Il dibattito sulla riorganizzazione territoriale
Intervista a Francesco Pizzetti1, a cura della redazione
L’esperienza italiana degli ultimi anni mostra una crescente conflittualità istituzionale tra i diversi livelli territoriali che non sembra giovare all’efficacia dell’azione amministrativa e di Governo. La differenziazione del bicameralismo potrebbe contribuire a rapporti istituzionali più collaborativi? Esiste un rapporto tra la differenziazione del bicameralismo e la revisione di competenze, potestà e funzioni regionali?
Il sistema italiano è conflittuale e, soprattutto, eccessivamente compartecipato. Si è sviluppato al suo interno una sorta di multilivello istituzionale che vive sulla continua compartecipazione di tutti alle decisioni di ciascun livello. Solo in alcuni casi è possibile, per Governo e Parlamento, assumere decisioni senza consultare prima Conferenze, Regioni, Comuni e Province. In materia di delegazioni legislative – per esempio – è sufficiente che una delega riguardi anche solo incidentalmente la materia regionale, che scatta la consultazione per l’espressione del parere preventivo, seguita da quella sullo schema del decreto.
Esiste, inoltre, una conflittualità che investe il riparto delle competenze, perché il Titolo V della Costituzione, su questo, risulta estremamente barocco. L’eccesso di compartecipazione e di codecisione rende molto faticoso il sistema e più difficile individuare le responsabilità, finendo per diventare terreno abbastanza fertile per il lobbismo.
Abbiamo, dunque, un duplice problema: una confusione istituzionale in materia di competenze, che determina una forte conflittualità, e un’esasperazione di codecisione.
Su tale contesto pesa, inoltre, la mancata attuazione del Titolo V e la troppo generica formulazione di alcune sue disposizioni. Mancano – per esempio – le leggi di attuazione e una definizione compiuta delle funzioni fondamentali dei Comuni e delle Province, solo provvisoriamente inserite nei decreti attuativi del federalismo fiscale per individuare materie fondamentali intorno alle quali avviare il processo di definizione dei fabbisogni essenziali e dei costi standard. Insomma: mentre, da una parte, si dava attuazione a un modello organico, dall’altra si continua – per così dire – a disfare di giorno quanto si tesse di notte e viceversa.
È evidente che tutto ciò ha determinato un notevole blocco del sistema politico istituzionale, cui si è aggiunta una crescente influenza dell’Ue dal punto di vista giuridico-formale e delle imposizioni politico-finanziarie.
Se analizziamo il Governo Monti, possiamo osservare che è stato assolutamente anomalo non solo per la sua composizione “tecnica”, che non rappresenta un unicum nella vita italiana, ma per aver proceduto sempre e soltanto con decreti legge. Il Parlamento – nell’anno e mezzo del suo mandato – non ha fatto altro che convertire decreti legge, instaurando una prassi non scritta secondo cui una Camera esaminava un decreto legge e l’altra ne approvava la legge di conversione senza praticamente discuterla, dando così vita a una sorta di monocameralismo zoppo e non dichiarato.
L’esperienza del Governo Letta è stata ancora più anomala per l’interposizione, che non può essere taciuta, della rielezione del Presidente della Repubblica per la prima volta in settant’anni. Questa scelta non è stata importante soltanto per la rielezione del Presidente – la Costituzione non lo prevede ma non lo vieta – ma per l’indicazione, per la prima volta, di un programma e di un indirizzo politico del Presidente della Repubblica. Nel messaggio con cui ha accettato il secondo mandato, Giorgio Napolitano ha indicato, in modo esplicito, che la condizione era che l’indirizzo politico da lui esposto al Parlamento, sulle riforme costituzionali, trovasse attuazione. E, nel discorso alle alte cariche dello Stato del 17 dicembre 2013, ha affermato che comunicherà il termine del proprio mandato con le modalità e i tempi che riterrà più opportuni.
