Il risarcimento a favore degli enti territoriali in caso di danno ambientale. nota a cass. pen., 12.01.2018, n. 911

Matteo Porricolo[1]

1. Il precedente e l’attuale contesto normativo.

Nella sentenza in commento la Cassazione ritorna ad occuparsi della legittimazione ad agire in capo agli Enti territoriali per ottenere il ristoro economico per i pregiudizi subiti in caso di danni ambientali insistenti sul proprio territorio.

Alla disamina della questione sottoposta al giudizio della Suprema Corte occorre premettere l’introduzione di un breve quadro normativo.

Il danno ambientale, ai sensi del “Testo unico ambiente”, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (di seguito anche solo “T.u.”), art. 300, c. 1, è definito <<qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima>>.

Il T.u. citato, attuativo della legge delega 308 del 04.12.2004, a sua volta ispirata alla direttiva 2004/35 CE, dedica l’intera parte VI alla tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente, argomento che, ovviamente, per ragioni di vastità della materia, in questa sede non sarà analizzato nella sua interezza.

Per quanto ci riguarda ai fini del presente commento, è indispensabile prendere le mosse dalla cosiddetta azione risarcitoria in forma specifica, di cui all’art. 311, che specifica a chiare lettere quale sia l’Amministrazione pubblica legittimata a promuovere tale azione: <<Il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, oppure procede ai sensi delle disposizioni di cui alla parte sesta del presente decreto>>. Nel secondo caso si fa riferimento al procedimento amministrativo che conduce all’adozione dell’ordinanza ingiuntiva di messa in pristino ambientale di cui agli artt. 312 e ss. (con eventuale successiva ordinanza, in caso di inadempimento, di pagamento delle corrispondenti somme per l’attuazione delle misure riparative).

Il Ministero, quindi, viene individuato quale unico soggetto rappresentante l’interesse pubblico alla salubrità ambientale e, in tale veste, viene chiamato ad agire per ottenere il risarcimento in forma specifica, ossia il ripristino, oppure a richiedere il risarcimento per equivalente, nel caso abbia sostenuto direttamente da sé le spese per le misure ripristinatorie.

Sul tema della legittimazione ad agire il T.u. ambiente del 2006 ha apportato un vero e proprio cambio di rotta rispetto alla previgente L. 349/1986, laddove in essa (art. 18) si consentiva di promuovere l’azione di risarcimento del danno ambientale, oltre che allo Stato, altresì agli enti territoriali sui quali incidessero i beni oggetto del fatto lesivo.

L’intento di ridimensionare il ruolo di questi ultimi appare chiaramente dalle intenzioni del legislatore del 2006, così come professate nella relazione di accompagnamento al decreto: <<L’unificazione delle iniziative di precauzione, prevenzione, istruttoria ed ingiunzione del risarcimento nel centro decisionale ed operativo costituito dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio impedisce il fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno ambientale e nei confronti dello stesso operatore responsabile da una pluralità di enti (lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi, ecc.) e dalle associazioni non governative, nonché da singoli cittadini danneggiati personalmente>>. E si aggiunge <<soltanto queste ultime iniziative dei cittadini singoli sono state, ovviamente, conservate, mentre tutte le figure pubbliche e associative diverse dallo Stato vengono rese destinatarie soltanto di un compito di immediata segnalazione dell’esistenza del danno ambientale al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio >>.

In dottrina si sono alternate voci di plauso per la riforma, di condivisione degli obiettivi perseguiti dal legislatore, ad opinioni opposte, che in essa hanno riscontrato un forte arretramento di tutela[2]. Dal canto suo la Corte Costituzionale con due pronunce[3] ha avuto modo di affermare la compatibilità del nuovo assetto normativo rispetto alla Legge fondamentale[4].

