democratico nell’ordinamento delle Forze armate, Giuffrè, 1988;
  7. Si rinvia per un approfondimento a G. Canale, Le libertà dei militari, in D. Morana, I diritti costituzionali in divenire, II ed., Editoriale scientifica,2023, pagg. 305-326.
  8. Tradizionalmente, si è sempre preclusa ogni forma di sindacato sulla legittimità dell’ordine del superiore al quale era dovuta la più assoluta obbedienza soprattutto se l’ordine è indirizzato ad organi meramente esecutivi (V.E. Orlando, Principi di diritto amministrativo, 5° ed., G. Barbera editore, 1925., pag. 110). Dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, ma prima della legge n. 382/1978, V. Bachelet, Disciplina militare, Giuffrè, 1962, pagg. 186-189, ritiene che sia riconosciuta una facoltà di disobbedire allorquando si prospetti una situazione di manifesta criminosità. La legge di principio ha fugato ogni dubbio al riguardo e la di cui all’art. 4, oggi contenuta dall’art. 1349 c.o.m., consente alla dottrina di ritenere che: in presenza di ordini rivolti contro le istituzioni dello Stato il macroscopico sviamento di potere da cui sarebbe viziato l’atto, permetterebbe la disobbedienza del militare, la quale sarebbe “di natura politica” (cfr. P. Nuvolone, Valori costituzionali della disciplina militare e sua tutela nel codice penale militare di pace e nelle nuove norme di principio, in Rassegna di giustizia militare, 1979, pag. 26).
  9. Peraltro, sembra opportuno evidenziare il fondamentale ricorso alla Carta Sociale Europea (CSE), e precisamente dell’art. 5, comma 3, come parametro di legittimità costituzionale. Al riguardo, per una rassegna dei pochi precedenti nella giurisprudenza costituzionale si veda B. Liberali, Un nuovo parametro interposto nei giudizi di legittimità costituzionale: la Carta Sociale Europea a una svolta?, in www.federalismi.it, 2017, 5-11. Per una rassegna dei precedenti nelle diverse giurisdizioni comuni, si veda invece G. Guglia, La rilevanza della Carta Sociale Europea nell’ordinamento italiano; la prospettiva giurisprudenziale, in La Carta Sociale Europea e la tutela dei diritti sociali, cit., 85- 97. Mentre per un approfondimento sulla Carta Sociale Europea si vedano C. Panzera, A. Rauti, C. Salazar, A. Spadaro (a cura di), La carta sociale europea tra universalità dei diritti ed effettività delle tutele, Atti del Convegno di studi Reggio Calabria, 26 febbraio 2016, Editoriale scientifica, Napoli, 2016; M. D’Amico, G. Guiglia e B. Liberali (a cura di), La Carta Sociale Europea e la tutela dei diritti sociali – Atti del convegno del 18 maggio 2013 Università degli Studi di Milano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2013.
  10. F. Guella, Libertà di associazione sindacale e coesione delle forze armate: i margini di apprezzamento nel bilanciare diritti individuali e interessi pubblici, tra Corte costituzionale e C. Dir. Uomo, Rivista AIC, 2015; G. Canale, La libertà di associazione militare: il primo passo di un cammino ancora lungo, Osservatorio AIC, 2018; L. Di Majo, Libertà sindacale dei militari: condizioni e limiti, DPE Rassegna online, 2019; M. Ricci, La fine di un tabù: il riconoscimento della libertà di associazione sindacale limitata dei militari, Rivista AIC, 2018.
  11. Per un commento alla pronuncia in oggetto, si rinvia a G. Canale, L’assorbimento del corpo forestale dello stato nell’Arma dei Carabinieri: un ulteriore passo avanti verso la tesi della differenziazione funzionale della condizione militare, in Giurisprudenza Costituzionale, 2019, pagg. 2023-2032.
