L’approccio giuridico del più piccolo dei T.A.R. alla disabilità: alcune annotazioni sociologico giuridiche alla sentenza del T.A.R. Valle d’Aosta n. 2 del 2019

Ilaria Beltramo[1] e Jörg Luther[2]

I paragrafi 1, 2, 3 sono stati curati dalla Dott.ssa Ilaria Beltramo e i paragrafi 4 e 5 dal Prof. Jörg Luther.

 

 

1. Introduzione.

Commentiamo qui la sentenza del T.A.R. della Valle d’Aosta del 12 Dicembre 2018[3] che affronta la questione della disabilità del bambino. L’intenzione che ci muove è quella di analizzare con le chiavi della sociologia del diritto la decisione giurisdizionale.

Il corpo centrale della sentenza presa in esame riguarda l’annullamento del rigetto della richiesta dei ricorrenti di definire per il figlio minore un progetto individuale ex art. 8 legge regionale n. 14/2008 che aveva fatto seguito, dopo che il Tribunale di Aosta aveva disposto con ordinanza ex art. 700 c.p.c. la non attivazione da parte dell’Azienda USL, della regione Valle d’Aosta, dei servizi di assistenza infermieristica presso la scuola durante l’orario scolastico 2017-2018 in cui “il piccolo – OMISSIS –“ – è stato iscritto.

Proprio l’espressione utilizzata per sostenere l’amputazione del testo pubblicato rispetto a quello scritto dal giudice – cioè l’omissione del nome e cognome per comprensibili ragioni di riservatezza del minore e della sua famiglia – rende questa decisione particolarmente curiosa anche per lo studioso delle scienze sociali, diverse dal diritto, che prova ad avanzare in questa sede, qualche annotazione sociologica e giuridica.

 

2. La sentenza.

Innanzitutto, va evidenziata la situazione clinica del minore in questione, così come indicata dalla sentenza: “sin dalla nascita è affetto da ritardo psicomotorio, micrognazia, deficit di nervi centrali con assenza di deglutizione, disfagia e sindrome di Moebius. Il piccolo presenta infezioni alle vie respiratorie, deve essere alimentato artificialmente e necessita di assistenza costante, specificatamente di assistenza infermieristica specializzata che metta in essere tutte le operazioni necessarie per l’attività respiratoria del bambino e per la sua alimentazione. È stato sottoposto ai fini di diagnosi e cura a diverse visite mediche presso vari ospedali pediatrici […] all’esito degli ultimi ricoveri gli sono stati riscontrati anche deficit della funzione uditiva e visiva”.

Al minore, “in ragione alle gravi patologie da cui è affetto, è stata riconosciuta la condizione di handicap grave ex art. 3 comma 3 della legge n. 104 del 1992, l’invalidità civile con diritto all’indennità di accompagnamento in quanto minore invalido con necessità di assistenza continua per non essere in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”. Data la sua particolare condizione fisica e psichica “è stato riconosciuto come non autosufficiente ai sensi della legge regionale n. 23/2010 ed è in possesso della certificazione per l’erogazione del bonus sociale per disagio fisico per la fornitura di energia in presenza di apparecchiature medico-terapeutiche per il mantenimento in vita”.

Date le sue particolari condizioni fisiche e psichiche, “il piccolo – OMISSIS –“ è stato inserito per l’a.a. 2017-2018 in una scuola con l’elaborazione del relativo PEI (Piano Educativo Individualizzato) redatto sulla base di una relazione clinica che indica come “il bambino non possiede alcuna autonomia personale e necessita dell’assistenza continua dell’adulto” e che inoltre “ in considerazione del severo quadro clinico, è necessario che – OMISSIS – venga seguito da insegnante/educatore, in presenza di assistenza infermieristica”.

 

