La Corte di Giustizia torna sul danno ambientale e sul principio chi inquina paga
Claudio Vivani 1
La sentenza della Corte di Giustizia in commento riveste notevole rilevanza perché, insieme ad altre tre fondamentali pronunce del 2010 2 , ampiamente citate nella motivazione, completa tendenzialmente il quadro esegetico in materia di imputazione della responsabilità per danno ambientale, tematica che ha sollevato, soprattutto in Italia, un vasto contenzioso giurisdizionale e un ricco dibattito dottrinale.
L’Italia, infatti, sovrappone una disciplina del danno ambientale di matrice comunitaria a una normativa in materia di bonifica dei siti contaminati che presenta contenuti peculiari e autonomi. Il necessario coordinamento fra i due corpi normativi ha generato non poche difficoltà interpretative e non è, dunque, casuale che le quattro pronunce della Corte di Giustizia sopra menzionate originino tutte da questioni di corretta interpretazione sollevate da Giudici amministrativi italiani, e in particolare dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e dal T.A.R. Sicilia, Catania.
Il tema centrale della pronuncia in commento, come detto, è quello dell’imputazione della responsabilità per danno ambientale e, in particolare, dell’imputazione di tale responsabilità (anche) a soggetti differenti dal responsabile del danno, ovverosia al soggetto che lo abbia causato tramite la propria condotta omissiva o commissiva 3 .
In effetti, il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare italiano ha frequentemente di imporre le attività e i costi di prevenzione e di riparazione del danno ambientale anche a soggetti che non fossero i diretti autori dei comportamenti attivi od omissivi che avevano causato l’inquinamento, bensì fossero caratterizzati da una diversa relazione qualificata con le matrici ambientali contaminate o potenzialmente contaminate: ad esempio il proprietario, il custode, l’esercente attività industriali sul sito.
La disamina – sia pure in estrema sintesi – del percorso fattuale e giudiziale che ha portato alla nuova pronuncia della Corte di Giustizia pare dunque necessaria per poterne analizzare adeguatamente la portata nel contesto di riferimento.
Prendendo avvio dalle tre citate pronunce della Corte di Giustizia del 2010, va precisato che esse hanno tratto origine dall’ampia contaminazione del polo industriale siracusano, e in particolare del sito di bonifica di interesse nazionale di Priolo, caratterizzato da una contaminazione complessa, risalente, stratificata nel tempo.
Il Ministero dell’Ambiente ha imputato gli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica alle imprese attualmente operanti nel sito, prescindendo, per consapevole impostazione di principio, dalla ricerca del nesso causale tra le attività dei soggetti obbligati e i pregiudizi ambientali riscontrati. A fronte delle contestazioni delle imprese in tal modo coinvolte, il T.A.R. Sicilia, Catania, ha sollevato numerose questioni interpretative alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in parte incentrate sui presupposti per l’imputazione degli obblighi di messa in sicurezza e di bonifica dei siti contaminati ai sensi della disciplina di cui al Titolo V della Parte IV del D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152 e s.m.i., il cosiddetto “codice dell’ambiente”, alla luce dei principi europei di cui all’art. 191, paragrafo 2, TFUE e della Direttiva2004/35/CE “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale”.
Per quanto qui specificamente rileva, la Corte, nella sentenza della Grande Sezione 9 marzo 2010, C-378/08, Raffinerie Mediterranee ERG S.p.A. et al. c. Ministero dello Sviluppo Economico et al. nonché nell’ordinanza della Sezione VIII, 9 marzo 2010 nelle cause riunite C-478/08 e C-479/08, Buzzi Unicem S.p.A. et al. c. Ministero dello Sviluppo Economico et al., ha enunciato con molta chiarezza il principio secondo cui l’imputazione degli obblighi di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, e quindi anche di messa in sicurezza e di bonifica dei siti contaminati, presuppone l’accertamento da parte dell’autorità amministrativa competente, anche sulla base di elementi indiziari, gravi, precisi e concordanti, del nesso di causalità fra il comportamento del soggetto obbligato e la produzione del danno ambientale 4 .
Le suddette statuizioni della Corte di Giustizia costituiscono il contesto in cui necessariamente collocare le questioni su cui si è pronunciata la sentenza qui in commento. Tanto risulta evidente già in base agli elementi di fatto all’origine della controversia.