Il Governo Letta ha costituito senza dubbio una notevole anomalia del sistema italiano in quanto è nato sulla base di una maggioranza di larghe intese, che prevedeva due terzi circa del Parlamento, che gli ha conferito titolo politico, se non istituzionale, a disegnare un processo costituzionale riformatore. Il 2 ottobre 2014, però, il Governo Letta ha registrato un totale cambiamento della sua base parlamentare e, da Governo delle larghe intese, è diventato un Governo con un margine di maggioranza molto limitato al Senato e – comunque – con una base politica istituzionale del tutto diversa. Si può rilevare una traccia istituzionale di questo mutamento quando il presidente Enrico Letta in Parlamento e il ministro per le Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello – il primo nel discorso con cui ha chiesto la nuova fiducia, il secondo nel corso di un’ispezione parlamentare – hanno dichiarato di rinunciare alla procedura dell’articolo 138 rivisitato, indicando come causa di questa scelta la mutata maggioranza parlamentare del Governo.
Il contesto nel quale ci troviamo oggi a operare è indiscutibilmente di difficoltà istituzionale conclamata. E non si tratta di “invenzioni” giornalistiche, ma di un problema di natura costituzionale.
Esiste – inoltre – un’ulteriore anomalia: è la prima volta che i tre principali partiti numericamente rappresentati nei due rami del Parlamento hanno segretari o responsabili politici esterni al Parlamento. Un elemento di novità che contribuisce a creare ulteriore difficoltà e incertezze.
Ad aggravare il contesto si aggiunge la percezione che la crisi economica durerà parecchio, il che determina un sempre più forte scollamento tra istituzioni politiche e corpo elettorale, confermato anche dai risultati delle elezioni, che vanno letti non solo per la distribuzione dei consensi espressi, ma anche per la mancanza di consensi espressi, cioè per l’aumento dell’astensionismo.
Il tema istituzionale, che è certamente centrale, oggi si colloca in una zona grigia, nella quale certamente per molti aspetti sono più significativi i temi del lavoro, del sistema bancario e dell’incapacità di tale sistema di assicurare credito alle imprese. Per certi versi, dunque, tutto farebbe pensare che non sia tanto il momento di riforme istituzionali, ma di buon funzionamento del sistema esistente in settori strategici. Il fatto che siamo costretti a porci entrambi i problemi – la normativa di settore, da un lato, e la normativa generale di sistema, dall’altro – è un’ulteriore segnale delle difficoltà del momento.
L’attuale disciplina del sistema delle Conferenze dello Stato e delle autonomie territoriali contribuisce efficacemente al rispetto del principio costituzionale di leale collaborazione? Quali sono gli aspetti principali su cui dovrebbe concentrarsi l’eventuale riforma di questi strumenti di mediazione tra centro e periferia?
Il sistema delle Conferenze dello Stato e delle autonomie territoriali è addirittura all’origine del principio costituzionale di leale collaborazione. La Corte, infatti, ha potuto elaborare tale principio anche muovendo dall’esistenza di queste Conferenze. E non si deve dimenticare che le Conferenze rappresentano una risposta a una precedente crisi di sistema.
Mentre la Conferenza Stato-Regioni ha una storia lunga, in quanto è stata formalizzata alla fine degli anni ‘80, il meccanismo delle due Conferenze che si unificano in alcune circostanze è più recente e appartiene all’esperienza del primo Governo Prodi e delle riforme Bassanini: un sistema non pensato come risposta a una revisione costituzionale o per dare attuazione a un principio di leale collaborazione calato sul Titolo V, ma come “meccanismo” del federalismo a Costituzione vigente in un quadro che aveva un obiettivo di passaggio verso i necessari adeguamenti a livello costituzionale di un regionalismo non ancora soddisfacentemente attuato, che si confrontava con un nuovo rafforzamento del ruolo degli enti locali che derivava dalla previsione dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Province.
Va tenuto presente – per rispetto della memoria storica – che il Titolo V è stato oggetto di una riforma fatta nel 2001, a seguito del fallimento della Commissione Bicamerale D’Alema nel 1998, perché mentre sulla forma di Governo non c’era un accordo sufficiente e sul bicameralismo rivisitato non c’era consenso, sul Titolo V, inteso come rapporti Stato-Regioni ed enti territoriali, il consenso si era trovato (l’articolo 114, per esempio, era già stato oggetto della riforma D’Alema). Il Titolo V, come una sorta di arto, venne dunque innestato su un corpo che per il resto rimase quello precedente.