2.1. Assenza di riconoscimento al minore come essere in sé.

Si può osservare come il protagonista sia “il piccolo – OMISSIS” – e, come esso venga designato sempre con diciture legate a una condizione generale di “minore” o alle sue condizioni fisiche, tali per cui lo status dominante di questo bambino risulta essere quello di “disabile”. Esaminando con più attenzione l’intera sentenza presa in oggetto, si può notare come la parte in giudizio rappresentante “– OMISSIS –” e la sua famiglia, si prodighi a evidenziare normative giuridiche, quali la tutela della salute come diritto fondamentale della Costituzione Italiana[4] oppure l’art. 1 del Dlgs n. 502/1992[5], al fine di far veder riconosciute e attuate quelle assistenze di cui il bambino ha diritto. Nel raggiungere tale obiettivo dell’assistenza, tuttavia, non viene mai fatto riferimento al bambino, bambina o adolescente come essere in sé, cioè dotato di propri diritti e di una propria agency come viene indicato all’interno della Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 Novembre 1989[6], ratificata in Italia il 27 Maggio 1991 con la legge n. 176, e con la Convenzione Europea sancita a Strasburgo nel 1996[7] volta a implementare tali diritti. Difatti all’interno del paragrafo IV intitolato “Il quadro normativo di riferimento”[8] si prendono in esame articoli della prima parte della Costituzione, piuttosto che i diritti delle persone portatrici di handicap all’autonomia, all’integrazione sociale ed alla partecipazione alla vita della comunità e i diritti della famiglia e dei bambini ad una tutela sociale, giuridica ed economica di cui trattano gli art. 15, 16 e 17 della Carta Sociale Europea (Strasburgo, 1996)[9], o le varie garanzie della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza, 2000) e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili (New York, 2006)[10] senza fare alcun riferimento specifico a queste Convenzioni che si occupano principalmente dei diritti dell’infanzia e dei minori. Se anche il giudice amministrativo vuole prendere sul serio le fonti internazionali quando garantisce diritti umani (art. 2) e interpreta le leggi favorendo le organizzazioni internazionali (art. 11) e rispettandone i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali assunti (art. 117 co. 1 Cost.), forse non è sufficiente citare tali fonti in modo generico per interposta sentenza costituzionale.

 

2.1.1. Approfondimento normativo sociologico.

Attraverso la Convenzioni ONU (1989), la Carta Sociale Europea riveduta (1996) e i progressi dei New Childhood Studies (anni ’90)[11] inizia sempre più a diffondersi una nuova idea di infanzia, in cui le bambine e i bambini, le ragazze e i ragazzi sono soggetti di diritti e titolari di questi ma, soprattutto, attivi proprio attraverso le indicazioni delle 3P (Protection, Provision e Participation) di cui la Carta ONU è messaggera e che sono utilizzati anche nella più recente pubblicazione dell’UNICEF, “The State of the World’s Children 2013: Children with Disabilities”, un testo di soft law utilizzabile come guida a un’interpretazione delle fonti domestiche orientata verso le migliori pratiche a livello globale[12].

Tali principi e pratiche mettono sempre più in evidenzia gli aspetti di agency e di riconoscimento che fanno emergere una idea di come un bambino o un ragazzo sia dotato di propri diritti, aspetti questi che solitamente non vengono introdotti nella giurisprudenza, come appunto nel caso in questione.

Nello specifico la prima dimensione è rappresentata dal principio di Protection[13], nei termini di protezione dei minori da ogni forma di violenza, con l’intento di impegnarsi a combattere le offese e gli abusi alla loro persona indipendentemente dalle loro origini, e facilitarne la cura e la crescita da parte dei familiari attraverso la creazione di strutture di sostegno adeguate. La seconda dimensione riguarda il principio di Provision (prestazione)[14], ovvero l’impegno che le istituzioni e gli adulti devono avere nel garantire i bisogni vitali fondamentali oltre che servizi volti a soddisfare le esigenze specifiche dei minori. La terza dimensione invece è relativa al principio di Participation[15], cioè alla promozione della partecipazione dei bambini e dei ragazzi alla vita comunitaria a cui appartengono, come parte avente una propria autonomia e che è in grado di apportare cambiamenti.

Pertanto, oltre al fatto che sono stati in un primo momento negati (o non adeguatamente assicurati) alcuni servizi essenziali individuati attraverso le diagnosi e gli accertamenti sulle delicate condizioni fisiche del bambino come le prestazioni di assistenza vitali e imprescindibili e le operazioni necessarie da attuare per le attività respiratorie e di deglutizione, si può dedurre che il fatto in oggetto, cioè il diniego del “progetto individuale per la persona disabile” di cui all’art. 14 della nota legge n. 328 del 2000, destinato a “realizzare la piena integrazione delle persone disabili (…) nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro” da parte del comune in intesa con l’a.s.l., viola il diritto del minore disabile all’accomodamento ragionevole previsto negli artt. 19 e 25, lett. e) della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006. L’accomodamento è lo strumento attraverso il quale si realizza il diritto del minore rappresentato alla protezione, alle prestazioni essenziali e alla partecipazione alla vita sociale, cioè il diritto alla costruzione della propria vita, oltre ad avere una possibilità di sperimentarsi all’interno di relazioni tra pari. Anche a prescindere da eventuali prognosi infauste, non basta un PEI per mantenere delle chances magari solo minime di partecipazione alle attività ludiche e di formazione come quelle fornite all’interno dell’ambiente scolastico, tenendo conto delle capacità e abilità residuali, e partendo da esse per valorizzarle.

