La differenziazione ‘della’ e ‘nella’ specialità. Spunti dal volume Le variabili della specialità. Evidenze e risconti tra soluzioni istituzionali e politiche settoriali (a cura di F. Palermo, S. Parolari, 2018)
Cherie Faval[1]
(Abstract)
Il recente volume “Le variabili della specialità. Evidenze e riscontri tra soluzioni istituzionali e politiche settoriali”, curato da Francesco Palermo e Sara Parolari, oggetto di recensione nel presente contributo, offre interessanti punti di osservazione e spunti di riflessione sul regionalismo, per come delineato e sviluppatosi nelle Regioni a Statuto speciale. L’analisi si propone di presentare i principali contenuti dei sedici saggi che compongono l’opera, evidenziando le complementarietà emergenti tra la prima parte, dedicata ad aspetti istituzionali delle speciali, e la seconda, incentrata sull’approfondimento di alcune politiche settoriali. Tanto dalla prospettiva istituzionale quanto da quella settoriale, il volume – come suggerito dal titolo – conferma che la diversità delle soluzioni adottate nelle realtà ad autonomia speciale non consente di ridurre le stesse ad unità. Dal quadro che gli Autori tracciano – che coniuga prospettive di analisi classica con profili di indagine innovativi – vengono in luce non solo le peculiarità di tali esperienze regionali, ma anche i profili che evidenziano come, non sempre, gli spazi di autonomia delle speciali siano stati adeguatamente valorizzati, ponendo interrogativi stimolanti rispetto alle prospettive future di tale categoria di Regioni.
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The article reviews the recent book “Le variabili della specialità. Evidenze e riscontri tra soluzioni istituzionali e politiche settoriali”, edited by Francesco Palermo and Sara Parolari, focused on the development of regionalism in the Italian Regions with special status. The analysis aims to present the main content of the sixteen essays composing the publication, highlighting the emerging complementarities between the first part, dedicated to institutional aspects of Regions with special status, and the second part, deepening some sectoral policies. From the institutional as well as the sectoral perspective, the work – as suggested by its title – confirms that the diversity of the solutions adopted in these Regions doesn’t allow to consider them as a unique model. The Authors, by combining classical perspectives of analysis with innovative surveys, outline not only the peculiarities of these regional experiences, but also the fact that the margin of special autonomy has not always been adequately exploited, raising interesting questions about the future of this category of Regions.
1. Le coordinate di uno ‘speciale’ approfondimento.
Negli ultimi tempi, il regionalismo è tema largamente dibattuto, tanto a livello politico quanto accademico. Da quando Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna – poi seguite dalla maggior parte delle altre Regioni a Statuto ordinario[2] – hanno avviato i rispettivi iter di richiesta di “forme e condizioni particolari di autonomia”, si moltiplicano approfondimenti e analisi sul regionalismo ‘differenziato’ o ‘asimmetrico’[3]. In tale cornice, il volume Le variabili della specialità. Evidenze e riscontri tra soluzioni istituzionali e politiche settoriali, curato da Palermo e Parolari, indagando – in chiave attualizzata, critica e, per molti versi, anche propositiva – sulla declinazione più risalente del regionalismo, quello ‘speciale’, offre non solo interessanti punti di osservazione sull’evoluzione delle cinque (o, come spesso precisato nel testo, sei) autonomie speciali, ma anche altrettanto stimolanti spunti di riflessione sulle prospettive future delle stesse.
Strutturalmente, il volume è articolato in due parti: la prima, dedicata ad aspetti istituzionali delle Regioni a Statuto speciale, la seconda all’approfondimento di alcune politiche settoriali. Una combinazione già di per sé sufficiente a suscitare l’interesse del lettore cui sono più frequentemente offerti testi aventi ad oggetto “regole, luci ed ombre” delle autonomie speciali piuttosto che “regole, luci ed ombre” degli oggetti dalle stesse disciplinati[4]. La curiosità stimolata dall’impostazione dell’opera non lascia certo insoddisfatti quanti decidano di addentrarsi nei sedici saggi che la compongono.