Non possiamo non ricordare che le Conferenze non sono state pensate per il Titolo V, ma prima di esso, all’interno del vecchio modello di Stato. Ad esse, poi, la Corte costituzionale si è rivolta per enfatizzare il principio di leale collaborazione, che è uno dei principi che la Consulta ha elaborato e utilizzato per assolvere a un compito che non era, non può e non potrà mai essere suo: stabilire come va attuata, in via generale e sistematica, una normativa costituzionale. La Corte, infatti, è un giudice che deve giudicare su specifiche leggi preesistenti: può ricavare dei principi, costituire delle categorie, far vivere la Costituzione in modo diverso e lo può fare facilmente se deve definire cosa sia la libertà d’opinione, l’uguaglianza, il divieto di discriminazione razziale, il principio di uguaglianza e di differenza. Quando, invece, deve arrivare ai tecnicismi, svolge sempre un lavoro difficile e improprio. Per cui, da una parte, enfatizza i livelli essenziali e la trasversalità delle materie e, dall’altra, si attacca disperatamente alla leale collaborazione, facendo quello che fanno tutte le Corti: elaborare i diritti e intervenire poco nelle controversie Stato-Regioni.
Con il Titolo V inattuato, che è solo una cornice costituzionale, ha dovuto esporsi in prima linea, e ha fatto anche troppo, se si considera la situazione che si è trovata a governare. Questo, per un verso ha creato ulteriori problemi e incertezze perché quando si redige una legge regionale nessuno conosce la modalità con cui la Corte potrà interpretare una certa materia in quel contesto rispetto a quella situazione. Dall’altro, ha enfatizzato il principio di leale collaborazione.
Non c’è dubbio che oggi ci troviamo di fronte a un sistema di Conferenze decisamente barocco, che enfatizza e polarizza due livelli diversi: quello tecnocratico e quello politico.
Le autorità politiche intervengono, sono sempre presenti, ma, praticamente, esprimono un “sì” o un “no” a seconda delle indicazioni fornite dai tecnici nel momento in cui devono esprimere la propria opinione. Invece viene enfatizzato lo scontro politico quando il momento diventa di tensione politica, come è avvenuto in occasione dell’Imu e, normalmente, c’è la minaccia dell’abbandono del tavolo delle Conferenze. Questa situazione crea ulteriori complessità, perché – da una parte – le Conferenze si riuniscono con grande frequenza, molte volte sono burocratiche e vedono la presenza di un gran numero di funzionari. Dall’altra, nei momenti topici, rischiano di essere la sede che determina il blocco del sistema.
Tra l’altro, il livello tecnico legato all’attuazione delle leggi è diverso dal livello tecnico nell’ambito della partecipazione all’elaborazione di una legge. E i funzionari stessi sbagliano spesso misura, pensando di essere dei colegislatori. Poi, arriva il momento in cui i legislatori impongono lo stop, perché devono confrontarsi con il Parlamento, nell’ambito della trattativa parlamentare. Ed è una gran fatica la ricerca di accordi e di equilibri che vengono rimessi in discussione dalla necessità di individuare il consenso in una sede del tutto diversa, che è quella parlamentare, dove le Regioni e i Comuni non sono presenti. Ci si trova così a dover condurre due tipi diversi di trattativa sullo stesso oggetto e, inevitabilmente, i due livelli sono tra loro incompatibili. Spesso capita che, sul livello del processo di formazione della legge, la tecnocrazia delle Regioni e degli enti territoriali entri in sofferenza, perché si perde su minuterie e piccole cose che tanto diventano oggetto di trattativa in sede di Commissione, quando si ha bisogno di ottenere il consenso di qualche Comitato o il ritiro di un emendamento. È un sistema che non funziona o, meglio, che funziona nell’attuazione delle leggi, ma non nel processo della loro formazione, in quanto i tecnici non sono i titolari del potere legislativo.