Inoltre, la legge 328/2000 prevede la “presa in carico globale della persona con disabilità” e della sua famiglia, particolare che in questo specifico caso non viene preso in considerazione in quanto l’intero nucleo familiare si trova a dover ricercare e sopperire modalità e soluzione alternative per permettere a loro di poter continuare a essere singoli individui, genitori, coppia, famiglia e non solamente dei caregiver familiari.

 

2.2 Interventi assistenziali sul territorio nazionale.

Partendo dal caso specifico preso in esame e osservando anche i dati Istat[16] dell’a.a. 2017-2018, si può osservare come sebbene l’art.13 della Legge 104/1992 preveda l’utilizzo all’interno della scuola di “assistenti all’autonomia e alla comunicazione” (detti ad personam), nell’a.a. 2017-2018 la domanda di tali figure specifiche non risulti essere stata pienamente soddisfatta, nonostante la media delle ore settimanali di assistenza ad personam per gli alunni con disabilità fosse di circa 12,9 ore, con una differenza di tre ore di supporto in più agli alunni non autonomi del Nord rispetto a quelli del Mezzogiorno.

Per quanto riguarda invece gli interventi di assistenza di tipo infermieristico/specialistico la questione diventa più complicata, tanto che sembra essere molto rara la presenza di queste figure professionali all’interno delle istituzioni scolastiche, e che i genitori di bambini con deficit molto gravi debbano rivolgersi ai tribunali per vedere riconosciuto il diritto alla partecipazione e alla salute dei loro figli. All’interno della nota del MIUR n. 3390/01[17] viene sottolineato come sia compito dell’ente locale fornire assistenza specialistica, ovvero di quei profili come l’educatore professionale, l’assistente educativo, il traduttore del linguaggio dei segni o il personale paramedico e psico-sociale, che svolgono assistenza specialistica nei casi di particolari deficit. Inoltre, la stessa L. 104/1992 all’interno dell’art. 3 fa esplicito riferimento alle situazioni in cui si richiedono interventi assistenziali di tipo permanente, continuativo e globale oltre a sottolineare la necessità di una programmazione coordinata dei servizi scolastici con quelli sanitari, socio-assistenziali e così via. Ne consegue che tale non-attuazione viola non solo la legge ma anche le citate fonti del diritto internazionale e, nel caso specifico, colpisca direttamente il “piccolo – OMISSIS –”.

 

3. Prime osservazioni conclusive.

Alla luce delle fonti internazionali è necessario sottolineare come lo status di bambina o bambino debba essere quello principale, e come il superiore interesse dello stesso debba essere perseguito da tutti gli adulti – oltre che dai compagni – che si prendono cura di lei o lui in caso vi siano disabilità fisiche o psichiche anche gravi al fine di permetterle/gli di vivere una vita il più possibile “attiva” all’interno della comunità in cui abita.

In conclusione, si potrebbe rilevare come a prevalere all’interno della sentenza sia lo status di disabile o paziente e non quello di bambino, mentre invece si sarebbe dovuto forse ricercare un punto di equilibrio tra il bambino, i suoi bisogni e i suoi diritti riconosciuti in quanto minore e legati al suo stato di disabilità. Il dominio dell’etichetta di “disabile grave” e della “incurabilità” della sua patologia allo stato attuale sembra essere andata quindi ad impedire il raggiungimento di un punto di integrazione all’interno degli interventi che devono essere garantiti al bambino, al fine di riconoscere in modo complessivo tutti i suoi bisogni medici, psicologici, educativi e sociali, con i relativi diritti, ma anche al fine di salvaguardare l’unicità e l’assolutezza della persona in tutta la sua complessità.