Stando alla prima parte, il volume presenta almeno tre profili di interesse. In primo luogo, gli aspetti indagati non sono trattati in chiave meramente descrittiva e ricognitiva, bensì in ottica comparativa e relazionale, grazie alla messa in luce di analogie e differenze tanto ‘interne’ alla specialità – rinvenibilità singole speciali (o relativi sottoinsiemi) – quanto ‘esterne’ alla stessa – rinvenibili in relazione alle ordinarie. In secondo luogo, la disamina della specialità come risultante ‘sulla carta’ è arricchita dal costante riferimento alla giurisprudenza (soprattutto costituzionale) sulla stessa incidente. Infine, i nove saggi combinano prospettive tradizionalmente affrontate dalla dottrina in materia di regionalismo speciale, quali gli istituti di tutela e promozione delle minoranze linguistiche, con prospettive innovative, quali gli strumenti di democrazia partecipativa e i rapporti con l’Unione europea. Analogamente, nella seconda parte dell’opera, la scelta delle politiche di settore accosta, a temi tipicamente regionali, come la sanità, profili relativamente nuovi (quali la tutela dell’ambiente, l’inclusione dei cittadini stranieri, la contrattualistica pubblica e la cooperazione transfrontaliera) e declinazioni moderne di componenti tradizionali (quali la pianificazione territoriale, ‘figlia’ delle previsioni in tema di urbanistica ed edilizia).
Nell’economia complessiva dell’opera, oltretutto, la suddivisione tra la prima e la seconda parte, più che una bipartizione, appare un binomio. In molti casi, infatti, contributi dell’una e dell’altra sembrano quasi dialogare a distanza ed è grazie alla lettura complementare degli stessi che si compone il quadro di quella che – per usare le parole di Parolari– può essere definita una vera e propria “specialità al plurale”[5].
La numerosità dei contributi e la relativa ricchezza di contenuti non consentono di tracciare, in queste brevi note, una rappresentazione esaustiva dei singoli apporti i quali, tra l’altro, stante la ricca bibliografia che li accompagna, sono suscettibili di aprire, a loro volta, percorsi ulteriori di approfondimento[6]. Si tenterà, tuttavia, di individuare le principali linee di riflessione, suggerite dai testi, spesso in combinazione gli uni con gli altri.
2. Declinazioni istituzionali di un ‘non-modello’.
Una prima serie di testi consente di interrogarsi sul se, ed eventualmente in che misura, le soluzioni istituzionali delle Regioni a Statuto speciale possano, esse stesse, essere considerate espressione (e connotato) della specialità. Il saggio che apre il volume (Demuro), indagando sull’esistenza di una relazione tra regime giuridico delle Regioni a Statuto speciale e relativa forma di governo, evidenzia come, né in origine né oggi, la forma di governo delle speciali si sia mai contraddistinta quale elemento peculiare in sé. Al momento della relativa istituzione, l’elemento distintivo delle specialiera da ricercare nelle ragioni (territoriali, linguistiche e storiche) che portarono alla loro identificazione, non anche in una forma di governo a sé stante. Del pari, nel momento in cui è stata riconosciuta alle speciali la possibilità di connotare, con propria legge statutaria, la rispettiva forma di governo, aderendo o meno al nuovo schema ‘presidenziale’introdotto per le ordinarie, “l’intento del legislatore costituzionale[…] non ha raggiunto lo scopo di differenziare le singole specialità per dare ad ognuna la qualità istituzionale espressa dalla forma di Governo”[7]. Che si sia optato per lo schema dell’elezione diretta del Presidente della Regione o si sia invece preferito confermare quello di tipo assembleare, con elezione del Presidente della Regione da parte del Consiglio, la scelta sarebbe stata, ad avviso dell’Autore, meramente funzionale, sia nell’un caso che nell’altro, al mantenimento dello status quo. In tale sostanziale omogeneità, sarebbero il sistema politico, e segnatamente quello partitico, e la regolamentazione in materia elettorale a fare la differenza, o meglio, la specialità. Proprio ai sistemi elettorali e ai partiti delle speciali è dedicato il secondo contributo (Klotz, Pallaver) che porta ad una sostanziale conferma della bipartizione proposta da Demuro[8], con Sardegna, Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Provincia autonoma di Trento accomunate da una regolamentazione elettorale – per le elezioni regionali, nazionali ed europee – in linea con quella delle altre regioni italiane (con, oltre all’elezione diretta del Presidente,sistemi elettorali misti, soglie di sbarramento e premi di maggioranza) e Valle d’Aosta e Provincia autonoma di Bolzano caratterizzate, invece, sul piano interno, da un sistema di elezione indiretta del Presidente della Regione[9] e, su quello nazionale ed europeo, meccanismi di tutela delle rispettive minoranze linguistiche[10]. Se, quindi, in materia elettorale, si constata una tendenziale scarsa propensione alla specializzazione, con riguardo, invece, al sistema dei partiti, gli Autori confermano che è la Sicilia a fare eccezione rispetto alle altre speciali, nelle quali, specie durante la Seconda Repubblica, si è registrata una crescente incidenza dei partiti regionali. Come conclusivamente affermato, tuttavia, “questa tendenza di regionalizzazione e territorializzazione dei partiti[…] non è un’esclusiva delle Regioni a Statuto speciale, ma vale anche per le Regioni a Statuto ordinario”[11].
