La giurisdizione in materia di danni arrecati da amministratori e dipendenti delle società pubbliche, con particolare riferimento alle società in house. Un breve excursus storico
Andrea Dublino1
La dimensione quantitativa del fenomeno delle società pubbliche.
La problematica dell’individuazione del giudice cui attribuire la giurisdizione nei confronti di amministratori e dipendenti di società controllate, in maggioranza o totalmente, da enti pubblici, è considerata di capitale importanza, soprattutto alla luce delle dimensioni quantitative del fenomeno e delle relative ricadute economiche. In tal senso è utile il “Rapporto sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche” del dicembre 2013, stilato dal Ministero dell’economia e finanze avvalendosi di dati limitati al 2011, nonostante la scarsa collaborazione di circa il 60 % dei Comuni medio-piccoli. L’analisi, a parte sottolineare l’importanza delle partecipazioni relative gli ex enti pubblici nazionali, mette in risalto come, in realtà, “le partecipazioni detenute dalle amministrazioni locali rappresentano il 98% di quelle complessivamente rilevate per il 2011”. Il rapporto prosegue affermando che “sono state censite circa 7.300 società e sono stati individuati oltre 30.100 “legami” (di cui 24.500 partecipazioni dirette e 5.500 partecipazioni indirette) tra queste e le amministrazioni pubbliche”. Pare quindi essere sorto negli ultimi anni un nuovo “protagonismo” economico soprattutto locale2 sulla cui efficacia, in termini puramente economici, esiste qualche perplessità visto che, relativamente ai risultati d’esercizio riguardanti l’annata considerata, sono state stimate perdite dell’ordine di miliardi di euro (2.2 mld).
Anche la cronaca giudiziaria ci segnala come la miscela di norme, di natura pubblicistica e privatistica, poste a tutela di interessi assai diversi, sia stata spesso strumentalizzata al fine di consumare gravi abusi da parte di amministratori, controllori e dipendenti delle s.p.a. partecipate da enti pubblici, approfittando delle sacche di relativa impunità annidate negli interstizi fra giurisdizione ordinaria e contabile. Tali considerazioni, lette alla luce della fase particolarmente delicata per la finanza pubblica, rendono la questione della giurisdizione sui danni erariali commessi attraverso le società pubbliche di intuibile delicatezza.
Inquadramento della questione.
Il primo riferimento normativo in materia di giurisdizione della Corte dei Conti è rappresentato dall’art. 103, c. 2, della Costituzione, nella parte in cui la circoscrive alle “materie di contabilità pubblica” ed alle altre specificate dalla legge, sostanzialmente recependo la situazione normativa anteriore l’innovazione costituzionale. La giurisdizione per danni erariali della Corte dei conti, infatti, già prima dell’approvazione della carta fondamentale era definita delimitando soggettivamente l’area del pregiudizio risarcibile.
Dal lato attivo della condotta dannosa, essa era riferita alle sole persone fisiche, fossero esse “funzionari” (ex art. 13 del R.D. 1214/1934) o “impiegati” pubblici (ex art. 82 del R.D. 2440/1923 ed art. 18 del DPR n°3/1957). Tuttavia, nel tempo, questo lato del perimetro soggettivo è stato esteso, per via interpretativa, ad organismi soggettivamente complessi, con o senza personalità giuridica (società ed associazioni non riconosciute). Il processo di ampliamento ha comportato un costante lavoro da parte della giurisprudenza volto all’individuazione degli indici rivelatori del “rapporto di servizio” tra il soggetto complesso e l’ente pubblico per radicare la giurisdizione contabile.
In relazione al carattere “personale” della responsabilità amministrativo-contabile, ci si pone l’interrogativo se l’organismo complesso debba sempre rispondere in luogo dei suoi dipendenti ed amministratori. Rispetto la legittimazione passiva innanzi alla Corte dei conti le soluzioni adottate sono state varie: da quelle che, in relazione anche all’art. 1228 c.c., hanno propugnato la legittimazione “esclusiva” della società, a quelle che hanno affermato la convenibilità delle sole persone fisiche che avevano agito per essa, nell’intento di superare lo schermo societario e “sanzionare” i materiali responsabili della società medesima, soprattutto quando la gestione fosse avvenuta tramite il concreto maneggio di fondi pubblici. Sono state pure avanzate soluzioni di convenibilità “congiunta” della società e degli agenti materiali che per conto di essa avessero agito, nel tentativo di definire un equilibrio fra le opposte esigenze: quella di risarcimento (a tutela quindi del creditore danneggiato), e quella di massima affermazione del carattere personale della responsabilità (a tutela invece del danneggiante)3.
Sul versante del soggetto passivo della condotta antigiuridica, le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno riconosciuto costantemente la giurisdizione della Corte dei Conti in materia di responsabilità degli amministratori e dipendenti di enti pubblici non economici. Sin dalle sentenze n. 2616 del 1968 e n. 363 del 1969 il giudice della giurisdizione ha giustificato tale affermazione attraverso l’immediata portata precettiva del ricordato articolo 103 della Costituzione. Tuttavia, era costante la precisazione che dovessero ricorrere contemporaneamente due elementi affinché si potesse ricadere nella nozione di contabilità pubblica: uno soggettivo, la natura pubblica del soggetto a cui l’agente fosse legato da un rapporto di impiego o di servizio e l’altro oggettivo, la qualificazione pubblica del denaro o del bene gestito rispetto al quale si fosse verificato l’evento dannoso.