 

4. La parità di diritti del minore disabile.

La sentenza del T.A.R. Valle d’Aosta è significativa non solo per il giurista dei diritti sociali dei bambini con grave disabilità, in particolare per i loro diritti all’istruzione inferiore (art. 34 Cost.), all’autonomia e (art. 23 Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza), all’integrazione e alla tutela sociale (art. 15-17 Carta Sociale europea), ma anche per un’adeguata assistenza, accessibilità e inclusione sociale in particolare con accomodamento ragionevole nel sistema di istruzione (art. 7, 9, 24); diritti che devono essere riconosciuti e garantiti anche in un caso nel quale il dirigente scolastico e quello sanitario potrebbero ritenere tout court impossibile l’istruzione e l’inclusione, appellandosi all’eccezione “ad impossibilia nemo tenetur” per evitare, dal loro punto di vista, un’inutile sperpero di risorse pubbliche, specialmente se come tali decrescenti.

Se il “progetto di vita individuale” previsto dalla legislazione sociale regionale è qualcosa di più della semplice sommatoria di PAI e PEI, la vita in condizioni di dignità sociale cui è destinato il progetto non può essere abbandonata ad una amministrazione di polizia totale e onnicomprensiva. Il bambino disabile, nell’ottica della Convenzione deve essere sostenuto e assistito in modo differenziato, non mantenuto e assestato in modo uniforme. Nei lavori della commissione bicamerale[18] si è parlato spesso di “disabilità gravi”, ma queste disabilità non sono definite sulla base di criteri oggettivi e non hanno uno statuto speciale. Tuttavia, anche al disabile infantile “grave” con prospettive di vita brevi devono essere dedicate strategie di sviluppo e ottimizzazione, come autonomie minime che possono implicare non solo ulteriori sforzi di diagnosi e terapia sperimentale in alcuni casi, ma anche un sostegno alle famiglie che liberi l’assistenza sociale privata dei genitori dallo stress dell’improvvisazione. L’obiettivo deve essere altresì per chi magari non raggiunge l’età dell’obbligo scolastico l’integrazione nelle strutture degli asili nido e delle scuole materne. Il giudice censura non solo l’omessa inclusione del “piccolo – OMISSIS -”, ma più in generale la mancata considerazione dei casi più gravi di disabilità infantile nei servizi socio-culturali, dettata a quanto pare esclusivamente dalla difficile prevedibilità di costi e oneri di rilievo finanziario. Proprio questi costi e oneri devono tuttavia essere prima preventivati nel progetto di vita e poi coperti, se necessario con variazioni di bilancio.

A questo punto, la pari dignità sociale del bambino gravemente disabile incide sul proprio diritto all’integrazione sociale, diritto che non può essere rispettato con prestazioni sociali a costo zero. Almeno prima facie, la sua dignità sociale concreta vieta non solo di sacrificare tale diritto, scaricando la definizione del progetto di vita e la ricerca e l’attuazione delle prestazioni necessarie integralmente sulla famiglia. La dignità umana vieta anche di subordinare l’erogazione di prestazioni essenziali alla realizzazione di tale diritto sociale a bilanciamenti politici arbitrari. Sarà compito del legislatore regionale garantire la definizione di criteri di adeguatezza e di distribuzione delle risorse da erogare a tutte le persone con disabilità senza poter escludere, anche solo di fatto, la categoria dei disabili infantili gravi. La ragionevolezza finanziaria repubblicana insegna che la gravità della disabilità non può legittimare risparmi, ma esige spese maggiori rispetto a casi di disabilità meno grave.

 

5. Seconde osservazioni conclusive.

Quanto finora osservato dimostra come in questo caso emergono quesiti non solo giuridici per l’analisi dell’autonomia del “piccolo – OMISSIS -”, della sua famiglia, dei servizi erogati dalle varie istituzioni e dei diritti fondamentali di cittadinanza correlati, ma richiede anche il sostegno da parte delle altre scienze sociali. Inoltre, non solleva solo questioni di bioetica in merito a situazioni di accanimento terapeutico[19], ma anche questioni psicologiche della capacità di empatia necessaria per il rispetto della dignità umana costruita non solo sull’autonomia individuale[20]. L’antropologia può interrogarsi sui minimi di capacità cognitive e emotive da sviluppare nel progetto di vita individuale[21], ma potrà sviluppare una fiducia in soggetti “alieni” e potrà mai avere una sorta di sentimento giuridico?[22]

E come si relaziona il giudice che aggiudica l’interesse legittimo a ricevere un “progetto di vita” rispetto agli autori della legge che pensavano magari solo di sperimentare questo nuovo strumento giuridico? La sociologia del diritto evita finora a produrre note a sentenza, come se l’analisi empirica di una sola sentenza e di un solo caso, anche senza interviste ulteriori delle parti e del giudice, non potesse né esigere specifici pareri[23], né produrre alcun sapere sociologico. Questa nota è solo una prima, piccola provocazione che propone di superare i muri che separano le scienze, se si vuole in nome del “piccolo – OMISSIS-”.