Scomparsa, quindi, dal panorama giuridico la possibilità di agire iure proprio per gli Enti territoriali, il mero potere di impulso viene disciplinato all’art. 309 del T.u., rubricato “Richiesta di intervento statale” secondo cui: <<Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino previste dalla parte sesta del presente decreto possono presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, depositandole presso le Prefetture – Uffici territoriali del Governo, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente a norma della parte sesta del presente decreto>>. Le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente, sono riconosciute titolari del medesimo interesse.

Ricevuta l’informazione, il Ministro è tenuto soltanto a valutare le richieste di intervento e le osservazioni ad esse allegate, afferenti casi di danno o di minaccia di danno ambientale, e a informare senza dilazione i soggetti richiedenti dei provvedimenti assunti al riguardo.

Non essendo stato abrogato dalla nuova normativa il comma 5 dell’art. 18 della vecchia L. 349/1986, le associazioni ambientaliste (in possesso dei requisiti previsti e individuate dal Ministero) possono ancora intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.

Sotto un diverso aspetto, però, la legittimazione ad agire degli Enti territoriali, non è stata esclusa tout court.

Infatti, nel T.u., come clausola finale, si è stabilito che, al di là della disciplina pubblicistica, restano ovviamente salve le comuni regole civilistiche per il ristoro del danno aquiliano: <<Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi>> (art. 313, c. 7, secondo periodo).

 

2. Il caso sottoposto alla Corte.

Ciò posto, è possibile tornare al caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso di legittimità.

I due ricorrenti in primo grado erano stati ritenuti responsabili del delitto di cui all’art. 416 c.p. per aver promosso, organizzato e costituito una associazione a delinquere allo scopo di commettere una serie indeterminata di delitti contro l’ambiente (attività organizzate per traffico illecito di rifiuti), contro la fede pubblica (falsi) e contro la P.A. (corruzione) e per ciò condannati, oltre che alla pena, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede.

La Corte di Appello dichiarava non doversi procedere nei loro confronti in relazione al delitto per il quale avevano riportato condanna in primo grado perché estinto per prescrizione, ma confermava le statuizioni civili. Avverso tale sentenza proponevano essi ricorso per Cassazione per il tramite dei rispettivi difensori di fiducia, chiedendone l’annullamento ed articolando tre motivi, dei quali uno di interesse per i fini del nostro discorso.

In particolare, veniva dedotto vizio di violazione di legge in relazione al d. lgs. n. 152 del 2006, art. 311, con conseguente inammissibilità della costituzione di parte civile di tutti gli enti territoriali. Si argomentava che, stante le nuove disposizioni del Testo unico e la sua applicabilità anche agli eventi verificatisi prima del 2006, la titolarità a richiedere il danno all’ambiente sarebbe spettata unicamente al Ministero dell’Ambiente e che, inoltre, alcuna prova sarebbe stata fornita in ordine a danni risarcibili ex art. 2043 cod. civ.

 

3. La legittimazione ad agire nell’evoluzione giurisprudenziale.

Per la Corte il motivo predetto, al pari degli altri, è infondato.

Gli Ermellini rammentano in primo luogo che la L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18, al comma 3, come si ha già avuto di esporre supra, attribuiva allo Stato e agli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo, la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno ambientale, anche in sede penale nei processi per reati contro l’ambiente: <<lo Stato rappresentava il massimo ente esponenziale della collettività nazionale, mentre, per gli enti territoriali, il danno ambientale si riteneva incidere direttamente sull’assetto del territorio, elemento costitutivo degli stessi>>.

La Corte precisa, però, che, nonostante, la riforma del 2006 abbia comportato l’accentramento della legittimazione ad agire in capo al Ministero, il potere degli Enti territoriali interessati non sia limitato alle facoltà di segnalazione e sollecito di cui all’art 309 T.u., in quanto la giurisprudenza della Cassazione, immediatamente successiva al mutamento legislativo indicato, ha comunque affermato che la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetti non soltanto al Ministro dell’ambiente, ma anche all’ente pubblico territoriale che per effetto della medesima condotta illecita abbia subito un danno patrimoniale ulteriore e diverso, risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.[5] .