Guardando, poi, ai contributi dedicati allefonti del diritto (Parolari), all’ordinamento finanziario (Valdesalici) eagli enti locali (D’Orlando, Grisostolo),si inizia a delineare chiaramente il fatto che la specialità, pur esistendo quale categoria in senso formale, data la comunanza della fonte –la Costituzione – su cui si basa il trattamento speciale delle cinque Regioni, non sia, invece, individuabile quale categoria in senso sostanziale, data l’estrema variabilità delle sue declinazioni interne.
Pur nell’inesistenza di un ‘modello’ di specialità,il sistema delle fonti può essere considerato una sorta di minimo comune denominatore alle quattro Regioni e alle due Province autonome. Statuti speciali, leggi statutarie, leggi regionali e norme di attuazione, accomunati dalle rispettive caratteristiche formali (si pensi al rango costituzionale degli Statuti speciali e a quello “para-costituzionale” delle leggi statutarie o all’atipicità delle norme di attuazione), danno vita a dinamiche applicative anche fortemente differenziate. Così, per richiamare solo alcuni dei tanti profili declinati nel testo, mentre i rapporti con il centro, nei contesti sardo e siciliano, si caratterizzanoper una tendenziale separatezza, nelle speciali alpine appaiono maggiormente improntati alla concertazione e alla cooperazione. Analogamente diversificato è il ricorso (quanto a frequenza e contenuti) tanto alle leggi statutarie che alle norme di attuazione, queste ultime considerate la fonte che, più di altre, “palesa l’asimmetria all’interno del sistema regionale speciale italiano”[12]. Una asimmetria che si manifesta in maniera evidente in tema di ordinamento finanziario. Sul fronte dell’autonomia di entrata, previsioni statutarie e norme di attuazione relative al paniere di tributi devoluti a livello regionale, alla quota di gettito ceduta e ai criteri di calcolo del gettito vanno lette alla luce della concreta capacità di incidenzadelle speciali sui tributi statali, variando aliquote o introducendo esenzioni, detrazioni o deduzioni, oltreché della capacità fiscale dei singoli territori, componente fortemente dipendente dall’andamento dell’economia locale. Fattore, quest’ultimo, determinante anche sotto il profilo della speculare autonomia di spesa che, in assenza di disciplina specifica, diventa il vero riflesso della capacità di esercizio dell’autonomia politica e amministrativa da parte dell’ente regionale. Una pluralità di soluzioni ordinamentali – tra l’altro messa recentemente a dura prova, stante la logica, improntata all’omogeneità di disciplina, sottesa alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio– che l’Autrice non si limita a constatare, ma che, ai fini del rafforzamento dell’istituto stesso della specialità, ritiene dovrebbe muovere verso “l’applicazione di parametri comuni, a valorizzazione della trasparenza e della corrispondenza tra funzioni e risorse”[13].