 

[1] Dottoranda di ricerca presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale – Componente di OPAL (Osservatorio per le Autonomie Locali), struttura di ricerca incardinata nell’ambito del curriculum giuridico in “Autonomie, Servizi, Diritti” del dottorato dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro.

 

[2] Già Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.

 

[3] Cfr. per una prima annotazione giuridica A. Candido, Quando il diritto diventa finanziariamente incondizionato. Il progetto di vita individuale per lo studente con disabilità grave, Il Piemonte delle autonomie, 1/2019 (18.4.2019).

 

[4] T.A.R. Valle d’Aosta, sentenza 12 Dicembre 2018, sul ricorso numero di registro generale 27 del 2018, pp. 7.

 

[5] Ibidem.

 

[6] I principi guida al suo interno mettono in risalto come venga considerato “bambino” ogni essere umano avente un’età inferiore ai 18 anni. Gli articoli presenti al suo interno possono essere raggruppati in quattro principi guida: 1) Non discriminazione (art. 2), ovvero di applicare e assicurare i diritti sanciti a tutti i minori; 2) Superiore interesse del bambino (art. 3), che vede tale interesse come considerazione preminente in ogni situazione legislativa, giudiziaria, pubblica o privata; 3)Diritto alla vita (art. 6), sopravvivenza e sviluppo riconoscendo il diritto alla vita del bambino e l’impegno ad assicurarne la sopravvivenza e lo sviluppo; 4) Ascolto delle opinioni del bambino (art. 12), cioè il suo diritto ad essere ascoltato in tutti i procedimenti che lo riguardano, soprattutto all’interno dell’area legale.

 

[7] “Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori” adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, entrata in vigore il 1 Luglio 2000 e ratificata in Italia con la legge n. 77 del 20 Marzo 2003.

 

[8] T.A.R. Valle d’Aosta, sentenza 12 dicembre 2018, sul ricorso numero di registro generale 27 del 2018, pp. 4.

 

[9] Sancita il 3 maggio 1996. Ratificata e resa esecutiva con la legge n. 30 del 1999.

 

[10] Ratificata con la legge n. 18 del 2009.

 

[11] Satta C. (2012), Bambini e adulti: la nuova sociologia dell’infanzia, Roma, Carocci Editore.

 

[13] Cfr. all’interno della Convenzione del 1989 articoli 4, 11, 19, 20, 21, 22, 32, 33, 34, 35, 36, 37, 38, 40 e 41.

 

[14] Cfr. all’interno della Convenzione del 1989 articoli 6, 13, 14, 24, 27, 28 e 37.

 

[15] Cfr. all’interno della Convenzione del 1989 articoli 4, 12, 13, 14, 15, 16 e 17.

 

[16] Report Istat pubblicato il 3 Gennaio 2019 – L’inclusione scolastica: accessibilità, qualità dell’offerta e caratteristiche degli alunni con sostegno relativo all’a.a. 2017-2018, consultato il 15 marzo 2019.

 

[19] Cfr. dall’ottica degli health studies M. Freeman, Children at the Edge of Life: Parents, Doctors and Children’s Rights, in: Critical Perspectives on Human Rights and Disability Law, Leiden/Boston 2011, 136: “… there will be situations where we should not impose life on babies whose only experience is pain.”.

 

[20] Cfr. S. Zucca-Soest, Autonomie als notwendige aber nicht hinreichende Bestimmung der Menschenwürde, in: D. Demko, K. Seelmann, P. Becchi (edd.) Würde und Autonomie, ARSP Beiheft 142, Stuttgart 2015, 134ss..

 

[21] Cfr. W. Fikentscher, Antropology and Law, München 22016, 258.

 

[22] Cfr. al riguardo già E. Blankenburg, Empirisch messbare Dimensionen von Rechtsgefühl, Rechtsbewusstsein und Vertrauen in Recht, e M. Oswalt, Vertrauen – eineAnalyse aus psychologischer Sicht, in: H. Hof, H. Kummer, P. Weingart (eds.), Recht und Verhalten, Baden-Baden 1994, 83ss e 111ss..

[23] S. Baer, Rechtssoziologie, Baden-Baden, 32017, 57 sottolinea le pratiche di coinvolgimento di psicologi (sociali) nell’accertamento di gradi di disabilità.