In particolare, è stato affermato che, oltre alla pretesa risarcitoria (esclusivamente statale) del danno ambientale, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente <<Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale>>[6].

Una differente conclusione si porrebbe, peraltro, palesemente in contrasto con il precetto costituzionale di cui all’artt. 24 Cost., che consente a tutti, senza alcuna esclusione, la tutela giurisdizionale dei propri diritti e interessi legittimi[7].

Fin da subito, quindi, sono stati ritenuti legittimati attivi anche gli enti pubblici territoriali che, per effetto della condotta illecita, avessero subito un danno (ovviamente diverso da quello ambientale) derivante dalla lesione di interessi locali specifici e differenziati. Chiaramente, infatti, oltre ai danni diretti ai beni privati dei proprietari, il danno patrimoniale per gli Enti locali è in effetti una conseguenza possibile se si considera che essi possono vedersi tenuti a sostenere costi qualora provvedano a proprie spese al ripristino dello status quo ante o quantomeno a misure di contenimento.

Si rammenti, infatti che, nonostante la forte contrazione del ruolo della provincia voluta dalla legge 7 aprile 2014, n. 56, una delle principali funzioni dell’ente di area vasta resta la «pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza» (art. 1, c. 85, lett. a).

Non va poi trascurato il ruolo delle Aziende sanitarie locali o delle Agenzie regionali per la protezione ambientale, enti facenti capo alle regioni, tenute a compiere indagini e valutazioni sulla contaminazione dei siti inquinati.

Infine, è lo stesso T.u. a definire un articolato riparto di competenze tra Stato, regioni, province e comuni in materia ambientale, sul quale non è ora possibile diffondersi.

Sancita, quindi, in un primo momento la risarcibilità del danno patrimoniale, la giurisprudenza successiva[8] estese la tutela anche al danno di natura non patrimoniale.

Quest’ultima trova la propria (scarna) disciplina, come noto, nell’art. 2059 cod. civ., che riserva, in generale, alla legge l’individuazione delle ipotesi di risarcimento. Esso, cioè, è tipico, al contrario del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ., caratterizzato dall’atipicità dell’espressione <<qualunque fatto…>>, tale che l’ingiustizia del danno ultimo citato possa essere determinata dalla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante.

Quanto al caso del danno ambientale, innanzitutto, occorre rilevare come sia la stessa disposizione normativa del T.u. (art. 313, c. 7, secondo periodo) a fare espressa menzione di un’ipotesi di danno di natura non patrimoniale – il danno alla salute – quale titolo risarcibile per i soggetti danneggiati (ovviamente, è ipotesi esclusiva del danneggiato persona fisica).  Inoltre, la medesima disposizione, nel testuale riferimento ai soli diritti alla salute e di proprietà, «non esprimerebbe in modo chiaro e univoco l’intento di escludere altri possibili pregiudizi (patrimoniali e non, sembrando piuttosto quel riferimento aver valore solo esemplificativo, specie in presenza del successivo più generico riferimento ai “diritti” ed “interessi lesi” »[9] .

Ma non è tutto. La giurisprudenza ha ritenuto che, a seguito della riforma, la nuova normativa ambientale si sia solamente affiancata, senza sostituire, la disciplina comune di matrice codicistica[10]. A tal riguardo si rammenta come l’ipotesi più importante per la risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. sia  l’art. 185, comma 2, cod. pen., che dispone che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti del danneggiato.

Costituisce, infatti, ormai pacifica acquisizione nella giurisprudenza civile la configurabilità di un danno non patrimoniale, nel più ampio significato di “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica”, anche in capo alle persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, sub specie di pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione, all’immagine[11].

Occorre ricordare infine la definitiva estensione apportata quasi contemporaneamente dal Giudice delle leggi e dal massimo organo di nomofilachia[12], che ha riconosciuto ormai da tempo il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dalla lesione di diritto inviolabile della persona costituzionalmente protetto, posto che la riserva di legge prevista dall’art. 2059 cod. civ. per la individuazione dei casi in cui è ammesso il risarcimento dei danni non patrimoniali, ben può e deve intendersi riferita anche alle previsioni della legge fondamentale «atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica, implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale».