Tuttavia, in passato, i limiti esterni della giurisdizione della Corte de Conti, come per il giudice amministrativo, erano più netti poiché ricorreva una pressoché sistematica coincidenza tra la natura pubblica dell’attività svolta dall’agente ed il suo inserimento “organico” fra i ranghi della pubblica amministrazione. L’evoluzione dell’ordinamento ha reso questi confini assai più incerti, da un lato, estendendo le finalità della pubblica amministrazione in ambiti prettamente privatistici, dall’altro, affidando sempre più spesso a soggetti privati la realizzazione di finalità un tempo appannaggio esclusivo degli enti pubblici. In quest’ottica anche le Sezioni Unite della Cassazione, per evitare lo svuotamento della giurisdizione contabile rispetto al cuore della sua competenza, la responsabilità amministrativa, hanno iniziato a privilegiare un approccio alla definizione dei confini giurisdizionali più “sostanzialistico”. Così ad un criterio eminentemente “soggettivo”, fondato sulla condizione giuridica pubblica dell’agente, si cominciò a preferire un criterio “oggettivo”, incentrato sulla natura pubblica delle funzioni espletate e delle risorse finanziarie a tal fine adoperate. Si è pertanto affermato che per individuare il confine fra giurisdizione della Corte dei Conti e giudice ordinario occorresse intendere il rapporto di servizio tra l’agente e la pubblica amministrazione in senso “funzionale”, includendovi ogni atto di “relazione” con cui la pubblica amministrazione avesse investito il soggetto, di per sé estraneo all’organizzazione burocratica, del compito svolgere in “sua vece” un’attività indipendentemente dalla natura giuridica dell’investitura (provvedimento, convenzione o contratto), o del soggetto agente, persona giuridica o fisica, privata o pubblica (così S.U. 3 luglio 2009, n. 15599; 31 gennaio 2008, n. 2289; 22 febbraio 2007, n. 4112; 20 ottobre 2006, n. 22513; 5 giugno 2000, n. 400; S.U., 30 marzo 1990, n. 2611, ed altre conformi).
In particolare, con l’ord. n. 19667 del 2003, le Sezioni Unite hanno interpretato le novità della legge n. 20 del 1994 estendendo la giurisdizione contabile alle controversie relative la responsabilità di privati funzionari di enti pubblici economici, non soltanto per i danni cagionati nell’espletamento di funzioni pubbliche o comunque attraverso poteri pubblicistici, ma anche per quelli conseguenti al perseguimento delle finalità istituzionali proprie dell’amministrazione pubblica mediante moduli organizzativi disciplinati dal diritto privato, compresa l’ordinaria attività imprenditoriale, in precedenza ricondotta al giudice ordinario (S.U., 22 dicembre 2003, n. 19667). La Cassazione ha preso spunto dalle disposizioni sulla trasformazione in S.p.a. dell’Iri, dell’Eni, dell’Ina e dell’Enel (art. 15 del d.l. n. 333/1992, convertito in l. n. 359/1992), dalla sentenza n. 466/1993 della Corte Cost., che ha confermato il controllo della Corte dei Conti sulla gestione finanziaria di tali organismi, pur dopo la loro trasformazione in S.p.a., almeno “fino a quando permanga una partecipazione esclusiva o maggioritaria dello Stato al capitale azionario di tali società” e dalla stessa giurisprudenza delle sezioni penali di legittimità (S.U. Ord. n. 19667/2003, Cass. Sez. I pen. n. 10027/2000 e Cass. Sez. IV Pen. n. 20118/2001). La conseguenza è che il dato essenziale radicante la giurisdizione del giudice contabile diviene l’evento dannoso verificatosi a carico di una pubblica amministrazione e non più il quadro di riferimento (pubblico o privato) nel quale sì collochi la condotta produttiva del danno (S.U., 25 maggio 2005, n. 10973; 20 giugno 2006, n. 14101; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3367; S.U. 9 maggio 2011, n. 10063). In particolare, è l’oggetto del danno a rilevare poiché il “discrimen” tra la giurisdizione della Corte medesima e quella del giudice ordinario “risiede unicamente nella qualità del soggetto passivo e, dunque, nella natura delle risorse finanziarie di cui esso si avvale” (sviamento finanziario).
All’indomani di questo netto ripensamento, la dottrina4 si è posta l’interrogativo se simili affermazioni fossero automaticamente estendibili anche ai danni inferti dagli amministratori e dipendenti delle società partecipate dagli enti pubblici. Un primo orientamento ha ritenuto che la nuova posizione implicasse un riconoscimento alle società pubbliche di una soggettività pubblica in conseguenza della natura pubblica delle risorse impiegate. Si è sostenuto che mediante l’esercizio dell’azione risarcitoria della Procura contabile si sarebbe superato il conflitto di interessi interno tra gli amministratori di tali società e la società medesima, in ordine all’esercizio dell’azione risarcitoria innanzi al giudice ordinario da parte dei primi (o dei soci che li hanno scelti) per i danni provocati da loro stessi alla persona giuridica. Altra posizione, invece, ha constatato come la pronuncia si fosse espressa solo rispetto agli enti pubblici economici e non anche alle società partecipate (non essendo oggetto del giudizio).
Proprio in tal senso, le S.U., con la sentenza n. 3899 del 2004, hanno affermato la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti dei dipendenti di una società partecipata in maniera quasi esclusiva del Comune di Milano, per i danni da tangenti da esso risentiti richiamando il “collaudato” criterio del “rapporto di servizio” tra la società e l’ente territoriale. In quest’ottica la soggettività delle società partecipate rimarrebbe privata, pur in presenza di risorse impiegate di natura pubblica. Il rapporto di servizio non verrebbe più in rilievo solo come criterio di collegamento tra la società stessa e l’ente pubblico (“estrinseco”), ma anche come criterio mediato5 (“intrinseco”) di individuazione, all’interno della società, del responsabile dell’illecito inserito funzionalmente nell’organizzazione dell’ente. Alla luce della pronuncia del 2004, la soggettività giuridica privata, in materia di danno provocato dai suoi operatori nello svolgimento di attività pubblicistica avvalendosi di risorse pubbliche, rimarrebbe ancorata al diritto civile (criterio soggettivo-formale) e alla giurisdizione ordinaria. Infatti, per radicare la giurisdizione contabile rispetto alla società dovrebbe ricorrere un autonomo rapporto di servizio, anche funzionale, senza che la pubblicità oggettiva possa determinare alcun superamento dello schermo societario verso la “fisicità” degli agenti. In assenza di un rapporto di servizio, pur inteso in senso funzionale, le società partecipate, anche quando finanziate dal settore pubblico, non sarebbero soggette alla giurisdizione del giudice contabile, in nulla differendo dagli altri soggetti privati6.
