Atti del convegno “L’affermazione dell’autonomia – Federalismo, Unità, Regioni” (Torino, 13 maggio 2011) – Introduzione
Francesco Pallante 1
Si pubblicano, qui di seguito, le relazioni al convegno “L’affermazione dell’autonomia – Federalismo, Unità, Regioni”, tenutosi a Torino il 13 maggio 2011 nell’ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità di Italia.
Il convegno, organizzato dal Consiglio regionale del Piemonte in collaborazione con la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, si è svolto sotto la cura scientifica e la presidenza del professor Mario Dogliani (Università di Torino) e ha coinvolto, quali relatori, i professori Luca Mannori (Università di Firenze), Marco Olivetti (Università di Foggia) e Giorgio Pastori (Università Cattolica di Milano).
Nonostante la ricorrenza del centocinquantesimo, il convegno non si è connotato per un taglio eminentemente celebrativo, ma si è posto come un momento di riflessione ad ampio raggio sull’evoluzione del ruolo delle autonomie territoriali nelle diverse fasi della vicenda unitaria italiana, con particolare, ma non esclusivo, riferimento alle autonomie regionali. In quest’ottica, ai relatori sono stati richiesti contributi che consentissero, pur nel breve spazio di una mattinata di lavori, di individuare i più rilevanti tra i diversi profili chiamati in causa dal tema in discussione. Così, a una ricostruzione storico-giuridica del concetto di autonomia, condotta da Luca Mannori, hanno fatto seguito le riflessioni di Giorgio Pastori e Marco Olivetti incentrate, rispettivamente, sulle autonomie territoriali in generale e sulla potestà statutaria regionale in età repubblicana. A dettare il denominatore culturale del convegno, inquadrando l’interrogativo sottostante a tutti gli interventi, l’intervento introduttivo di Mario Dogliani, che, prendendo le distanze dall’immediata attualità, ha sottolineato l’esigenza di approfondire il senso del lungo percorso che ha, progressivamente, condotto gli enti territoriali ad acquisire spazi crescenti di autonomia.
L’idea di autonomia rimanda – come rilevato da Mannori proprio in apertura della sua relazione – alla «facoltà di governarsi da sé», facoltà che tanto più trova giustificazione e ragioni di ampiezza, quanto più la popolazione che ambisce a porsi come autrice e destinataria delle decisioni di governo riesce ad auto-raffigurarsi, e a farsi percepire, come “corpo politico”. È l’essere portatore di peculiari domande di integrazione, di specifiche esigenze scaturenti dal territorio, di definite istanze di matrice storica, culturale, economica, ecc. a rendere una collettività di persone, che occupano un medesimo spazio geografico, qualcosa di diverso da quell’insieme indistinto di persone che Hobbes chiamava, spregiativamente, «moltitudine». Proprio intorno a questo tema, pur facendo le debite distinzioni e proporzioni tra Stato ed enti territoriali minori, si colloca l’interrogativo che, dal punto di vista scientifico, ha animato l’organizzazione del convegno: la crescente conquista di spazi di autonomia da parte delle Regioni e degli enti locali è l’esito della crescente (auto)consapevolezza della natura politica delle collettività regionali e locali o di dinamiche diversamente spiegabili?
Se guardiamo alla storia repubblicana, la risposta sembra, in una certa misura, ambivalente. Inserite in Costituzione pur tra molte, e rilevanti, critiche, le Regioni sono state fin da subito terreno di scontro tra forze politiche radicate a livello nazionale, che vedevano nel regionalismo non tanto un fine in sé, quanto piuttosto uno strumento della lotta politica condotta – appunto – a livello nazionale (le Regioni come possibile contro-potere nei confronti del governo centrale). Che non si sia trattato di una disputa soltanto strumentale lo dimostrano, però, le vicende successive, quando i primi, troppo timidi, tentativi di attuazione furono travolti da interventi più coraggiosi, pensati non come dichiarazioni di principio demagogicamente rivendicabili innanzi agli elettori (e cioè come vuoti elenchi di competenze), bensì come ragionati trasferimenti di funzioni anzitutto amministrative – e, solo come necessaria conseguenza, anche legislative – inserite nel quadro di un ripensamento complessivo dell’organizzazione dei pubblici poteri e delle loro modalità di azione (in specie, attraverso la pianificazione e la programmazione). Un’ottica nella quale Regioni ed enti locali ricevevano, dunque, autonomia non in opposizione allo Stato – né, tanto meno, in contrapposizione tra loro – ma in vista di una collaborazione rivolta a porre i territori nelle migliori condizioni per contribuire al perseguimento di obiettivi unitari. Pur se solitamente lette come completamento della prima fase di attuazione, le vicende successive al 2001 sembrano, sotto questo profilo, avere matrice diversa, ben esemplificata a livello giornalistico – ma non solo – dal declino della “questione meridionale” a favore della “questione settentrionale”. Non un semplice ribaltamento geografico, ma di atteggiamento di fronte ai problemi derivanti dall’unificazione nazionale: se la “questione meridionale” era stata un problema locale di cui farsi carico, attraverso politiche di inclusione, a livello nazionale, la “questione settentrionale” si è fin da subito posta in termini contrari, come un problema nazionale di cui farsi carico, attraverso politiche di esclusione, a livello regionale. Sarebbe fin troppo facile, alla luce delle evoluzioni odierne, denunciare gli esiti in larga misura fallimentari prodotti da tale ribaltamento. Gli interventi che seguono non mirano, tuttavia, a stilare un bilancio della revisione del Titolo V; il loro scopo è proporre una riflessione di più ampio respiro sulla natura degli enti territoriali, e delle Regioni in particolare, alla ricerca dei fondamenti della loro politicità (anche al fine di contrastarne la trasformazione in soggetti eminentemente rivolti alla distribuzione di risorse, sia pure non per forza in maniera clientelare).