Su tali basi, non vi è più motivo di dubitare che l’ente territoriale (al pari di ogni altra persona fisica o giuridica), leso nei propri interessi privi di rilevanza economica a causa della condotta delittuosa altrui contro l’ambiente, abbia titolo per richiedere il ristoro del danno subito.

L’ipotesi, di tal specie, più ricorrente riconosciuta dalla giurisprudenza è il danno all’immagine «rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca»[13].

 

4. Casistica.

Dalla lettura delle poche informazioni sui fatti dedotti nei processi, così come ottenibili dalle pronunce di legittimità, specie nelle vicende terminate in modo favorevole per gli Enti territoriali costituitisi parte civile, non è affatto agevole comprendere quale fosse il danno differente e ulteriore rispetto a quello ambientale pubblicistico di esclusiva titolarità statale, tale da poter essere risarcito a favore di terzi soggetti poiché non costituente l’addebito al responsabile di una indebita duplicazione della stessa voce di danno.

Si afferma ciò perché è tutt’altro che remota la possibilità che per un certo fatto lesivo accaduto in un determinato territorio si possano sollevare le pretese di tutti gli enti pubblici territoriali (dal Comune e, a risalire, sino allo Stato), solo in ragione del fatto per cui essi sono esponenziali delle rispettive comunità. Con il risultato che, se per assurdo si moltiplicassero le articolazioni territoriali, di pari passo si moltiplicherebbero anche i soggetti nei cui confronti il responsabile sarebbe chiamato  a rispondere.

Qui di seguito è esposta, quindi, una breve rassegna dei fatti oggetto di giudizio così come tratti dalle principali pronunce di legittimità in materia, nel tentativo di mostrare che il riparto di legittimazione non sempre è potuto dirsi chiaro e distinto.

In Cass. pen., sez. III, 11-01-2010, n. 755 l’imputato, condannato per illeciti in materia di rifiuti, contestava la regolarità della costituzione di parte civile della Provincia di Pesaro e Urbino. La Corte ha respinto la doglianza, avendo detto Ente precisamente chiesto (e poi ottenuto) il risarcimento del danno patrimoniale, derivante dalla condotta illecita come contestata ed accertata nei confronti dell’imputato.

In Cass. pen., sez. III, 22-11-2010, n. 41015 si era stabilito che la Provincia di Foggia sarebbe stata astrattamente legittimata a chiedere il risarcimento del danno, anche sotto forma di una condanna generica, qualora avesse allegato che la condotta dell’imputato le aveva arrecato un danno patrimoniale diretto e specifico, ulteriore e diverso rispetto a quello, generico di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale. Ma risultava invece dalla sentenza impugnata che la Provincia si fosse limitata a chiedere il generico danno ambientale quale lesione del bene pubblico (il giudice di prime cure aveva erroneamente ammesso la costituzione di parte civile).

Sempre la sezione III (sentenza 23-05-2012, n. 19437) ha rilevato che la Corte di merito razionalmente avesse ravvisato l’esistenza di un pregiudizio concreto ed effettivo di natura per la parte civile Comune di Alcamo, cagionata dal degrado arrecato al suo territorio attraverso l’interramento rudimentale delle polveri di ferro.

In un caso esaminato da Cass. pen. Sez. IV, 11-06-2014, n. 24619 gli imputati venivano condannati alla pena prevista per reati in materia di illecito trattamento dei rifiuti. La Cassazione ha escluso che Comune e Provincia di Milano avessero dato adeguata evidenza in capo agli stessi di autonomi e diversi pregiudizi rispetto al danno ambientale propriamente inteso, per la mancata allegazione di elementi in fatto precisi e specifici. Per contro è stato ritenuto che fosse stata raggiunta la prova del danno all’immagine alla Regione Lombardia, costituito dalla diminuzione della considerazione dell’Ente da parte della collettività.