In dottrina, all’interno del variegato sintagma delle “società pubbliche”7 (genus caratterizzato dalla presenza nel capitale sociale di un ente pubblico) si distinsero le cd. società in house (species su chi ci dilungheremo in seguito). Queste ultime, caratterizzate da totale capitale pubblico, rapporto di fornitura esclusivo e sottoposizione al “dominio analogo” della PA, sarebbero null’altro che enti pubblici strumentali sotto forma societaria. Per tali società il criterio di collegamento sarebbe, quindi, “analogo” a quello degli enti pubblici economici fondato sulla natura pubblica dell’organismo ricostruita valorizzando il tipo di controllo sulle finalità esercitato dall’ente socio. Così l’azione erariale di danno dovrebbe calare direttamente contro gli amministratori e dipendenti di tali società, sia per i danni provocati al patrimonio sociale e sia per quelli provocati all’ente pubblico-socio e/o all’ente pubblico non socio (con il quale ultimo le società in discorso possono anche venire in contatto, nell’espletamento di un’attività diversa, ma assolutamente marginale, rispetto a quella istituzionale), secondo la filosofia – in questo ultimo caso – del “danno ad ente diverso da quello di appartenenza”, ex art. 1, c. 4, della l. n. 20/1994.
Tuttavia, il rapporto di servizio, che, estensivamente interpretato, ha consentito di attrarre nella giurisdizione contabile soggetti privati sia formalmente che sostanzialmente (società integrate in programmi pubblici di spesa per particolari finalità), una volta utilizzato rispetto a soggetti formalmente privati, ma sostanzialmente pubblici, ha mostrato aspetti critici che non lo rendono del tutto “funzionale” allo scopo riparatorio. Se il presupposto di ogni funzione risarcitoria è pur sempre costituito dalla piena autonomia patrimoniale fra danneggiante e danneggiato, dovendo l’ente socio, in ultima analisi, ricostituire in proporzione il patrimonio sociale necessario alla riparazione del danno ad esso stesso arrecato dagli amministratori della controllata, l’azione risarcitoria realizzerebbe una mera “partita di giro” 8. Il ragionamento vale in linea di principio anche per le ipotesi di controllo societario parziale, ma è evidente che se l’apporto azionario pubblico tende verso la totalità del capitale il bacino di risorse da cui si pesca è, in definitiva, il medesimo (quello dell’ente socio), pertanto, il risarcimento, a parte il problema di giurisdizione, si risolverebbe in una traslazione del danno fra due componenti della stessa generale soggettività. Proprio per evitare di gravare il risarcimento del danno generato dagli amministratori della società pubblica sul bilancio dell’ente pubblico azionista, la Cassazione, seppur sporadicamente, ha riconosciuto la giurisdizione della Corte dei Conti “direttamente” nei confronti di amministratori e dipendenti di società legate alla P.A. dal consueto rapporto di servizio, e persino ammettendo l’astratta legittimazione passiva concorrente della società insieme al suo dipendente (Cass. S.U. n. 922/1999). Il risultato è stato ottenuto “doppiando” il rapporto di servizio, individuandone uno ulteriore “di fatto” fra dipendente della società e P.A., aggiuntivo rispetto quello fra società ed ente-socio (Cass. S.U. n. 14473/2002 e ord. 5019/2010).
Nel contesto dottrinale e giurisprudenziale incline al sostanziale riconoscimento della giurisdizione contabile sulle società partecipate, è intervenuto l’art. 16 bis del d.l. n. 248/2007, convertito nella legge n. 31/2008, il quale prevede che: “per le società con azioni quotate in mercati regolamentati, con partecipazione anche indiretta dello Stato o di altre amministrazioni o di enti pubblici, inferiore al 50%, nonché per le loro controllate, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile e le relative controversie sono devolute esclusivamente alla giurisdizione del giudice ordinario”. Riqualificando soggettivamente le partecipate di minoranza, da soggetti “danneggianti” a “danneggiati”, l’art. 16 bis avrebbe rinnegato il tradizionale criterio del rapporto di servizio, attribuendo, a particolari condizioni, la giurisdizione sui danni arrecati dagli amministratori delle società de quo esclusivamente al giudice ordinario. Relativamente alle partecipate maggioritarie, invece, l’art. 16 nulla dispone. Allora si è ipotizzata, a contrario, una giurisdizione esclusiva a favore della Corte dei Conti simmetrica a quella del giudice ordinario per le società pubbliche9 o almeno per le quotate maggioritarie. Inoltre, è stata pure avanzata l’idea di una giurisdizione concorrente, analogamente a quanto avviene nel processo penale per la costituzione di parte civile della P.A., ferma restando comunque la giurisdizione del Giudice Ordinario per i danni al socio privato10.
La prevalenza dell’approccio “sostanzialista” su quello “formalista” ha trovato un netto punto di svolta, in favore del secondo, a seguito della sentenza delle S.U. n. 26906 del 2009. I capisaldi di quel ripensamento sono i seguenti:
1)La constatazione che nella logica della scarna disciplina codicistica (artt. 2449-2450 c.c.) “la scelta della pubblica amministrazione di acquisire partecipazioni in società private implica il suo assoggettamento alle regole proprie della forma giuridica prescelta”, in ciò confermata dalla stessa relazione illustrativa al codice (“E’ lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurare alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”). L’approccio segna un ritorno al criterio soggettivo-formale.
2)Si afferma la distinzione tra la posizione della società partecipata, cui eventualmente fa capo il rapporto di servizio instaurato con la pubblica amministrazione, e quella personale degli amministratori (e degli organi di controllo della stessa società), i quali non s’identificano con l’ente privato, sicché non sarebbe loro estendibile il rapporto di servizio di cui la società medesima sia parte.