A confermare ulteriormente il grado di asimmetricità è, poi, la disamina degli enti locali. A questo proposito, all’illustrazione delle varianti della disciplina di dettaglio (soggetti, sistemi elettorali, organi di governo, apparati amministrativi, forme associative, controlli, finanza locale e strumenti di raccordo) si aggiunge, come efficacemente illustrato in apertura del relativo saggio, una sorta di asimmetria ‘di sistema’. La circostanza per cui le Regioni a Statuto speciale – la Sicilia sin dall’emanazione del proprio Statuto, le altre da ormai oltre un quarto di secolo[14] – siano dotate di potestà legislativa piena in materia di enti locali non rappresenta solo uno dei numerosi tratti differenziali rispetto alle altre Regioni, sui cui enti locali incide la riserva statale in tema di disciplina elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali (ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. p). Dal punto di vista, appunto, sistematico, l’attribuzione di tale competenza alle speciali avvicina queste ultime alle soluzioni ordinamentali adottate negli Stati federali, nei quali la disciplina delle autonomie locali è tipicamente appannaggio del livello di governo intermedio.
3. Declinazioni settoriali di un ‘non-modello’.
Una seconda serie di contributi, specie se letti in collegamento tra loro, porta alla progressiva messa a fuoco delle cinque Regioni di cui all’art. 116, comma 1, Cost. come entità, che, nel concreto esplicarsi della loro autonomia, si rivelano speciali sì, “ma non troppo”[15]. Dal saggio dedicato agli sviluppi della giurisprudenza costituzionale post 2001(Happacher) – in cui non mancano richiami a quegli elementi, caratterizzanti le speciali, che emergono nella loro portata proprio se considerati dall’ottica del Giudice delle leggi (quali la funzione di norme interposte riconosciuta alle norme di attuazione degli Statuti speciali e alle norme in materia di autonomia finanziariao quella delle clausole di salvaguardia contenute nella legislazione statale, il cui obiettivo sarebbe proprio di “mettere la legislazione statale sopravvenuta al riparo dalla censura di illegittimità costituzionale nei confronti delle autonomie speciali”[16]) – emerge, in particolare, la forte incidenza – in senso restrittivo per le speciali – dell’opera interpretativa della Corte. Vista l’operatività della clausola di maggior favore, di cui all’art. 10 della legge cost. 3/2001, la competenza legislativa delle speciali avrebbe, potenzialmente, potuto allargarsi sia grazie all’acquisizione di nuove competenze sia grazie alla diminuzione dei limiti da osservare nell’esercizio di quelle già attribuite in precedenza (laddove gli Statuti considerano, quali limiti all’esercizio delle competenze, le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, i principi dell’ordinamento giuridico, gli obblighi internazionali e gli interessi nazionali, il Titolo V contempla ‘solo’ la Costituzione, l’ordinamento comunitarioe gli obblighi internazionali). Tuttavia, non solo la Corte non ha generalizzato la diminuzione dei limiti alla potestà legislativa (facendo applicazione della previsione di cui all’art 117, comma 1, Cost. solo alle nuove competenze), ma ha anche fatto derivare, dalla natura e dall’ambito di applicazione trasversale di alcune materie esclusive statali, ulteriori limiti impliciti, riducendo, di fatto, ulteriormente gli spazi della legislazione regionale. Esemplificativo di tale tendenza è il primo dei contributi sulle politiche di settore, dedicato alla tutela dell’ambiente (Alberton, Cittadino). A fronte dell’assenza di esplicite previsioni statutarie sul punto, la ricognizione delle norme che gli Statuti delle speciali dettano in ambiti che si intersecano con l’ambiente (paesaggio, acque, turismo, caccia), delle norme di attuazione che, negli anni, hanno portato all’attribuzione di funzioni direttamente o indirettamente ambientali, e della giurisprudenza costituzionale rilevante porta le Autrici ad esprimersi nei termini di una “subordinazione, in materia ambientale, delle Regioni speciali e delle Province autonome allo Stato”[17]. In tale settore, infatti, non solo si assiste, per esigenze di tutela unitarie, ad un’attrazione in sussidiarietà delle competenze legislative regionali, ma addirittura ad una compressione delle competenze primarie delle speciali, proprio in considerazione dell’operatività dei richiamati limiti. Le finalità unitarie ambientali non sarebbero da intendere quali principi fondamentali della materia, come nell’esercizio di competenze concorrenti, ma quali norme fondamentali delle riforme economico-sociali.