Nel momento in cui si deve ottenere il consenso di chi approva una proposta legge, s’interloquisce con chi ha quel potere e non con chi ha il potere, caso mai, di interdire l’attuazione della legge. Quindi, le Conferenze sono, in questo senso, disassate: quando devono operare sull’attuazione delle leggi hanno una forza notevole, quando devono operare sul processo di formazione delle leggi finiscono inevitabilmente per essere in una situazione di difficoltà. L’arma finale è il ricorso alla Corte, ma è un’arma che si spunta, perché se ad ogni questione si annuncia il ricorso alla Corte, allora si può andare avanti.
Si discute da tempo sulla soppressione o il riordino delle Province. Come pensa debba essere disciplinata l’articolazione degli enti d’area vasta intermedi tra Comuni e Regioni?
È opportuno, a questo proposito, spiegare qual è la strategia che sta alla base del disegno di legge approvato dalla Camera il 21 dicembre scorso.
Senza perdersi in eccessivi tecnicismi, penso che la filosofia fondamentale non riguardi l’ente Provincia, la necessità o meno di un ente di area vasta come confermato nel disegno di legge costituzionale n. 1543, presentato dal Governo, e n. 1542, discusso dalla Camera.
In tutti e due i testi si immaginano gli enti di area vasta: nel ddl n. 1543 questo mantiene il nome di “Provincia”, mentre nel ddl n. 1542 il nome viene cancellato. Ma, se andiamo oltre il nominalismo, il disegno è chiarissimo: sono necessari enti di area vasta con caratteristiche, funzioni e peso politico diverso, a seconda del contesto territoriale.
Le Città metropolitane – per noi – sono cosa del tutto diversa dalle Province o dagli enti di area vasta provvisoriamente chiamati Province, perché devono essere veri e propri enti di governo del territorio. Mentre, nella nostra logica, gli enti chiamati “Province” sono enti di supporto ai Comuni e di fornitura ai cittadini di servizi di area vasta.
L’ente chiamato “Provincia” ha quindi una doppia funzione: verso i cittadini sulle competenze di area vasta, che è più razionale siano assicurate da un ente unico su tutto il territorio, e, in modo rilevante e dichiarato, di supporto ai Comuni.
Del tutto diversa è la Città metropolitana, che ha molte più funzioni delle Province ed è un vero e proprio ente di governo del territorio, con poteri di coordinamento più significativi e corposi di quelli della Provincia.
Non sono assimilabili, anche se entrambi sono enti governati da organi non eletti direttamente dai cittadini. Solo per le Città metropolitane si prevede la possibilità che lo statuto stabilisca l’elezione diretta, a condizione però che il Comune capoluogo si frammenti in altri Comuni e sulla base di una legge elettorale che si dovrà approvare.
Il sistema prevede che i due enti siano governati da sindaci eletti con elezione monocratica dagli altri sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni del territorio, fermo restando che il presidente della Città metropolitana – che forse inopportunamente è chiamato “sindaco metropolitano” – coincide con il sindaco del capoluogo, mentre il presidente della Provincia è eletto tra i sindaci dei Comuni del territorio provinciale.
Entrambi gli enti dovranno essere governati da personale politico, che avrà la caratteristica di essere sindaco in carica, con un ruolo ampliato in quanto, a nome degli altri sindaci, dovrà partecipare al coordinamento complessivo (se è l’ente territoriale Provincia) o al coordinamento e governo dell’area metropolitana (se è la Città metropolitana).
Il sindaco del Comune capoluogo è di diritto il sindaco della Città metropolitana, salvo scelte statutarie differenti, sempre che si disarticoli il Comune capoluogo in Comuni minori, perché evidentemente sarebbe assurdo immaginare la compresenza di un sindaco che rappresenta mediamente la metà della Città metropolitana accanto a un altro sindaco o a un presidente dell’ente che però deve governare con forti poteri lo stesso territorio.
Mentre la Provincia è essenziale per i Comuni piccoli, per il Comune capoluogo attualmente è un ente che fa parte della galassia del sistema. Noi però vogliamo che la Città metropolitana non sia la vecchia Provincia, ma qualcosa di molto diverso, con il peso che oggi hanno i Comuni capoluogo di area metropolitana e non quello che hanno le attuali Province.