Nella fattispecie cui si riferisce la sentenza in rassegna, infatti, un’impresa ha inquinato una determinata area industriale. Benché essa abbia proceduto alla bonifica, quest’ultima si è rivelata insufficiente e l’area è rimasta pertanto contaminata. Successivamente, altre tre imprese hanno acquisito la proprietà di porzioni del sito ancora contaminato, svolgendovi attività non suscettibili di autonomo apporto inquinante né – a quanto risulta dagli atti di causa – determinando o permettendo un aggravamento della contaminazione storica.
Il Ministero dell’Ambiente ha rivolto alle tre imprese suddette l’ordine di adottare misure di messa in sicurezza d’emergenza e di bonifica dei loro terreni “in qualità di custod dell’area, ai sensi dell’art. 2051 del codice civile”, in solido con il soggetto responsabile dell’inquinamento.
Tali ordini sono stati impugnati dalle imprese interessate deducendo di non avere causato la contaminazione e dunque di non poter essere ritenute legittimamente destinatarie di provvedimenti di imposizione di misure di prevenzione e di riparazione della contaminazione e quindi del danno ambientale, e tanto in forza del principio “chi inquina paga” di cui all’art. 191, paragrafo 2, TFUE, richiamato anche dall’art. 3 ter e dall’art. 239 del codice dell’ambiente italiano.
Il T.A.R. Toscana ha accolto i ricorsi delle imprese proprietarie non inquinatrici, conformandosi a un cospicuo orientamento della giurisprudenza amministrativa italiana secondo cui, in conformità al principio “chi inquina paga”, l’obbligo di adottare le misure, sia urgenti sia definitive, volte a fronteggiare una situazione di inquinamento è a carico unicamente di colui che di tale situazione sia responsabile per averla causata. Tale obbligo non può pertanto essere legittimamente imposto al proprietario cosiddetto “incolpevole”, ovverosia al proprietario che non ha causato o contribuito a causare l’inquinamento medesimo 5 .
Il Ministero dell’Ambiente ha proposto appello e la VI Sezione del Consiglio di Stato, con ampia e dettagliata motivazione sui differenti orientamenti giurisprudenziali e sulle ragioni teoriche a sostegno di ciascuno di essi, ha rimesso l’esame degli appelli all’Adunanza Plenaria, sottoponendole la questione di diritto se l’Amministrazione nazionale possa imporre al proprietario di un’area inquinata, che non sia anche responsabile dell’inquinamento, gli interventi di messa in sicurezza e di bonifica dell’area medesima, oppure se essa possa solamente obbligarlo a sostenere i costi di tali interventi, nei limiti indicati dall’art 253 del D. Lgs. 152/2006, e sempre che non possa esservi tenuto il responsabile dell’inquinamento 6 .
Il Consiglio di Stato ha così introdotto nell’elaborazione giurisprudenziale sinora esaminata, incentrata sull’imposizione dell’esecuzione diretta degli obblighi di prevenzione e di riparazione del danno ambientale a titolo di responsabilità, l’alternativa di cui alla disciplina italiana in materia di bonifica dei siti contaminati, e in particolare di cui all’art. 253 del codice dell’ambiente. Ai sensi del quarto comma di tale articolo, il proprietario di un sito contaminato non responsabile dell’inquinamentopuò essere tenuto“a rimborsare […] le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi […]”. Tale obbligo costituisce, alla stregua dei commi 1 e 2, onere reale sulle aree contaminate ed è assistito da privilegio speciale immobiliare sulle aree medesime.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con motivazione estremamente ampia e approfondita, ha condiviso la seconda delle due opzioni ermeneutiche sopra citate, ma ha dubitato della sua compatibilità con i pertinenti parametri di diritto comunitario, e segnatamente con i principi “chi inquina paga”, di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché rispetto alla Direttiva 2004/35/CE. Conseguentemente, ha sollevato sul punto questione di corretta interpretazione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea 7 .
La medesima Adunanza Plenaria ha poi sollevato analoga questione interpretativa in relazione a una fattispecie fattuale del tutto similare, con ordinanza di rimessione 13 novembre 2013, n. 25 8 .
A seguito delle questioni pregiudiziali dell’Adunanza Plenaria la Corte di Giustizia è tornata a occuparsi del tema dell’imputazione delle misure di prevenzione e di riparazione del danno ambientale alla luce dei principi “chi inquina paga”, di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente 9 , nonché della Direttiva2004/35/CE 10 .
L’Adunanza Plenaria ha voluto, ad avviso di chi scrive, approfondire non tanto il principio “chi inquina paga”, quanto il corollario “chi non inquina non paga” 11.