Anche il successivo contributo di settore, sulla pianificazione territoriale (Simonati), in un certo senso, fa –indirettamente – eco ad un contributo della prima parte. Chiarito che la pianificazione territoriale è da intendere quale “disciplina del razionale utilizzo del suolo”[18], comprensiva, pertanto, sia dell’urbanistica che dell’edilizia, e che, benché sotto formulazioni differenziate, la stessa sia attribuita a tutti i legislatori delle speciali quale competenza primaria, il saggio non si limita a dare conto delle previsioni adottate dalle cinque Regioni in riferimento agli strumenti pianificatori e alla relativa efficacia, ma offre anche considerazioni di carattere sistematico. Trattandosi di ambito che necessariamente tocca molteplici profili anche confliggenti (tutela del paesaggio e dell’ecosistema, beni di interesse storico-culturale), l’Autrice evidenzia come la legislazione delle speciali si contraddistingua per una prospettiva teleologica, addirittura “olistica”per le alpine (con norme espressamente improntate alla omnicomprensività degli obiettivi), “collaterale” in Sardegna e “indiretta” in Sicilia. Ulteriore aspetto caratterizzante la materia è il carattere multilivello della pianificazione, frutto dell’apporto non solo dei vari livelli istituzionali coinvolti, ma anche, in molte esperienze (in tutte le speciali, ad eccezione della Sicilia), dei privati, consultati, sotto diverse forme, ai fini dell’affinamento dei contenuti delle normative rispetto alla tutela dell’interesse pubblico. Proprio tale profilo della previsione, nella normativa regionale, di meccanismi di partecipazione dei cittadini è esemplificativa di una delle declinazioni della democrazia partecipativa delle Regioni a Statuto speciale (in questo caso comune anche alle ordinarie), affrontata nel saggio ad essa dedicato (Trettel). Alcune considerazioni sulla corrente crisi della democrazia e un excursus sul fondamento costituzionale della democrazia partecipativa – oculatamente distinta da quella diretta – e della possibilità, anche per gli enti regionali, di dare svolgimento alla stessa aprono il contributo che mette in luce come, sotto tale prospettiva, le Regioni a Statuto speciale, almeno a livello statutario (ove non si annovera alcuna esplicita previsione), risultino deficitarie rispetto a quelle ordinarie che, invece, hanno innovato sul punto in occasione della stagione di riforma dei primi anni duemila. Ciononostante, oltre ad alcuni processi di revisione degli Statuti aperti – seppur ancora senza esiti – alla società regionale, anche nelle speciali sono rinvenibili espressioni concrete di democrazia partecipativa, da un lato, funzionali alla formazione di fonti normative (quali leggi sulla democrazia diretta), dall’altro, esse stesse oggetto di disposizioni normative (come, oltre al citato caso della pianificazione territoriale, lo strumento del “bilancio partecipativo”).
Il volume offre, poi, altri richiami a distanza tra saggi delle due parti. Il contributo sulle minoranze linguistiche (Penasa), da un lato, non si limita ad illustrare, in maniera statica, la disciplina – statutaria e legislativa – di quelle Regioni nelle quali il fattore linguistico rappresenta uno degli “elementi originari”, fondativi della stessa specialità, ma, in maniera dinamica, ne evidenzia le evoluzioni (quali l’effetto di ‘trascinamento’ a favore di gruppi linguistici ulteriori) e ha cura di affrontare il tema anche dalla prospettiva siciliana e sarda, realtà ove il fattore linguistico minoritario assume connotati per lo più culturali. Dall’altro, il testo proietta il fattore linguistico oltre la dimensione di “elemento originario” per assumere quella di “elemento evolutivo”. In questo senso, in una prospettiva di attualizzazione della specialità, il fattore minoritario passerebbe “da elemento giustificativo della specialità”, inteso in ottica conservativa di singole e puntuali diversità,“a fattore di potenziamento della medesima”[19], in quanto fattore di valorizzazione dell’insieme delle diversità socio-linguistiche e culturali che connotano ormai tutti i territori. Dell’accoglimento di una tale prospettiva evolutiva non potrebbe che beneficiare anche il fronte istruzione, indagato in una rassegna (Falanga) introdotta da una ricognizione del quadro nazionale e articolata per singola Regione e per tipologia di fonte. Infatti, se le norme generali sull’istruzione accomunano le speciali tra loro e le ordinarie, il relativo elemento di differenziazione (o meglio di specialità) è proprio il modello linguistico dell’insegnamento. Dal momento che tale modello è utilizzato sia come “strumento conservativo” che come “strumento di sviluppo dell’identità culturale”[20] e che vi sarebbe una coincidenza tra politica linguistica sull’istruzione e politica non solo culturale, ma politica tout court di un territorio, dalla lettura congiunta dei due contributi ne deriva che, quanto più il fattore linguistico minoritario è aggiornato in ottica pluralistica, tanto più inclusivo e plurale sarà anche il modello scolastico delle speciali.