3)La novità normativa dell’art. 16 bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha convertito il d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, costituendo una deroga, non sarebbe enfatizzabile (da qui l’esclusione di semplicistiche soluzioni a contrario in favore della giurisdizione contabile). La Corte, invece, dal vuoto di coordinamento normativo fra azioni ordinarie e di responsabilità contabile, trae argomento per concludere nel senso della prevalenza delle regole civilistiche in favore della giurisdizione ordinaria intese quali principi generali.
4)Sulla scorta dell’autonomia patrimoniale fra ente societario e soci, del danno diretto alla sfera giuridico patrimoniale della società causato dai suoi agenti solo quest’ultima potrà dolersi (art. 2393 e seg. e 2476). Simmetricamente del danno causato direttamente ai singoli soci o a terzi saranno costoro legittimati ad agire (artt. 2395-2476). Il tipico danno diretto all’ente pubblico è costituito dal danno all’immagine del socio pubblico causato dagli amministratori e dipendenti della società e soprattutto il danno arrecato dal colpevole mancato esercizio dei propri diritti di socio in pregiudizio del valore della partecipazione (ad es. non agendo in via risarcitoria nei termini prescrizionali contro i responsabili diretti).
5)L’applicazione delle regole civilistiche non comporterebbe alcun un vuoto di tutela degli interessi pubblici poiché sopravvivrebbe il profilo di responsabilità amministrativo-contabile nei confronti degli amministratori del socio pubblico che avessero trascurato di esercitare i propri diritti in sede ordinaria (a maggiore ragione il vuoto non sussisterebbe in quanto per le S.p.a., ex art. 2393 bis c.c, è consentito l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità anche ad una minoranza qualificata di soci, mentre, ex art. 2476 c.c., per le s.r.l. tale diritto è attribuito a ciascun socio: dunque, l’ente pubblico socio sarebbe sempre legittimato all’azione risarcitoria).
In definitiva, tale approccio si allontana dal criterio oggettivo di riparto della giurisdizione tra giudice contabile ed ordinario incentrato sulla riconducibilità alla funzione pubblica, intesa in senso lato, per un approccio ricostruttivo in cui il discrimine fra le due giurisdizioni rispetto alla fattispecie oggetto di discussione è dato dall’esistenza o meno di un danno diretto alle risorse pubbliche effetto di un’azione od omissione illecita degli organi sociali (elevando l’immediatezza del nesso causale fra evento e condotta a nuovo criterio di riparto). Tale orientamento, nel corso degli anni successivi, si è andato consolidando senza eccessivi scostamenti e pare costituire oggi giurisprudenza pacifica. Una significativa eccezione è rappresentata dalla pronuncia S.U. n. 27092 del 2009 con cui la Cassazione ha riconosciuto la soggettività pubblica alla Rai derivandone la giurisdizione contabile in ordine alle azioni di responsabilità amministrativa per i danni cagionati dai membri del consiglio di amministrazione di quella società. Tuttavia, la Rai, rispetto agli altri enti partecipati, è caratterizzata dalla peculiare istituzione avvenuta per diretta opera della legge, costituendo un esempio delle cd. “società legali”, soggetti in cui la veste societaria sarebbe talmente “superficiale” da giustificare la riqualificazione in senso pubblicistico sulla scorta della stessa legge istitutiva (e rispettando, così, la riserva per l’istituzione di ulteriori enti pubblici prevista dall’art. 4 della legge n. 70 del 1975 in materia di parastato). In realtà, la dottrina ha avanzato dubbi anche rispetto alle società legali in quanto l’uso legislativo della qualifica di s.p.a equivarrebbe pur sempre ad un rinvio automatico al diritto societario comune11.
La sentenza delle S.U. della Corte di Cassazione n. 26283 del 2013.
La pronuncia in commento ha cassato con rinvio la sentenza n. 631/2012 della III Sezione centrale d’appello della Corte dei Conti, accogliendo il ricorso della Procura territoriale, avverso la denegata giurisdizione del giudice contabile nei confronti degli amministratori di società partecipate da enti pubblici caratterizzate da un legame con la PA di tipo “gerarchico”, le c.d. società in house. La Sezione Lazio della Corte contabile aveva condannato gli amministratori al risarcimento del danno nei confronti di una società per azioni (operante nel settore del trasporto pubblico), partecipata interamente da un Comune. La III Sez. centrale aveva accolto l’appello degli interessati che avevano eccepito il difetto di giurisdizione, superando l’argomentazione fondata sul “controllo analogo” ed esaltando, invece, il carattere “indiretto” del danno per dedurne la giurisdizione ordinaria.
L’espressione in house providing appare per la prima volta nel libro bianco della Commissione europea del 1998, facendo riferimento agli appalti aggiudicati all’interno della p.a., o fra l’ente pubblico ed una società totalmente in mano pubblica. Dal punto di vista economico, l’istituto allude all’auto-produzione (fenomeno contrario all’esternalizzazione) e costituisce la ragione alla base della deviazione dalla disciplina comunitaria in materia di appalti pubblici. Infatti, nella giurisprudenza comunitaria l’istituzione di una società in house legittima l’affidamento senza gara del servizio di una p.a. ad una persona giuridica distinta, sempre che l’ente costituente eserciti sulla seconda un controllo “analogo” a quello esercitato sui propri uffici e quest’ultima realizzi la parte più importante della propria attività a favore della p.a. (C. giust. C.E. 18 novembre 1999 n. C-107/98, caso Teckal). Tale persona giuridica in quanto longa manus dell’ente pubblico è considerata una mera articolazione dello stesso ente, un semplice modello organizzativo della soggettività pubblica.