In questa prospettiva, lo scritto di Luca Mannori è dedicato a tracciare una retrospettiva dell’utilizzo del termine “autonomia” nel linguaggio giuridico italiano. Utilizzata, a partire dal Sette- Ottocento, come variante indebolita di “libertà”, e con riferimento esclusivo allo studio delle relazioni tra popoli dominanti e popoli dominati nell’antichità, la parola “autonomia” inizia a ricorrere, nell’Italia che conosce le prime pulsioni accentratrici, per contrapporvi i privilegi goduti nel passato da città e comunità locali. Si tratta, però, di un’accezione che non può farsi strada nell’Europa della Rivoluzione del 1789, la cui forza livellatrice, pur non rifiutando l’articolazione territoriale del potere, non può certo far suo il riconoscimento di preesistenti prerogative di favore. È solo tra il 1848 e l’Unità che, in Italia, il termine acquisisce fortuna, quando, anche sulla scia della riflessione kantiana, “autonomia” perde il carattere di forma minore di libertà per acquisire il significato di “vivere libero”, declinabile tanto a livello individuale, quanto collettivo. Dal piano teorico e storico, il lemma si sposta, così, a quello giuridico-amministrativo, acquisendo particolare rilevo proprio con riferimento alla dimensione provinciale e comunale del potere. C’è, però, una contraddizione: da un lato, si afferma, sul piano storico, l’origine plurale dello Stato (grazie al concorso di enti infrastatali dotati di autonomia originaria) e, sul piano teorico, la preferibilità per i modelli basati sulla libertà dei componenti il tutto; dall’altro, si afferma, sul piano giuridico e amministrativo, la necessaria unitarietà dello Stato moderno con l’esigenza di assicurare, in caso di contrasti, la prevalenza dell’interesse generale, col che l’originaria autonomia dallo Stato si trasforma in autonomia nello o per lo Stato. Il termine “autonomia” torna così a eclissarsi, a favore di “autarchia”, parola appositamente coniata proprio per indicare l’assenza di potestà normativa in capo agli enti locali (titolari non della capacità di auto-normarsi, ma solo di auto-comandarsi nell’ambito della normativa statale). Ma è un’eclissi parziale, perché è anche in nome della “autonomia” che viene combattuta la lotta contro il fascismo, che non a caso aveva fatto proprio il concetto di “autarchia”. Si spiega in tal modo il definitivo riemergere, in sede costituente, della nozione di “autonomia”, riconosciuta come attributo proprio non delle sole Regioni, ma di tutti gli enti territoriali, in un contesto di rinnovato pluralismo reso possibile dall’azione unificante della Costituzione.