Infine, in Cass. pen., sez III, 11-06-2015, n. 24677 alcuni soggetti venivano imputati per la violazione della disciplina sulla gestione, smaltimento e trasporto di rifiuti pericolosi e non pericolosi, nonché  di associazione per delinquere. La Cassazione confermava la condanna degli imputati nonché dei responsabili civili al risarcimento del danno patito dalle costituite parti civili, sia pure diversificando la posizione del Ministero dell’ambiente, esclusivo beneficiario del risarcimento del danno ambientale, da quella delle altre parti (varie Province e vari Comuni) ammesse alla tutela della loro posizione soggettiva di diritto privato, ritenendo risarcibile in favore di queste ultime il solo danno rilevante ai sensi dell’art. 2043 cod. civ.

 

5. Conclusioni.

Riassumendo, quindi, ad oggi, la stratificazione di tutte queste pronunce di legittimità ha comportato, fermo il monopolio statale per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, il riconoscimento del diritto a favore di tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti locali e le Regioni, ad agire in forza dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente (in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente); così come il diritto di agire per il risarcimento del danno non patrimoniale, avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica.

Nell’accertamento di tale voce di danno il giudice dovrà verificare, sulla base della concreta allegazione di parte, la sussistenza di esso, consistente nel pregiudizio arrecato all’attività da detti soggetti effettivamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo[14].

Per la Suprema Corte, nella sentenza in commento, non vi sono ragioni per scostarsi dal solco giurisprudenziale descritto.

Problematica, infine, la questione della successione delle leggi nel tempo sollevata dai ricorrenti, considerato che il decreto legislativo del 2006 non contiene alcuna disposizione intertemporale, cosicché viene legittimo domandarsi quale sia la disciplina applicabile ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore (29 aprile 2006), ma sub iudice in un momento successivo.

Per i Giudici di Piazza Cavour, nella sentenza in esame, deve ritenersi che per i fatti verificatisi anteriormente alla entrata in vigore della predetta normativa, e pertanto nella conseguente vigenza di quella preesistente, debba continuare ad applicarsi la L. n. 349 del 1986, art. 18, comma 3, che non poneva limitazioni alla legittimazione attiva degli enti locali all’esercizio della azione risarcitoria (nella specie, le condotte contestate nella sentenza in esame erano cronologicamente riferibili ad un periodo anni 2002/2005 – anteriore alla entrata in vigore del ricordato d. Lgs. n. 152 del 2006, art. 318).

Su tali premesse la Cassazione ha ritenuto quindi che la sentenza impugnata avesse fatto buon governo dei principi suesposti, confermando l’ammissibilità delle costituzioni di parte civile della Regione e degli altri enti pubblici territoriali, rimarcando come tutti gli atti di costituzione di parte civile erano relativi al danno che le condotte illecite descritte nei capi di imputazione avevano arrecato agli enti ed alle popolazioni locali per la lesione dei diritti alla salubrità dell’ambiente ed alla salute degli abitanti per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della sesta parte del d. lgs. n. 152 del 2006. In particolare, il risarcimento era stato richiesto per danni di natura patrimoniale e non patrimoniale conseguenti alla lesione di diritti particolari e diversi dall’interesse pubblico alla tutela dell’ambiente, pacificamente tuttora risarcibili alla luce dei principi suesposti.