Un altro aspetto che va tenuto presente è la volontà che tali enti siano enti di secondo grado, non tanto per la necessità di risparmiare sui costi quanto per la volontà che della guida di questi enti si faccia carico la classe politica eletta di primo livello.
Questo comporterà modalità profondamente innovative nel funzionamento di tali enti, perché è evidente che è diverso come funziona un ente in cui una classe politica è eletta solo per fare il consigliere, il presidente o l’assessore di quell’ente e una classe politica che invece deve far fronte a una visione di sistema, ma che in primo luogo deve rispondere ai cittadini che hanno votato lui direttamente, cioè il sindaco e il Consigliere comunale. Si può, quindi, immaginare un sistema più fondato sul peso dei funzionari e più capace di sviluppare una forte azione di guida e di controllo su di essi.
Anche la separazione tra politica e amministrazione andrà rivista, perché è evidente che non si può immaginare che un ente che dovrà poggiare sostanzialmente sull’attuazione di un indirizzo politico possa avere il modello attuale di separazione di competenze fra politica e amministrazione. La separazione dovrà permanere, ma in un modo diverso da come siamo abituati.
Il personale provinciale sarà chiamato a una grande prova di “upgrade” della propria professionalità sia se sarà impiegato nelle Città metropolitane sia se verrà utilizzato nelle nuove Province, perché dovrà passare da un’attività micro gestionale a un’attività macro di supporto dei Comuni e di coordinamento. Un altro aspetto fondamentale, infine, riguarda la flessibilità.
Sostanzialmente, comunque, si tratta di una legge che dice poche cose e disciplina: gli organi e le funzioni fondamentali dei due tipi di ente; il rapporto transitorio del personale, che deve passare da una parte all’altra; il processo di scorporo dei Comuni che non vogliono stare nella città metropolitana e desiderano, in qualche modo, mantenere la vecchia Provincia o aggregarsi a province limitrofe. Il resto viene quasi tutto delegato allo statuto.
Quindi, ogni città metropolitana e ogni Provincia saranno una storia a sé, perché il potere statutario, cioè il decidere come che cosa fare, è molto forte. Soprattutto, nelle Città metropolitane è prevista anche la possibilità di articolare sul territorio le funzioni per ambiti territoriali, se è possibile, omogenei a quelli indicati dalla Regione; ma, se la Regione non partecipa alla decisione sull’attuazione ottimale degli ambiti territoriali della Città metropolitana, la Città metropolitana potrà andare avanti per conto proprio.
Non è vero dunque che le Città metropolitana costituiranno necessariamente un nuovo livello di accentramento. Gli statuti dovranno essere scritti da persone che dovranno avere due doti: non ragionare con la testa rivolta all’indietro e cercare d’interpretare la realtà del territorio.
Probabilmente, in una prima fase, ci sarà una certa omogeneità nell’assegnare le funzioni alle Città metropolitane, da un lato, e alle Province, dall’altra. Infatti, c’è un meccanismo in cui è necessario che lo Stato e le Regioni, ciascuno per le proprie competenze, definiscano cosa va all’una e cosa va all’altra delle vecchie competenze provinciali. Poi, auspicherei caldamente che, nel futuro processo, le funzioni attribuite a questi enti siano assegnate dalle Regioni anche secondo modalità diverse e, soprattutto, che i Comuni, che possono delegare le loro funzioni sia all’ente di area vasta, chiamato Provincia, e sia alla Città metropolitana, compiano scelte diverse a seconda dei contesti.