È, infine, quella di una “specialità attenuata” l’immagine che emerge dal testo in tema di sanità (Balduzzi, Paris). Stante la natura del bene tutelato, il diritto alla salute, “la differenziazione ammissibile” è “qualitativamente e quantitativamente minore rispetto ad altri settori”[21]. È così che, uniformate alle ordinarie in punto competenza (dal 2001, le competenze statutarie su “igiene e sanità” sono state fatte confluire nella più ampia competenza concorrente della “tutela della salute”), le speciali non presentano, sulla carta, modelli sanitari ‘speciali’ (al contrario, è tra alcune regioni ordinarie, in particolare la Lombardia, che si rinvengono soluzioni peculiari), tanto che l’organizzazione del relativo servizio sanitario è sostanzialmente aderente a quella rinvenibile nelle ordinarie. Tuttavia, quelle (non tutte) tra le Regioni speciali che ne hanno titolo godono, di fatto, di una maggiore autonomia in ambito sanitario. Ciò in forza del fatto che, delle due serie di limiti da osservare nell’esercizio di tale competenza (rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni e dei principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica), solo i primi possono (e devono) trovare applicazione uniforme sull’intero territorio nazionale. I secondi, invece, si traducono, in definitiva (e non potrebbe essere altrimenti), in un limite in capo allo Stato che non ha titolo per farli valere nei confronti di quelle regioni in cui la spesa sanitaria è posta interamente a carico del bilancio regionale: “lo Stato”, ha chiarito la Corte costituzionale, “quando non concorre al finanziamento della spesa sanitaria, neppure ha titolo per dettare norme di coordinamento finanziario”[22].
4. Nuovi spazi, declinazioni non ancora da prendere ‘a modello’.
Il volume è completato da una sorta di proiezione delle speciali in prospettiva ‘moderna’. Collocate in una dimensione ormai spiccatamente multilivello dei processi normativi e confrontate con schemi improntati al pluralismo territoriale, le Regioni a Statuto speciale non appaiono, ad oggi, sufficientemente ‘attrezzate’. Se, in tale cornice, la riforma del Titolo V del 2001 ha sancito, con l’introduzione dell’art. 117, comma 5, Cost., la costituzionalizzazione della dimensione europea delle regioni, ciò è avvenuto nell’indifferenza rispetto alla differenziazione. Le speciali – che vanterebbero un vero e proprio “interesse statutario”[23] ad essere tenute in considerazione in quei processi sovranazionali suscettibili di incidere sulle competenze loro attribuite – da un lato si trovano a subire una tendenziale omologazione alle ordinarie, dall’altro, nella pratica della partecipazione, non hanno (almeno non tutte), dato prova, sinora, di sapersi realmente distinguere, né in fase ascendente né in fase discendente, e risulta, pertanto, urgente il recupero e la valorizzazione di quegli appigli normativi (quali disposizioni puntuali delle legge di procedura sulla partecipazione ai processi normativi dell’Unione[24]) grazie ai quali continuare a garantire il mantenimento differenziato degli ordinamenti regionali speciali (Nicolini). In tale prospettiva di “scongelamento dei confini nazionali del diritto, superati dalla formazione del diritto europeo”[25], di interesse è, adesempio, la risposta che le speciali hanno dato, in tema di contrattualistica pubblica, all’introduzione delle nuove direttive in materia di appalti (Cozzio). Trento e Bolzano hanno saputo fortemente innovare i propri sistemi, recependo le direttive, con specifiche leggi provinciali rispondenti ai requisiti europei ma, al contempo, calibrate sulle specificità locali. La Sardegna, pur non avendo ancora concluso il relativo iter di approvazione, ha avviato, nel 2015, una revisione organica della propria disciplina in materia di contratti pubblici. Il Friuli Venezia Giulia non ha introdotto disposizioni specifiche, ma assicura il coordinamento delle propria legislazione con quella europea e nazionale, mediante il peculiare strumento delle “direttive vincolanti”. La legge regionale siciliana in materia – constando di una ventina di norme ad hoc, espressione della specialità siciliana, ed effettuando, per il resto, un rinvio dinamico alle disposizioni nazionali – non ha dovuto essere aggiornata. Unica Regione ad aver sostanzialmente abdicato all’esercizio delle proprie competenze è la Valle d’Aosta che, nel 2016, ha meramente abrogato la propria antecedente disciplina in materia, rinviando genericamente a quella nazionale.