  12. La Corte, in particolare, ha ritenuto che in fase di prima attuazione, in attesa dell’intervento legislativo, fosse possibile applicare analogicamente per la costituzione delle associazioni sindacali, la disposizione dell’art. 1475, comma 1, del d.lgs. n. 66 del 2010, secondo la quale «La costituzione di associazioni o circoli fra militari è subordinata al preventivo assenso del Ministro della difesa», poiché si tratta di una condizione di carattere generale valida a fortiori per quelle a carattere sindacale, sia perché species del genere considerato dalla norma, sia per la loro particolare rilevanza. La Corte ha anche indicato la necessità di svolgere un controllo sugli statuti delle associazioni, vagliandoli alla stregua di criteri desumibili dall’assetto costituzionale della materia, cioè dagli art. 52, 39, 97 e 98 Cost., al fine di verificare che il godimento della libertà sindacale militare sia svolto in un contesto democratico e non leda il principio di neutralità delle Forze Armate. Parimenti importante a questo riguardo concerne il controllo anche sulle forme di organizzazione e finanziamento delle associazioni sindacali militari e la sua assoluta trasparenza.
  13. Si ritiene cioè che si possa affermare un orientamento costituzionalmente orientato che utilizzi come criterio per la limitazione dell’esercizio delle libertà dei militari i loro specifici compiti, affinché la deroga peggiorativa rispetto a quella generale si fondi sui precipui doveri da svolgere piuttosto che sull’indistinto status della condizione militare. Ciò potrebbe comportare una differenziazione della disciplina normativa, ad esempio, in materia sindacale tra Forze Armate e Forze di Polizia ad ordinamento militare, dettando per queste ultime una disciplina più prossima a quelle delle forze di polizia ad ordinamento civile. Si rinvia a G. Canale, Le libertà dei militari, cit. pagg. 323-325.
  14. Si ricordi che la legge 28 aprile 2022, n. 26 (“Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo”) ha previsto (art. 3) un meccanismo di autorizzazione ministeriale volto a verificare la sussistenza delle condizioni legali previste dalla legge per il riconoscimento della natura sindacale dell’associazione. In particolare, è stabilito che le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari, entro cinque giorni lavorativi dalla loro costituzione, depositino lo statuto presso il Ministero della difesa o, per le associazioni professionali a carattere sindacale tra appartenenti al Corpo della guardia di finanza, presso il Ministero dell’economia e delle finanze. Il competente dicastero, accertata, entro i sessanta giorni successivi, la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, ne dispone l’iscrizione in apposito albo ai fini dell’esercizio delle attività previste dallo statuto e della raccolta dei contributi sindacali nelle forme previste dall’articolo 7. Per le associazioni professionali a carattere sindacale riferite a personale di una o più Forze armate e del Corpo della guardia di finanza l’accertamento è svolto dal Ministero della difesa di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze. Non sono consentiti, nelle more del predetto procedimento, l’esercizio delle attività sindacali né la raccolta dei contributi sindacali.
  15. Infatti, scrive il Collegio che “L’incidenza esiziale della sanzione espulsiva irrogata implementa tuttavia l’intensità del sindacato di questo giudice potendosi verificare, sia pure secondo criteri di immediata evidenza, la sussistenza di fatti dotati di assoluta gravità come tali idonei a costituirne idonea giustificazione. Devono quindi essere evidenziati alcuni aspetti della vicenda che possono assumere specifico rilievo. Per vero rimarcare l’elevato numero di suicidi in ambito militare costituisce un dato statistico che appare neutro rispetto alle esigenze di tutela di quelle esigenze di segretezza e decoro che sono particolarmente avvertite in contesti appunto militari. Non può tuttavia escludersi in radice che le esternazioni del -OMISSIS- alla luce delle formule lessicali utilizzate particolarmente forti e potenzialmente offensive nei riguardi degli alti ranghi militari, possano essere apprezzati quali comportamenti di rilievo disciplinare. Quanto dichiarato dal predetto in ordine a diffusi e non comprovati comportamenti vessatori da parte dei superiori gerarchici nei riguardi dei propri sottoposti infatti non può escludersi che risulti tale, per la diffusione mediatica appositamente riservata a tale esternazione, da ingenerare un clima di sfiducia e di sospetto nei confronti dell’Istituzione militare. Ne consegue che il comportamento del -OMISSIS- pur in linea teorica riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero di conio costituzionale, non appare scevra da possibili riflessi disciplinari, sia pure di gravità non tale da giustificare la sanzione irrogata, in ragione delle espressioni utilizzate in quanto potenzialmente idonee a minare indebitamente, in assenza di precisi riscontri, il clima di fiducia che deve accompagnare l’operato di una Istituzione militare nelle sue articolazioni gerarchiche”.