La società in house rappresenta una “rischiosa” deroga ai principi di concorrenza, non discriminazione e trasparenza, posti dai Trattati dell’UE in materia di contratti ad evidenza pubblica, pertanto, la Corte di Giustizia ne ha tratto un’interpretazione in senso restrittivo (C. giust. C.E., 6 aprile 2006 n. C-410/04), incentrata su alcuni requisiti tutti necessari. Sulla scorta dello statuto societario devono ricorrere: la totale partecipazione azionaria pubblica (anche se di enti diversi, il cd. controllo congiunto), la blindatura del capitale conseguente all’inalienabilità delle quote, la destinazione “prevalente” del servizio reso al socio pubblico (da intendersi in senso più elastico e qualitativo), un controllo pubblico sulla società ulteriore rispetto a quello di diritto privato (potere di direttiva), “analogo” per intensità a quello “gerarchico” esercitato sulle proprie articolazioni interne (potere di “comando”, comportante l’azzeramento dell’autonomia gestionale). Sul piano interno, l’istituto è stato richiamato in disparate disposizioni interne, ma ha trovato stabile ospitalità nell’art. 113 del TUEL. Tuttavia, a seguito dell’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis d.l. n. 112/2008 e la declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4, d.l. n. 138/2011 (sent. Corte cost. n. 199/2012), è venuto meno il principio della eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Pertanto, si fa diretta applicazione della disciplina comunitaria sui presupposti e condizioni per l’utilizzo house providing (direttiva 2006/123/CE). Sarebbe l’ente locale, nell’esercizio della consueta discrezionalità amministrativa ad effettuare la scelta sulle modalità organizzative dei servizi pubblici locali, oscillando fra mercato ed auto-produzione.
La pronuncia in commento formalmente onora l’orientamento costante che, rifacendosi ai principi civilistici, vede nel danno diretto degli organi societari al patrimonio sociale motivo di affermazione della giurisdizione ordinaria sulla scorta della giurisprudenza datata 2009. Infatti, tale pregiudizio sarebbe “sofferto da un soggetto privato (appunto la società), riferibile al patrimonio appartenente soltanto a quel soggetto e non certo ai singoli soci – pubblici o privati – i quali sono unicamente titolari delle rispettive quote di partecipazione ed i cui originari conferimenti restano confusi ed assorbiti nel patrimonio sociale medesimo”. Inoltre, la Corte, richiamando la normativa di carattere frammentario, da cui si potrebbero trarre argomenti in favore dell’orientamento sostanzialista in quanto difficilmente conciliabili con i principi richiamati (fra gli altri: l’art. 2 del d.l. n. 52/2010 che assoggetta anche tali società ai monitoraggio del commissario alla spesa pubblica, l’art. 147 quater del TUEL in materia di patto di stabilità esteso alle società partecipate dagli enti locali), né esclude la valenza sistematica. Tali disposizioni (quando non sono esse stesse a demandare “per quanto non diversamente stabilito” al diritto comune, come il c. 13 dell’art. 4 dl. n. 95/2012) costituirebbero un mero “incidente” derogatorio e, quindi, confermativo della regola generale. Anzi, l’alto consesso perviene alla conclusione che ogni giurisdizione diversa da quella ordinaria, alla luce del carattere indiretto del danno all’erario, richiederebbe una interpositio legislatoris ad hoc, anche alla luce della riserva di legge prevista dal richiamato art. 4 della legge n. 70/1975 (o almeno un’implicita ma inequivocabile autorizzazione legislativa alla riqualificazione in senso pubblicistico dell’ente in forma societaria).
Tuttavia, la Corte approfitta a pieno dell’ ”anomalia” insita nell’in house providing per allargare la prospettiva oltre lo schermo dell’autonomia patrimoniale. La Cassazione, osserva che “le società in house hanno della società solo la forma esteriore ma costituiscono in realtà delle articolazioni della pubblica amministrazione da cui promanano e non dei soggetti giuridici ad essa esterni e da essa autonomi. Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società. Essendo essi preposti ad una struttura corrispondente ad un’articolazione interna alla stessa pubblica amministrazione, è da ritenersi che essi siano personalmente a questa legati da un vero e proprio rapporto di servizio, non altrimenti di quel che accade per i dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico. L’analogia tra le due situazioni non giustificherebbe una conclusione diversa nei due casi, né quindi un diverso trattamento in punto di responsabilità e di relativa giurisdizione”.
Lo stesso giudice della giurisdizione ci ricorda come, a seguito del D.lgs n. 6/2003, l’etero-direzione sia una condizione conosciuta al nostro diritto societario (art. 2497 ss. c.c.), ma intravede nel carattere invasivo, puntuale e quindi gerarchico del controllo analogo un elemento di differenziazione rispetto alla disciplina del coordinamento fra capogruppo e controllate (soggetti che mantengono comunque una propria sfera d’autonomia decisionale ex art. 2380 bis c.c. e un proprio “interesse” distinto da quello esterno). Infatti “la società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione denuncia, non pare invece in grado di collocarsi come entità posta al di fuori dell’ente pubblico”. Come già l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 1 del 2008) aveva ritenuto l’“ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa”. Il rapporto gerarchico fra socio pubblico e società in house, quindi, sorpasserebbe di gran lunga l’etero-direzione societaria svuotando di ogni “autarchia” la “società” (intesa come centro autonomo di interesse “suo proprio”), ridotta a mero involucro formale, un “vocabolo” cui non corrisponde “un autonomo centro decisionale” in quanto pura esecutrice degli “ordini” finalizzati all’interesse pubblico di cui è portatore l’ente socio. Solo quest’ultimo è il vero dominus della gestione societaria, vera “sostanza” cui è asservita la forma giuridica. Coerentemente, la Corte afferma che “la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”, infatti, “in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della società da atti illegittimi degli amministratori è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre) riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale, che giustifica l’attribuzione alla Corte dei conti della giurisdizione sulla relativa azione di responsabilità”.
A conclusione del ragionamento, l’alto consesso ritiene che il controllo analogo costituisca motivo sufficiente per “forare” lo schermo societario individuando un rapporto di servizio diretto (da cui il carattere diretto anche del danno) fra gli stessi amministratori della società e l’ente socio pubblico utile a radicare la giurisdizione pubblica secondo i consueti canoni normativi.