Del pari interessante è l’indagine condotta dall’angolo visuale della cooperazione transfrontaliera (Coen). Considerati i due modelli alternativi di cooperazione – di partenariato per progetti e di tipo più istituzionale e strutturato – il contributo si sofferma su quest’ultimo e, in particolare, sul GECT (Gruppo europeo di cooperazione territoriale) e sull’adesione allo stesso da parte delle speciali (agevolate, in tal senso, più che dalla peculiarità della rispettiva autonomia dalla relativa dimensione di confine). Non manca, inoltre, di sottolineare ulteriori aspetti di interesse, quali la dimensione multilivello propria della politica di coesione e il relativo carattere place-based oltreché – a fronte della sopravvenuta inadeguatezza della ripartizione competenziale regionale “per materia” – la possibile esportazione del modello dell’Unione che non “ragiona per materie”, bensì “per politiche”[26].
5. Un futuro modello?
Nell’indagare contorni classici, ma anche moderni della specialità, nell’offrire al lettore elementi giuridici e fattuali atti a sfatare luoghi comuni ma anche ad evidenziare profili di ritardo, se non di arretratezza delle autonomie speciali, nel tracciare bilanci ma anche prospettive, il volume conferma quanto già prefigurato dal titolo. Date le tanti variabili e le poche costanti, non si può affermare l’esistenza di un ‘modello’ di specialità, replicabile (e replicato) nelle sei realtà ad autonomia speciale, potendosi, al più, individuare, tra le stesse o, meglio, tra sottoinsiemi delle stesse,convergenze, similitudini e tendenze. È, infatti, in termini di “asistematicità” che si esprime Palermo, nel capitolo finale che non contiene mere considerazioni ricognitive e conclusive, ma offre stimolanti spunti di riflessione in merito all’evoluzione della percezione della specialità in Italia, inizialmente coperta da una presunzione di straordinarietà e oggi percepita quasi come una risorsa scarsa. È un interrogativo delle ultime pagine a suggerire, poi, una considerazione di fondo. “Davvero”, si chiede Palermo,“le Regioni speciali […] non hanno nulla da aggiungere alla tutela nazionale dei diritti?”[27]. Nel testo –ultimo per ordine di presentazione, ma non certo per importanza– in tema di inclusione dei cittadini stranieri (Medda-Windischer, Carlà, Zeba),le speciali appaiono ben poco speciali. Esse risultano accomunate – salvo eccezioni recenti degli ultimi anni – da uno scarso attivismo legislativo in materia (nonostante dispongano di competenze diffuse non solo in tema di inclusione, ma anche in ambiti indirettamente incidenti sulla stessa, quali sanità, istruzione e politiche abitative), oltreché da una “riluttanza verso l’effettiva e sostanziale attuazione del principio di uguaglianza fra cittadini italiani e stranieri, soprattutto quando tale attuazione si è rivelata economicamente dispendiosa”[28]. Circostanza che, se non è prerogativa esclusiva dei territori ad autonomia speciale, non può che porre interrogativi urgenti proprio nella prospettiva di questi ultimi, come prefigurato da Palermo. Quello dell’inclusione è, infatti, un tema che è, al contempo, espressione di quella multidimensionalità tipica dei processi normativi (ma anche culturali e sociali) attuali, cui le speciali devono imparare a far fronte, ma anche riflesso della sfida – quella della conciliazione delle diversità – che è (stata) alla base dell’esistenza stessa delle speciali. In questo, come in tutti gli ambiti in cui si esplica la loro autonomia, non solo per continuare a giustificare la propria specialità, ma anche per poterne attualizzare strumenti e spazi di intervento, le speciali non possono perdere l’occasione di provare a diventare davvero un modello. Un modello da intendere non come mero prototipo, schema-tipo di una serie di realizzazioni successive, bensì come riferimento esemplare, da imitare e al quale tendere. Un modello capace di anticipare e sperimentare soluzioni istituzionali e politiche settoriali, in una competizione, che, in tema di uguaglianza, diritti e opportunità, può essere solo al rialzo.