 


 


[1] Dottore di ricerca in “Autonomie, diritti pubblici, servizi” presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro

 

[2] Per un rimando alla dottrina sul tema: Aru Stefano, Betzu Marco, Il risarcimento del danno ambientale tra esigenze unitarie e interessi territoriali, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, fasc. 4  pag. 1520 – 1533; Morbidelli Fanny, Danno ambientale e legittimazione, in Giustamm.it, 2015, fasc. 6  pag. 43; Germanò Alberto, L’ambiente e il risarcimento del suo danno, tra l’esclusiva legittimazione attiva dello stato e il ruolo di denunzia degli altri enti pubblici territoriali, in Rivista di diritto agrario, 2016, fasc. 3  pag. 143 – 147; Leonardi Roberto,L‘esclusione dalla legittimazione ad agire degli enti locali nell’azione risarcitoria in tema di danno ambientale: la negazione del “federalismo ambientale”, in Il Foro amministrativo T.a.r., 2013, fasc. 9  pag. 2925 – 2947; Gratani Adabella,Legittimazione a costituirsi “parte civile” per la risarcibilità del danno ambientale: ancora sui distinguo tra stato e enti territoriali dopo il testo unico ambientale, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2011, fasc. 6  pag. 816 – 817; Basso Alessandro M., Il danno ambientale e le condizioni dell’azione: la costituzione di parte civile dello stato ed i diritti degli enti territoriali,in Diritto e giurisprudenza agraria, alimentare e dell’ambiente, 2011, fasc. 5  pag. 340 – 345; Gratani Adabella, Enti territoriali e azioni risarcitorie ambientali dopo il Tua, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2010, fasc. 3-4  pag. 584 – 588; Centofanti Nicola, Il danno ambientale e le funzioni statali degli enti locali nel codice dell’ambiente in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2006, fasc. 18  pag. 2292 – 2298; Robustella Antonella,Danno ambientale: finanziaria 2006 e T.u. ambiente, il colpo d’ascia del legislatore cade sull’azione di risarcimento del danno ambientale di regioni ed enti localiin Amministrazione e contabilità dello stato e degli enti pubblici, 2006, fasc. 1-2  pag. 1 – 9.

 

[3] Sentenze 235/2009 e 126/2016.

 

[4] Sul tema S. Pitto, Il problema della legittimazione delle Regioni e degli Enti locali ad agire in giudizio per danno ambientale nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Diritti Regionali. Rivista di diritto delle autonomie territoriali, n. 2/2018.

 

[5] Richiama Cass. pen. Sez. III, 11/01/2010, n.755. E’, però, costante la giurisprudenza successiva, cfr. inter alias: Cass. pen. Sez. III, 21/10/2010, n. 41015, Cass. pen. Sez. III, 17/01/2012, n. 19437.

 

[6] Cass. pen., Sez. III, 21/10/2010, n. 41015.

 

[7] Cfr. S. Pitto, cit., p. 26.

 

[8] Cass. pen., Sez. III, 12/01/2012, n.633; Sez. III, 17/01/2012,  n. 19437 del e Sez. IV, 27/05/2014, n.24619.

 

[9] Cass. pen., Sez. IV, 27/05/2014, n. 24619.

 

[10]  Non essendovi «ragione logica e sistematica per ritenere tale norma di legge di portata tale da prevalere o rendere inoperante in materia la generale norma codicistica (avente ovviamente pari ordinata forza di legge)». Ancora Cass. pen., Sez. IV, 27/05/2014, n. 24619.

 

[11] Cfr. Cass. civ., Sez. I, 10/07/1991, n. 7642; Sez. 1, 05/12/1992, n. 12951; Sez. III, 03/03/2000, n. 2367; Sez. I, 02/08/2002, n. 11600 ; Sez. I, 29/10/2002, n. 15233, Sez. I, 13/02/2003, n. 2130; Sez. I, 10/04/2003, n. 5664; Sez. I, 16/04/2003, n. 6022; Sez. I, 11/02/2004, n. 2570 ; Sez. III, 26/06/2007, n. 14766.

 

[12] Ci si riferisce alle cd. sentenze gemelle di Cass. civ., sez. III, nn. 8827 e 8828 del 31/05/2003; nonché a Corte cost. 11 luglio 2003, n. 233.

 

[13] Cass. civ., Sez. III, 22/03/2012, n. 4542; Sez. III, 04/06/2007, n. 12929.

 

[14] Cass. pen., Sez. III, 26.09.2011, n. 34761.