Nel corso del 2014 il principio di diritto esposto è stato sostanzialmente riconfermato con minime precisazioni. Nella sentenza delle Sez. Unite n. 717 del 26 marzo 2014 e nella recentissima ordinanza n. 3677 del 24 febbraio 2014, la corte di Cassazione ha ribadito la giurisdizione in materia di danni alle finanze pubbliche generati da malagestio degli amministratori di società in house declinandone l’applicazione in ragione dell’evoluzione nel tempo dello statuto sociale, vera fonte di qualificazione del rapporto con i soci. Nell’ultima fattispecie, in particolare, era contestata la liceità di particolari emolumenti retributivi riconosciuti dagli amministratori in un dato arco di tempo. La Corte ha riconosciuto la giurisdizione contabile ratione temporis, cioè limitatamente alle condotte degli amministratori assunte dopo il mutamento “genetico” in senso “domestico” dell’organismo controllato dall’Ente Pubblico, così confermando la (di poco) precedente asserzione di irrilevanza del tempus di proposizione della domanda del P.G. contabile ai fini del radicamento della giurisdizione. Infatti, solo in conseguenza delle modifiche dello Statuto sociale in chiave gerarchica la società effettivamente evolve in longa manus dell’apparato pubblico, subendone così l’attrazione nella sfera di responsabilità erariale.
Rilievi critici.
In dottrina è affermazione condivisa quella secondo cui, in generale, sarebbe preferibile il criterio ermeneutico che pervenisse al risultato normativo maggiormente rispondente ai principi costituzionali (interpretazione adeguatrice). Se lo scopo ultimo della responsabilità amministrativa è quello di generare un credibile ed equilibrato incentivo per orientare (senza inibire) l’azione pubblica conformandola ai criteri di buon andamento ed imparzialità, allora, fra tutte le interpretazioni del criterio di riparto giurisdizionale possibili, si dovrebbe privilegiare quella che più rispondesse alla finalità costituzionale (verosimilmente quella che portasse alla giurisdizione contabile).
Alla luce del ruolo che la Carta fondamentale e la relativa disciplina attuativa attribuiscono alla Corte dei Conti, elevata a “nume tutelare” della finanza pubblica nella doppia veste di “revisore dei conti” e giudice del danno erariale coadiuvato dall’iniziativa istituzionale della procura contabile, sarebbe “auspicabile” un’interpretazione sostanzialista, teleologica del riparto. Un’esegesi che valorizzasse la pubblicità delle risorse oggetto di pregiudizio, prescindendo dalla veste giuridica dello strumento attuativo della funzione pubblica adottato (di diritto privato o pubblico), in coerenza col principio di neutralità del mezzo rispetto al fine pubblico (art. 1 I bis della 241), oppure ogni altra interpretazione che realizzasse un paragonabile grado di tutela effettiva dell’interesse sotteso all’art. 97 cost.. Tale opzione interpretativa risolverebbe alla radice il problema pratico, in precedenza ricordato, relativo al fatto che l’individuazione del consueto rapporto di servizio fra ente-socio e società pubblica si tradurrebbe verosimilmente in un risarcimento fittizio. Infatti, come già ricordato, la funzione risarcitoria presuppone piena autonomia fra capacità soggettive patrimoniali. Il ribaltamento del danno dal bilancio societario a quello dell’ente socio (attraverso la traslazione pro quota del risultato economico negativo) renderebbe il risarcimento, invece, una mera partita di giro, non satisfattiva del pregiudizio effettivo posto a carico, in definitiva, del pubblico erario.
L’opzione interpretativa sostanzialista potrebbe avvalersi dello stesso 16 bis del d.l. n. 248/2007. Ad avviso della Cassazione però “è in questo quadro di principi generali che deve essere perciò letta anche la disposizione dell’art. 16-bis della legge 28 febbraio 2008, n. 31 (che ha convertito il d.l. 31 dicembre 2007, n. 248), la quale ha introdotto per le società quotate un’eccezione alla giurisdizione contabile da riferire, appunto, alla sola area in cui detta giurisdizione risulterebbe altrimenti applicabile”. La Corte, parrebbe, quindi, depotenziare la portata innovativa della disposizione, limitandone l’ambito di applicazione. Già in passato, in proposito si avanzò il ricorso al canone dell’interpretazione “a contrario”12. Se, come testualmente recita la norma, “per le società con azioni quotate con partecipazione pubblica, inferiore al 50 per cento, la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti è regolata dalle norme del diritto civile”, si potrebbe dedurre che, in tutti gli altri casi o almeno rispetto alle società quotate con partecipazione pubblica maggioritaria, tale responsabilità non sia “regolata dalle norme del diritto civile”, ma dalle norme pubblicistiche relative alla responsabilità amministrativa, sempre che ne ricorrano i presupposti. In virtù di una disposizione espressa (da cui ricavare a contrario la norma radicante la giurisdizione contabile), non vi sarebbe neppure l’ostacolo della necessità di un’interpositio legislatoris.
La tesi sostanzialista coniugherebbe alcuni pregi: la semplicità, l’oggettività, l’effettività di tutela “in concreto” (senza dover, altrimenti, attendere la colpevole, causa prescrizione, omissione dell’azione civilistica da parte del socio pubblico). In definitiva, tale opinione parrebbe più aderente alla finalità generale di ogni legge organizzativa dell’azione pubblica: il buon andamento dell’amministrazione intesa come “funzione” pubblica.
In realtà, l’impostazione proposta dalla sentenza commentata limitatamente alle società in house, volta a individuare un compromesso fra approccio formale e sostanziale, alla luce di quanto sin’ora detto, ben potrebbe essere superata sia nel senso di un integrale accoglimento delle posizioni sostanzialiste (come appena detto), che abbracciando interamente le tesi formaliste, ma relativamente ad ogni tipo di società pubblica (come si dirà).