[1] Dottoranda di ricerca presso l’Università Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”- Componente di OPAL (Osservatorio per le Autonomie Locali), struttura di ricerca incardinata nell’ambito del curriculum giuridico in “Autonomie, Servizi, Diritti” del dottorato dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.
[2] Dossier Senato n. 48/2018, Verso un regionalismo differenziato: le Regioni che non hanno sottoscritto accordi preliminari con il Governo.
[3] Si vedano, tra i tanti, i recenti contributi di Dogliani M., Quel pasticciaccio brutto del regionalismo italiano e Costanzo P., Le Regioni tra tendenze evolutive e prospettive future, apparsi sul precedente numero della presente Rivista.
[4] L’espressione è utilizzata, nell’introduzione dell’opera (p.5), da Massimo Carli che richiama, quale antecedente propedeutico a quello qui in commento, il volume Il futuro della specialità regionale alla luce della riforma costituzionale, anch’esso a cura di Palermo e Parolari. Di Carli, si richiama la recente opera Diritto regionale. Le autonomie regionali, speciali e ordinarie, Giappichelli, 2018.
[5] P. 98.
[6] Si segnala, per inciso, che molti dei contributi confluiti nell’opera sono stati illustrati nel corso della XXXIX Conferenza scientifica annuale dell’AISRE, dal titolo Le regioni d’Europa tra identità locali, nuove comunità e disparità territoriali (Bolzano, 17-19 settembre 2018).
[7] P. 20.
[8] Per completezza, è d’obbligo rilevare che il grado di approfondimento del saggio porta, altresì, all’individuazione di convergenze e divergenze tra diversi sottoinsiemi di Regioni, relativamente a svariati altri aspetti, tra i quali la tutela della rappresentanza delle minoranze.
[9] Sotto altri profili, le due alpine si discostano, invece, considerevolmente, rivenendosi, ad esempio, solo a Bolzano un sistema proporzionale puro, senza soglie di sbarramento e premio di maggioranza. Si noti, poi, ad integrazione di quanto illustrato nel testo che, una volta che la recente modifica introdotta in Valle d’Aosta (approvata dal Consiglio regionale a febbraio 2019), in tema di numero di preferenze, entrerà in vigore, le due alpine si troveranno, sotto tale aspetto, in situazione diametralmente opposta, con una sola preferenza esprimibile in Vallée, a fronte delle quattro previste a Bolzano.
[10] Limitatamente alle elezioni del Parlamento europeo, la disciplina è estendibile anche alla minoranza slovena.
[11] P. 70.
[12] P. 90.
[13] P. 197.
[14] L. cost. 23 settembre 1993, n. 2.
[15] P. 225.
[16] P. 239
[17] P. 344.
[18] P. 347.
[19] P. 315.
[20] P. 525.
[21] P. 484.
[22] Corte cost., sent. n. 133/2010.
[23] P. 248.
[24] Artt. 24, comma 11, e 59 l. 24 dicembre 2012, n. 234.
[25] P. 416.
[26] P. 540.
[27] P. 565.
[28] P. 411.