Infine, la legge, nella versione approvata, contiene un’innovazione importante: prevede che le Province che abbiano al loro interno una città capoluogo, che supera il milione di abitanti, possano costituirsi in Città metropolitane. Questo potrà avvenire attraverso un processo che dovrà essere definito e che, allo stato attuale, è contenuto nell’articolo 133 della Costituzione. Cioè, con una dichiarazione abbiamo anche stabilito che, affinché la Provincia possa chiedere di diventare Città metropolitana – dovrà avvenire comunque con legge dello Stato – occorre il consenso, mi pare, del 60% dei Comuni, che rappresentino il 60% della popolazione, quindi non proprio l’unanimità dei Comuni, ma una soglia significativa. Infatti, questa legge rimane un po’ a metà strada sulla nozione di Città metropolitana, tra l’esperienza francese, che ha moltiplicato le Città metropolitane, e l’esperienza di altri Paesi, che, invece, le hanno concentrate.
La nuova legge ripensa il sistema e, soprattutto, è dominata dal principio di flessibilità e di differenziazione. Probabilmente, va messa in mano a un paese consapevole e a una classe dirigente molto capace. Naturalmente, tutto questo rientra nei compiti e nei doveri di chi propone questa legge e di coloro che dovranno darne attuazione.
Quale si può prevedere come processo ulteriore di riforma e quale può essere il posto delle Regioni?
Credo che sia necessario fare i conti con le capacità, oltre che con le ambizioni. Il processo che adesso si è innescato a livello di enti territoriali è molto meno congiunturale di quanto sembri. Il disegno di legge costituzionale Quagliariello, mette in capo alle Regioni un potere di definizione degli enti di area vasta molto superiore a quello che, invece, è presente in questa legge, che è un potere esercitato dallo Stato.
Ritengo che nella situazione attuale italiana sia preferibile il nostro modello, che già dà una forte flessibilità nell’attribuzione delle funzioni e nell’auto-organizzazione degli Enti.
Immaginare di passare subito a gettare il cuore oltre l’ostacolo e avere venti modelli regionali diversi di sistema di enti di area vasta rischia di riprodurre semplicemente il sistema attuale, che rende incontabili gli enti di area vasta che le Regioni sono riuscite a produrre nel corso degli ultimi anni, così come gli ambiti, i bacini e le società.
Secondo me, è opportuno avere almeno un processo di flessibilità che stia dentro una cornice riconoscibile. E questo è già un enorme sforzo.
Certamente vanno riviste alcune cose. E in questo senso c’è l’imbarazzo della scelta, perché noi abbiamo sicuramente un’insofferenza profonda sia nei confronti del modello decisionale centrale del Parlamento e della rappresentatività sia di un modello che accentua il ruolo delle Regioni e l’esercizio delle loro competenze.
Certamente il Titolo V va rivisto, ma è più urgente, nel contesto attuale, il tema del bicameralismo perché si lega con il momento storico attuale, dominato dall’insofferenza per la classe politica.
Quando si parla di “costi della politica” si fa solo una sintesi; il politico è considerato come un elemento da ripensare, innanzitutto nella sua quantità, e forse anche nella sua qualità. Dietro all’espressione “costi della politica” sta questo: “quanto mi costi, quanti siete a costarmi, qual è l’apparato e poi qual è il tipo di efficienza che l’apparato, in ragione dei costi, mi produce”.
Dentro questo contesto, la scelta fatta dal disegno di legge Del Rio è già una risposta, che va completata con la riforma del bicameralismo. E ciò significa che questo è un paese troppo piccolo e anche in una situazione economica troppo difficile per permettersi di avere cinque diversi livelli di classe politica elettiva. Così come è un paese troppo piccolo per potersi permettere un numero così alto di concittadini la cui attività lavorativa dipende direttamente dal funzionamento del sistema politico.
Muovendo da questa premessa è chiaro che il disegno di legge Del Rio è già la semplificazione, perché cancella una classe politica. Poi c’è la flessibilità, poi c’è il disegno di differenziazione delle Province dalle Città metropolitane, ma nell’immediato la prima risposta fondamentale è che si cancella un livello di classe politica.
Qualcuno sostiene: “Indeboliamo la vita democratica” e che “I nostri maestri, i nostri padri e i nostri nonni dicevano…”. Sono tutti elementi di riflessione importanti, però leggendo i giornali e ascoltando l’umore del mio Paese, ritengo che, in questo momento, per difendere la vita democratica, dobbiamo fare delle scelte precise, consapevoli. Inoltre il numero di concittadini che svolgono attività lavorativa direttamente dipendente dal funzionamento del sistema politico è eccessivo. Poi ci sono anche altri settori dell’ordinamento connessi culturalmente e tradizionalmente con il sistema politico che dovrebbero essere rivisitati.