Infatti, anche senza sposare alcuna interpretazione radicalmente funzionalista del rapporto di servizio, ma muovendosi all’interno del paradigma civilistico, la posizione della Cassazione appare criticabile poiché incoerente rispetto alle stesse premesse che si dà. Se lo schermo della soggettività separa il patrimonio della società da quello del socio-ente, escludendo la giurisdizione contabile rispetto al danno in capo a quest’ultimo poiché ritenuto indiretto, allora la stessa conclusione dovrebbe valere, a prescindere dal tipo di controllo (di diritto societario o analogo) esercitato dall’ente-socio su ogni società partecipata (in ragione della quota, ma sicuramente nel caso della partecipazione totalitaria). Altrimenti, l’utilizzazione dello stesso patrimonio per il conseguimento della medesima finalità assumerebbe una diversa “natura”, pubblicistica o privatistica, a seconda della scelta dell’ente di ricorrere all’in house providing o alla comune società di capitali interamente partecipata. Infatti, come già rammentato, dopo il recente esito referendario, la scelta del modello organizzativo del servizio pubblico è oggetto di valutazione discrezionale da parte dell’ente pubblico (che trova un limite nei commi 551, 552, 554, 555 dell’art. 1 della legge di stabilità per il 2014, ove prevede un’autonoma responsabilità erariale in capo agli amministratori degli enti che, difronte a sistematiche perdite delle società controllate, non ne provvedessero alla liquidazione). Quindi, sulla scorta del criterio di riparto della giurisdizione in senso “formale” ma corretto da considerazioni “sostanziali” (relativamente alle sole società in house), adottato dalla Cassazione nella sentenza in commento, un Comune potrebbe legittimamente predeterminare la giurisdizione sulla scorta di una valutazione discrezionale. Nessuno potrebbe impedire all’ente di effettuare la scelta organizzativa anche “scontando” il diverso grado di rischio effettivo a carico degli amministratori connesso al rapporto fra modello gestionale e relativa giurisdizione (fermi i limiti recentemente introdotti dalla ricordata legge n. 147/2013).
Per la coerenza fra premesse formali e conclusioni giurisdizionali, anche rispetto al danno causato dagli amministratori della società in house, si dovrebbe, pertanto, affermare la competenza del giudice ordinario (proprio perché anche tale tipologia di “involucro” è pur sempre una società dotata di distinta personalità e “separata” patrimonialità). Scegliendo di valorizzare in generale la “forma” societaria (privata) se ne dovrebbero sempre subire le conseguenze normative e giurisdizionali, anche quando la forma privatistica fosse asservita strumentalmente alla “sostanza” dell’interesse collettivo attraverso il controllo pubblico “analogo”, non venendo mai meno, formalmente, la separatezza patrimoniale.
Alla luce di quanto detto, la posizione assunta dal giudice regolatore della giurisdizione nella pronuncia in commento è condivisibile laddove coglie l’esigenza di tutela effettiva delle finanze pubbliche attraverso un meccanismo d’instaurazione dell’azione di responsabilità più efficace, incentrato sull’iniziativa doverosa della procura contabile, mentre lo è assai meno dal punto di vista della coerenza interna (al provvedimento) ed esterna (rispetto al filone giurisprudenziale cui essa si rifà). Infatti, l’affermazione della Corte secondo cui “le società in house hanno della società solo la forma esteriore” vale per ogni società a partecipazione pubblica totalitaria (o anche prevalente) per il conseguimento di una finalità pubblica (quella di cui è portatore il socio pubblico).
Simmetricamente, se si intendesse rivalutare il dato sostanziale (il pregiudizio ultimo alle casse erariali), si dovrebbe trarre sino in fondo le conseguenze del paradigma assunto e modificare integralmente la posizione, coinvolgendo tutte le situazioni che dal punto di vista “funzionale”, quindi della tutela effettiva, fossero equipollenti, a prescindere dal fatto che il danno sia arrecato direttamente al patrimonio societario della controllata e solo indirettamente al patrimonio dell’ente-socio. La sostanza del controllo pubblico, vuoi societario che analogo, travolgerebbe il tratto distintivo della separatezza fra i momenti lesivi (e quindi il carattere indiretto del danno) che permarrebbe solo in termini “temporali”, ma non rispetto la titolarità ultima delle risorse incise.
Correttamente, la Corte prende atto che la strada della riqualificazione in senso pubblicistico delle società controllate “gerarchicamente” dagli enti pubblici, al di là dei limitati casi costituiti dalle cd. “società legali” espressione diretta del legislatore (come la Rai), trova un ostacolo insuperabile nell’art. 4 della legge n. 70 del 1975, ove attribuisce alla sola fonte primaria la potestà qualificatoria di un qualsiasi organismo complesso in termini di ente pubblico (“Salvo quanto previsto negli articoli 2 e 3, nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”). Di conseguenza, il giudice della giurisdizione non riconfigura direttamente la società in termini di autonomo ente pubblico, operazione che cozzerebbe con la ricordata riserva di legge, ma usa l’elemento distintivo del “controllo analogo” per sollevare il velo societario e riportare il patrimonio sociale “dentro” il perimetro di quello pubblico (dell’ente socio). In tal modo, la Corte evita di ricostruire un rapporto di servizio “estrinseco” fra ente e società, individuando l’”intrinseco” legame funzionale fra ente e amministratori della società controllata atto a radicare direttamente la giurisdizione contabile. Pertanto, anche volendo riconsiderare le conclusioni cui è giunta la Cassazione relativamente ai danni inferti al patrimonio sociale delle società pubbliche, non rimarrebbe che, come la Corte, percorrere la tradizionale via del “rapporto di servizio”, però interpretato alla luce del dettato costituzionale. L’alternativa è fra un’interpretazione sostanzialista che “fori” lo schermo societario ed una soluzione privatistica che preservi l’autonomia soggettiva senza però compromettere l’effettività della tutela pubblica.
Tuttavia, il ricorso all’artifizio del “controllo analogo” a giustificazione del “disvelamento” societario per “rileggere” il rapporto di servizio, mostra alcuni limiti in termini ermeneutici. Esso nasce nella giurisprudenza comunitaria per trovare una valida giustificazione alla deroga del principio di concorrenza e quindi per “disapplicare” le norme dei trattati laddove imporrebbero il ricorso alla selezione competitiva per gli affidamenti. Se l’ente assegna a sé stesso una commessa è inutile affrontare il costo della gara, quest’ultima si ridurrebbe a mero onere formale perché la prestazione non sarebbe “effettivamente” esternalizzata, si ricadrebbe nel modello dell’auto-produzione. Utilizzare tale meccanismo al di fuori del contesto originario e per finalità diverse da quelle iniziali potrebbe rappresentare un’impropria estensione del campo di applicazione di un istituto concepito come deroga ad un principio generale (quello di concorrenza attraverso l’evidenza pubblica, mentre nel nostro caso si utilizza l’istituto per giustificare un’eccezione alla regola dell’ autonomia patrimoniale della personalità giuridica, sono due ambiti diversi).