  16. C. Lazzari, Sulla Carta Sociale Europea quale parametro interposto ai fini dell’art. 117, comma 1, Cost.: note a margine delle sentenze della Corte Costituzionale n. 120/2018 e n. 194/2018, in www.federalismi.it, 2019. Senza dubbio, si può sostenere il valore positivo del fatto che negli ultimi anni (sentenze n. 120 e soprattutto n. 194 del 2018) la nostra Corte costituzionale abbia finalmente ben valorizzato la Carta sociale – e non solo la CEDU – come parametro interposto di legittimità costituzionale delle leggi ai sensi dell’art. 117, 1° comma della Costituzione. Infatti, “La Carta sociale dedica dunque grande attenzione ai diritti umani delle persone vulnerabili. A questo bisogna aggiungere che l’organo di controllo della Carta sociale, attraverso le due procedure di monitoraggio del rispetto della Carta sociale da parte degli Stati – la procedura di esame dei rapporti statali e, soprattutto, la procedura quasi-giurisdizionale dei reclami collettivi – ha valorizzato molto l’esigenza e la finalità di un’applicazione adeguata della Carta sociale per la tutela delle persone vulnerabili. E lo ha fatto attraverso un’interpretazione sistematica ed estensiva della Carta che va oltre il contenuto specifico delle singole disposizioni, e un’utilizzazione molto attenta del principio di non discriminazione, sancito nell’art. E della Carta riveduta.” G. Palmisano, La protezione europea dei diritti delle persone vulnerabili: il ruolo della Carta sociale e del Comitato europeo dei diritti sociali, intervento in occasione della Lectio magistralis del Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo Prof. Roberto Spanò, Roma, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Aula Magna del Rettorato, 22 aprile 2022. Corte costituzionale – Convegni Seminari
  17. Si veda, al riguardo, L. Madau, Il parametro “esterno” offusca il parametro “interno”. Note a margine della sent. n. 120/2018 della Corte costituzionale, in Diritto e Società, 2/2018, pagg. 323-344. Inoltre si segnala che recentemente, 28 aprile 2023, l’Assemblea generale di Euromil (“European Organisation of Military Associations and Trade Unions”), esaminando la legge 28 aprile 2022, n. 26: “11. Sottolinea che la Legge continua a considerare i diritti sindacali quali incompatibili con l’efficienza o la disciplina militare, (…); 12. Riconosce che la Legge rappresenta un primo passo verso il riconoscimento dei diritti sindacali, ma ritiene che debba essere modificata per garantire la protezione dei diritti fondamentali e stabilire organismi rappresentativi legittimi che possano partecipare in discussioni costruttive e in contrattazioni collettive con le autorità competenti; 13. Esprime rammarico essendo che la Legge esistente non stabilisce un quadro adeguato per il riconoscimento dei diritti sindacali del personale militare, in quanto si limita ad adempiere all’obbligo formale di garantire la libertà sindacale, senza fornire le condizioni necessarie per un suo uso ed esercizio efficace; 14. Conclude attirando l’attenzione sullo stato attuale della Legge italiana riguardante la rappresentanza delle forze armate e di polizia ad ordinamento militare italiane. Nonostante anni di instancabile attivismo da parte di rappresentanti italiani per i diritti sindacali del personale militare, la Legge non adempie il suo scopo. Il quadro attuale che essa stabilisce, con le limitate competenze concesse alle associazioni, non garantisce effettivamente il diritto a una rappresentanza autentica, un risultato non in linea con ciò a cui i rappresentanti italiani si sono adoperati per ottenere negli ultimi 50 anni; 15. Chiede al legislatore italiano, dunque, di agire tempestivamente per rivedere la legislazione, attingendo dalle esperienze nazionali e internazionali, per garantire diritti sindacali per il personale militare”. 2304_-ADOPTED-Final-Resolution-EN-IT.pdf (euromil.org)