A livello nazionale riformare il bicameralismo ha un senso soltanto se significa ridurre la classe politica direttamente eletta a livello centrale. Anche su questo non mancano gli esempi, perché se avessimo buoni maestri che analizzassero e piegassero a fondo le cose, sapremmo che la maggioranza dei sistemi bicamerali ha come caratteristica la differenza non solo di funzione, ma di rappresentatività. Non c’è alcun sistema bicamerale al mondo in cui entrambe le Camere rappresentino esattamente la medesima cosa, siano elette con la medesima procedura e rappresentino direttamente i cittadini elettori. Non esistono sistemi come il nostro: il Senato francese è eletto dagli amministratori comunali, quello spagnolo rappresenta le Province. Per quanto riguarda il sistema tedesco, si dubita addirittura che sia bicamerale: è un sistema monocamerale con la Dieta, l’Assemblea dei governi territoriali (il Bundesrat): non a caso si chiama Bundesrat e non Bundestag.
È necessario individuare un diverso sistema di rappresentatività del Senato, coerente con le funzioni che il Senato deve svolgere. Possono esserci vari modelli ma credo che in questo momento – sia per massimizzare la risposta politica che una democrazia che voglia difendere i propri fondamenti deve dare a un corpo elettorale inquieto, sia perché è l’architettura che comunque in Europa funziona meglio – il più adatto sia il modello tedesco, in cui la seconda Camera rappresenta direttamente e immediatamente i livelli territoriali di governo.
I livelli territoriali di governo eleggono direttamente i propri rappresentanti e la Camera di secondo grado è eletta dai consiglieri comunali. Penso che le funzioni sarebbero meglio assolte dai rappresentanti degli organi degli enti perché darebbero una risposta più coesa al funzionamento complessivo del sistema. In questo caso, ovviamente, in certe materie non avremmo più le Conferenze che incidono dall’esterno su un legislatore, anche se poi al momento buono il legislatore è un soggetto diverso da loro.
Potremmo rischiare di avere una mediazione infinita tra sistemi territoriali, ma almeno avremmo un asse coerente tra l’attuazione delle legge e la legificazione. Dopodiché, naturalmente, si pone il problema se le Regioni italiane per struttura, caratteristiche e dimensioni siano in grado di supportare questo tipo di responsabilità smettendo di pretendere da un soggetto terzo diverso da loro, o di litigare con un soggetto terzo diverso da loro, ma iniziare a difendere le proprie prerogative all’interno di un sistema del quale si sia istituzionalmente parte, anche se non è una cosa facile.
Ovviamente, anche qui, il Bundesrat funziona in modo analogo alle nostre Conferenze. E molte volte alle riunioni del Bundesrat vanno i funzionari perché non occorre che vada il politico se la questione di cui parlare è puramente tecnica.
Poi, il modello del Bundesrat ha una particolarità che, come già avviene per la Conferenza Stato-Regioni unificata, si potrebbe studiare per il caso italiano: ogni ente ha un voto solo ed esprime una sola opinione. Potremo ragionevolmente immaginare – salvo valutare i diversi pesi delle diverse Regioni, e anche eventualmente dei rappresentanti dei sindaci – che possano essere presenti non solo i governi regionali, ma anche il presidente del Consiglio regionale, o anche due consiglieri eletti dal Consiglio regionale, per fare parte della delegazione al Senato delle Autonomie, a condizione che, comunque, la Regione esprima un parere solo.
Se ha senso dire che è solo alla Camera dei Deputati che compete l’indirizzo politico, dunque, diventa più facile sostenere che nel Senato delle Regioni non può esserci l’emersione di differenze politiche all’interno di uno stesso ente rappresentato, ma è l’ente che parla con una voce sola o, comunque, con un indirizzo solo; poi, i pesi possono essere ponderati.
1. Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Torino. Intervista rilasciata il 24 dicembre 2013.