L’Adunanza Plenaria ha, infatti, preso avvio dal presupposto (ampiamente motivato con argomentazioni che hanno già costituito oggetto di approfondite analisi dottrinali e sulle quali non occorre pertanto ritornare, essendo peraltro indiscutibilmente corrette ad avviso di chi scrive) che l’interpretazione letterale e quella logico-sistematica dell’art. 253 del D. Lgs. 152/2006 e s.m.i. conducano a ritenere che il proprietario “incolpevole” (rectius “non responsabile” del danno ambientale per non averlo causato o contribuito a causare) non possa essere obbligato a porre in essere le misure di prevenzione e di riparazione del danno ambientale medesimo 12 .
Infatti, ai sensi del chiaro dettato di cui al quarto comma dell’art. 253 del D. Lgs. 152/2006, il proprietario non responsabile dell’inquinamentopuò essere tenutosolamente“a rimborsare […] le spese degli interventi adottati dall’autorità competente soltanto nei limiti del valore di mercato del sito determinato a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi […]”, laddove è corretto dedurre – attraverso il combinato disposto dell’art. 253, comma 1, e dell’art. 250 in materia di esecuzione ex officio da parte della pubblica amministrazione – che gli “interventi” in oggetto siano tutti quelli previsti dalla disciplina in materia di bonifiche di cui al titolo V della Parte IV del codice dell’ambiente, e dunque siano essi d’emergenza o meno.
Partendo da questo presupposto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato pone due delicate questioni ermeneutiche di compatibilità di tale norma interna rispetto ai più volte menzionati principi e disposizioni europei.
La prima questione, enunciata espressamente, è se la norma di cui al citato art. 253, comma 4, nella sua portata limitativa, sia compatibile con i sopra menzionati principi e disposizioni comunitari nel caso di impossibilità di individuare il responsabile della contaminazione o di ottenere da questi le misure di prevenzione o di riparazione del danno ambientale.
La seconda, che non è espressamente formulata ma costituisce presupposto logico-giuridico implicito della prima, è se la predetta disposizione sia invece in contrasto con i medesimi parametri comunitari nella sua portata non limitativa ma abilitativa, ovverosia nella misura in cui consente comunque di gravare il proprietario non responsabile dei costi della prevenzione e della riparazione del danno ambientale, sia pure entro precisi limiti e subordinatamente a precise condizioni.
La prima questione sembra sottendere la possibilità di un contrasto immanente fra il principio “chi inquina paga” (o forse, più precisamente, fra l’ipotetico corollario “chi non inquina non paga”) con gli altri principi di carattere “preventivo” (principi di precauzione, di prevenzione e di correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente).
Al riguardo va innanzitutto indagata la validità del corollario “chi non inquina non paga”.
Ad avviso di chi scrive essa pare indubbia quando sia possibile individuare un soggetto responsabile del danno ambientale e in grado di sopportarne i costi di riparazione (o di prevenzione, intesa come non aggravamento).
Infatti, il principio “chi inquina paga” trova la sua giustificazione teorica e funzionale sia nell’internalizzazione dei costi e delle diseconomie ambientali in capo al soggetto che li causa, sia nel consequenziale effetto deterrente e quindi preventivo 13 .
Entrambi gli effetti verrebbero notevolmente ridotti qualora tutti o parte dei costi ambientali venissero posti in capo a soggetti che non abbiano causato il pregiudizio ambientale, “sgravandone” conseguentemente e proporzionalmente il soggetto responsabile.
Ne discende in primo luogo la fondamentale esigenza della preventiva ricerca del responsabile e del nesso eziologico (nonché dell’entità dei rispettivi apporti in caso di concorso causale), così chiaramente enunciata dalla Corte di Giustizia nella sentenza in causa C-378/08 e nell’ordinanza nelle cause riunite C-478/08 e C-479/08, entrambe significativamente richiamate nella sentenza in rassegna, sia la conclusione che, come afferma il ventesimo considerando della Direttiva2004/35/CE,“non si dovrebbe chiedere ad un operatore di sostenere i costi di misure di prevenzione o riparazione adottate conformemente alla presente direttiva in situazioni in cui il danno in questione o la minaccia imminente di esso derivano da eventi indipendenti dalla volontà dell’operatore”.