La nozione di autonomia si pone al centro anche della riflessione di Marco Olivetti, sia pure nella più limitata accezione dell’autonomia statutaria delle Regioni. L’intervento si interroga, in particolare, sulla natura di tale autonomia, riscontrando una contraddizione tra la portata potenziale del testo costituzionale rinnovato (suscettibile di essere interpretato nel senso di un’autonomia ampia, tale da riconoscere agli Statuti regionali il ruolo di Costituzioni substatali) e la sua effettiva applicazione, tramite il concreto esercizio dell’autonomia statutaria, da parte delle Regioni (ben lontano da quell’idea di autonomia, anche a causa della giurisprudenza costituzionale e del contesto politico e culturale in cui si è proceduto all’elaborazione dei nuovi Statuti). A favore di una ricostruzione ampia dell’autonomia statutaria nel dettato costituzionale, Olivetti insiste sulla regionalizzazione del procedimento di formazione (in netta discontinuità, formale e sostanziale, con la disciplina antecedente) e sull’attribuzione alle Regioni della competenza legislativa generale (che ha reso possibile l’adozione di norme di principio in ambito legislativo, e quindi, a maggior ragione, in ambito statutario), pur riconoscendo la contestuale presenza di elementi di centralismo (l’estraneità dello Statuto al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, la supremazia gerarchica della Costituzione, la predefinizione, pur derogabile, di un modello di forma di governo regionale). Tra i principali fattori che non hanno consentito alle Regioni di sfruttare a pieno le potenzialità della riforma, Olivetti stigmatizza le chiusure della giurisprudenza costituzionale (e, in particolare, la negazione della natura costituzionale degli Statuti, la – invero sorprendente – negazione della natura giuridica delle norme di principio inserite negli Statuti, la rigida interpretazione del modello costituzionale standard di forma di governo, la stretta interpretazione del concetto di «armonia con la Costituzione»), nonché l’atteggiamento svalutativo della riforma fatto proprio dagli ambienti politici e culturali dopo il 2001 (per i primi, a causa dell’inconsistente riflessione in materia dei partiti, col risultato di aver lasciato i Consigli regionali «senza bussola»; per i secondi, a causa del prevalere di visioni conservatrici e letture “continuiste”), pur senza dimenticare la grave «fragilità» mostrata dalle classi politiche regionali.
Giorgio Pastori, riallargando l’orizzonte della riflessione agli enti territoriali in senso ampio, ricostruisce le vicende del concetto di autonomia nell’Italia repubblicana, individuando nella tensione tra autonomia e centralismo uno dei tratti fondamentali della nostra storia costituzionale. A giudizio dello studioso, nella prospettiva di una «società che si organizza per governarsi democraticamente», l’art. 5 Cost., con l’affermazione del principio autonomistico, acquisisce, specie dopo il centralismo fascista, un rilievo tutto particolare, perché alla classica divisione orizzontale dei poteri affianca quella verticale. La “Repubblica delle autonomie” trova qui il suo fondamento, benché non adeguatamente recepito dal Titolo V originario della Costituzione, ancora largamente ispirato alla più tiepida idea del decentramento. L’autonomia regionale risultava troppo limitata sul piano legislativo, amministrativo e finanziario, per non dire del piano statutario in cui la prevalenza statale era sancita anche dal punto di vista formale. Quanto a Comuni e Province, il rinvio della loro concreta disciplina alla legislazione ordinaria statale li privava addirittura di un rapporto diretto con il livello regionale, così “spezzando” il fronte delle autonomie in rapporto con lo Stato. In questo quadro, la sostanziale inattuazione, per i primi due decenni repubblicani, delle previsioni costituzionali ha, inizialmente, molto penalizzato il piatto autonomistico della bilancia. Il lento riequilibrio, avviato all’inizio degli anni Settanta, è passato anzitutto per l’immagine che le Regioni seppero dare di sé, come enti a «fini generali, espressione dell’autonomo governo delle rispettive collettività». Da allora, il processo non si è più arrestato, passando per l’approvazione di Statuti regionali effettivamente espressione delle Regioni stesse, il coraggioso trasferimento di funzioni realizzato dal d.P.R. n. 616 del 1977, l’emergere del sistema delle conferenze (che, per la prima volta, hanno portato gli enti territoriali al “centro” del sistema), la nuova disciplina dell’ordinamento locale, il ribaltamento del criterio di riparto delle funzioni ispirato da Bassanini. A segnare la definitiva svolta è stato il nuovo Titolo V della Costituzione approvato nel 2001, finalmente in sintonia con l’art. 5 Cost. grazie all’introduzione (o, meglio, all’esplicitazione) del principio di sussidiarietà quale sintesi di autonomia e centralismo. A dieci anni di distanza dalla riforma, la nuova disciplina costituzionale resta, però, largamente inattuata (specie sotto il profilo finanziario), principalmente a causa della mancata previsione, a livello di istituzioni centrali, di una Camera rappresentativa delle autonomie locali.
In conclusione, sembra di poter dire che l’incontro svoltosi a Torino nel maggio 2011 abbia saputo intercettare una domanda – inerente alla natura profonda del regionalismo italiano – di persistente attualità. Il che giustifica – oltre al loro interesse intrinseco – la, pur tardiva, pubblicazione delle relazioni pronunciate in quell’occasione.
1. Ricercatore di Diritto costituzionale, Università di Torino.