Il carattere di essenziale parametro di legittimità di tale ricerca è stata recentemente nuovamente ribadita dal Consiglio di Stato. Nella recente sentenza della V Sezione n. 3576 del 30 luglio 2015, infatti, il Consiglio di Stato ha ribadito che il cardine del principio “chi inquina paga” consiste nell’imputazione dei costi ambientali al soggetto che ha causato la compromissione ecologica e che, in conformità a tale principio, gli articoli 242, comma 1 e 244, comma 2 del D. Lgs. 152/2006 stabiliscono che, riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza (d’emergenza o definitiva), di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla pubblica amministrazione solamente ai soggetti “responsabili dell’inquinamento”, quindi ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all’inquinamento da un preciso nesso di causalità. L’articolo 244 del TUA è, poi, inequivoco nell’affermare che, individuato un fenomeno di contaminazione, devono essere svolte le “opportune indagini volte ad identificare il responsabile dell’evento di superamento”. Secondo il Consiglio di Stato, dunque, “nessun dubbio sussiste in conseguenza sul fatto che il soggetto obbligato alla caratterizzazione, all’analisi di rischio e alla bonifica o alla messa in sicurezza debba essere l’autore del comportamento che ha causato la contaminazione, che è concettualmente distinto dagli altri possibili soggetti coinvolti o interessati e segnatamente dal proprietario delle aree contaminate […] E’ quindi necessario un rigoroso accertamento al fine di individuare il responsabile dell’inquinamento, nonché del nesso di causalità che lega il comportamento del responsabile all’effetto consistente nella contaminazione. Tale accertamento presuppone una adeguata istruttoria non essendo configurabile una sorta di responsabilità oggettiva facente capo al proprietario o al possessore dell’immobile in ragione di tale sola qualità. Il che implica la ricerca di prove certe e inequivoche, non potendo l’accertamento basarsi su mere presunzioni” 14.
Dunque, entrambe le suddette portate del principio “chi inquina paga” devono potersi esplicare appieno, senza essere attenuate da regole confliggenti, quando sia possibile individuare il responsabile della contaminazione e ottenere da questi le misure di prevenzione o di riparazione del danno ambientale.
Una siffatta illegittima attenuazione parrebbe rinvenibile (beninteso, in base a quanto contenuto nelle pronunce pubblicate e citate in Premessa) nell’impostazione seguita dal Ministero dell’Ambiente nelle ordinanze oggetto dei giudizi a quibus.
Infatti, la scelta di affiancare il proprietario non responsabile al soggetto responsabile, individuato o individuabile, e potenzialmente idoneo a provvedere alla prevenzione e/o alla riparazione del danno ambientale, pare costituire un indebito “alleggerimento” della posizione di quest’ultimo.
Ancora più grave sarebbe la violazione se il suddetto obbligo fosse stato imposto al proprietario non responsabile in assenza della ricerca del responsabile e della ricostruzione del nesso di causalità, per quanto possibile.
Al contrario, le suddette funzioni di internalizzazione e di deterrenza/prevenzione non possono essere esplicate quando manchi uno di questi due presupposti: la possibilità di individuare il responsabile, la capacità dello stesso di provvedere.
In tal caso l’efficacia deterrente non pare configurabile, perché l’imputazione dei costi deve necessariamente gravare su soggetti che non hanno determinato il danno ambientale.
La stessa internalizzazione è impossibile: si tratta in realtà di scegliere se l’esternalizzazione debba gravare sulla collettività o sui soggetti che siano entrati in relazione con i beni inquinati acquisendone la proprietà, o l’uso e il controllo.
In tale ipotesi, dunque, non si può trarre dal principio “chi inquina paga” un corollario, o principio di secondo livello, “chi non inquina non paga”. All’opposto, pagherà necessariamente qualcuno che non ha inquinato.
Quanto alla soluzione della questione di chi debba essere questo “qualcuno”, essa non pare discendere in modo automatico né dai principi di cui all’art. 191, paragrafo 2, TFUE né dalla Direttiva2004/35/CE, bensì sembra essere rimessa alle politiche normative nazionali, purché rispettino i suddetti parametri normativi europei, come del resto espressamente affermato dai punti 58, 59 e 61 della motivazione della sentenza in rassegna.
Infatti, il punto 58 afferma che “conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/35, in combinato disposto con il considerando 20 della stessa, l’operatore non è tenuto a sostenere i costi delle azioni di riparazione adottate in applicazione di tale direttiva quando è in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza, o sono conseguenza di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica (v., in tal senso, sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punto 67 e giurisprudenza ivi citata, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punto 46)”.
Fermo quanto precede, alla stregua del punto 59, “allorché non può essere dimostrato alcun nesso causale tra il danno ambientale e l’attività dell’operatore, tale situazione rientra nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale […] (v,. in tal senso, sentenza ERG e a., EU:C:2010:126, punto 59, e ordinanza Buzzi Unicem e a., EU:C:2010:129, punti 43 e 48)”.
Nell’ambito degli ordinamenti nazionali, poi, il punto 61 della sentenza ricorda che l’articolo 16 della Direttiva2004/35 prevede la facoltà per gli Stati membri di mantenere e adottare disposizioni più severe in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, compresa, in particolare, l’individuazione di altri soggetti responsabili, a condizione che tali misure siano compatibili con i Trattati.
A questo punto, pare evidente che si dovrebbe passare alla seconda questione ermeneutica, quella rimasta inespressa: ovverosia se la disposizione di cui all’art. 253, comma 4, del codice dell’ambiente non sia in contrasto con i parametri comunitari nella sua portata non limitativa bensì abilitativa, ovverosia nella misura in cui consente comunque di gravare il proprietario non responsabile dei costi della prevenzione e della riparazione del danno ambientale, sia pure entro precisi limiti e subordinatamente a precise condizioni.
La Corte non si pronuncia chiaramente.
Da un lato, avalla la soluzione di cui al quarto comma dell’art. 253, perché risponde alla questione pregiudiziale affermando che la Direttiva2004/35/CE deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale che, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito od ottenere da quest’ultimo le misure di riparazione, non consente all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, obbligandolo soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi.
D’altro canto, rimane qualche margine di dubbio come tale limitato (ma spesso tutt’altro che irrilevante) obbligo possa essere ritenuto compatibile con il ventesimo considerando della direttiva, pure richiamato espressamente dalla sentenza (“l’operatore non è tenuto a sostenere i costi delle azioni di riparazione adottate in applicazione di tale direttiva quando è in grado di dimostrare che i danni in questione sono opera di un terzo e si sono verificati nonostante l’esistenza di idonee misure di sicurezza, o sono conseguenza di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica”).
In realtà la tematica andrebbe approfondita ulteriormente. Il principio espresso dal citato ventesimo considerando pare attagliarsi soprattutto al caso in cui il danno ambientale venga inferto ai beni del proprietario non responsabile quando questi sia già titolare dei medesimi: se il proprietario non inquinatore abbia adottato idonee misure di sicurezza, o abbia subito le conseguenze di un ordine o di un’istruzione impartiti da un’autorità pubblica, sottoporlo all’obbligo di sostenere i costi delle misure di prevenzione e/o di riparazione può risultare illogico in quanto disincentivante all’adozione di misure di sicurezza, oppure ingiusto in quanto comporta che le conseguenze di atti amministrativi pregiudizievoli per l’ambiente siano sopportate dal proprietario, invece che dagli enti che tali atti hanno adottato.
Tali conclusioni paiono rimanere valide anche nella diversa ipotesi (che è poi quella del caso di specie) in cui il proprietario non responsabile acquisti la proprietà di un bene che è già stato inquinato precedentemente.
In tale ultimo caso, tuttavia, si possono sovrapporre considerazioni rispondenti a logiche differenti.
Da un lato, l’onere reale di cui all’art. 253 del codice dell’ambiente pare rispondere alla fondamentale funzione di stimolare la diligenza e la cautela nell’acquisto di aree e di beni immobili, tramite l’attenta verifica circa la sussistenza di contaminazioni o pregiudizi ambientali pregressi, ad esempio effettuando la cosiddetta due diligence ambientale.
In tal modo vengono anche disincentivati comportamenti elusivi e poco trasparenti. L’esperienza concreta mostra come tale funzione sia assolta: da quando è entrata in vigore la norma di cui all’art. 253 del D. Lgs. 152/2006 le due diligence epiù in generale le verifiche ambientali da parte degli acquirenti sono aumentate in modo estremamente significativo, contribuendo all’emersione e alla soluzione di un gran numero di criticità ambientali. In altri termini, la circolazione immobiliare è diventata un fattore di controllo delle passività ambientali e di internalizzazione dei relativi costi in capo ai responsabili o agli acquirenti negligenti.
D’altro canto, nel caso di acquisto di aree già inquinate, l’imputazione alla collettività (tramite gli enti pubblici tenuti all’intervento ex officio) dei costi dell’eliminazione delle condizioni di contaminazione che limitino il godimento e il valore del bene non pare conforme ad alcuno dei principi di cui abbiamo trattato nel presente commento.