Per giunta si tratterebbe di un ampliamento in assenza di un vero “vuoto” da colmare, poiché stando all’orientamento oggi maggioritario, i principi civilistici non lascerebbero necessariamente una lacuna di tutela, anche rispetto agli interessi che particolari non fossero, come l’interesse ad una sana gestione delle risorse pubbliche. Infatti, nulla esclude che l’interesse pubblico possa essere efficacemente rappresentato all’interno della cornice processuale ordinaria, anche nell’attuale sistema dei rapporti fra giurisdizione civile e contabile (l’unico vero ostacolo è rappresentato dalla volontà degli amministratori del ente socio). In proposito, la Cassazione ravvisa supposti impedimenti d’ordine anche procedurale, infatti, ritiene che “l’esattezza di tale conclusione (inidoneità alla configurazione di un’ipotesi di azione ricadente nella giurisdizione della Corte dei conti) trova conferma anche nell’impossibilità di realizzare, altrimenti, un soddisfacente coordinamento sistematico tra l’ipotizzata azione di responsabilità dinanzi al giudice contabile e l’esercizio delle azioni di responsabilità (sociale e dei creditori sociali) contemplate dal codice civile”.
Eppure, è la stessa giurisprudenza di legittimità che in passato ha sostenuto la compatibilità in astratto fra la possibilità di promuovere nei confronti degli amministratori di una società la consueta azione civilistica di responsabilità e l’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa in sede contabile (sentenze n. 6581/2006 e 27092/2009). Ancor prima, nella sentenza n. 2614 del 1990, la Cassazione aveva precisato, in relazione al giudizio di responsabilità contabile, che l’eventuale pendenza sui medesimi fatti di un processo penale con l’amministrazione danneggiata ivi costituita parte civile, non atterrebbe alla sussistenza della giurisdizione contabile, ma solo alle concrete modalità del suo esercizio (con eventuale sospensione del giudizio contabile), e, pertanto, la Corte non ritenne la questione deducibile con istanza di regolamento preventivo di giurisdizione. Neppure l’omogeneità di oggetto (il medesimo danno) osterebbe alla coesistenza fra azione civile e contabile. I rischi di duplicazione del risarcimento (ne bis in idem) sarebbero evitati poiché i rapporti fra le due giurisdizioni, rimanendo reciprocamente indipendenti, sarebbero declinati in termini di alternatività anziché di esclusività. Le due azioni non darebbero luogo a questioni di giurisdizione, ma di proponibilità della domanda (in tal senso già la V Sez. Giur. Reg. Corte dei conti Lombardia ord. n. 32 del 2005). Quindi, sulla scorta dello stesso ragionamento, pur in assenza di un “soddisfacente coordinamento sistematico”, l’azione civile dei soci e quella contabile potrebbero coesistere, nei rispettivi ambiti di competenza, esattamente come avviene fra azione contabile e giudizio penale.
In realtà, i più accesi rilievi critici nei confronti dell’impostazione puramente civilistica della questione, al di là delle considerazioni di puro diritto, si concentrano, sull’effettività della tutela dell’interesse al buon andamento della gestione pubblica13. Infatti, è vero che l’azione civile di per sé ha conseguenze tendenzialmente più gravi di quella contabile poiché i destinatari della stessa non possono beneficiare delle limitazioni di responsabilità tipiche della giurisdizione contabile. Quest’ultima comporta uno standard psicologico più elevato richiesto dalla legge per l’imputabilità dell’evento lesivo (dolo e colpa grave) ed il potere “riduttivo” (rispetto al quantum risarcibile) attribuito al solo giudice contabile per “adattare” le conseguenze della responsabilità “personale” al contesto oggettivo e soggettivo in cui è maturata (tant’è vero che è capitato fossero i convenuti dell’azione civile a eccepire il difetto di giurisdizione invocando quella contabile, evidentemente giudicata più mite negli esiti). Tuttavia, la realtà ci segnala l’esistenza di una fitta schiera di soci pubblici, nella migliore delle ipotesi “distratti”, se non collusi con i materiali responsabili del danno diretto al patrimonio sociale poi “traslato”, in definitiva, sul pubblico erario attraverso il risultato d’esercizio.
Alla luce di quando detto, il ricorso al “controllo analogo” per giustificare il carattere diretto del danno all’ente socio appare un recupero in extremis di una ricostruzione sostanzialista della giurisdizione, fondata sulla “titolarità” effettiva delle risorse pregiudicate, negata radicalmente dall’orientamento cui la pronuncia de quo afferma di richiamarsi. Quasi la Corte, dopo aver preso atto delle critiche relative all’effettività della tutela pubblica “in concreto” insite nel meccanismo di instaurazione della giurisdizione ordinaria, almeno difronte al palese annichilimento dell’autonomo interesse societario ad opera del socio pubblico dominante, riabbracciasse la logica sostanzialista per ristabilire un equilibrio più avanzato fra il rigore formale e le esigenze di giustizia sostanziale.
La pronuncia in commento ci consente di riassumere le principali opzioni interpretative sul campo:
1) La tesi sostanzialista: è possibile ricostruire il rapporto di servizio intrinseco fra ente socio ed amministratori della società per i danni da essi arrecati sulla scorta della pubblicità ultima delle risorse pregiudicate. Estremizzando il ragionamento che la Corte svolge solo per le società in house, ogni danno arrecato dagli amministratori delle società pubbliche sarebbe, in definitiva, reso all’ente pubblico, da qui la giurisdizione contabile.
2) La tesi formalista “moderata”: la Cassazione nella sentenza in commento prevede un meccanismo alternativo di radicamento della giurisdizione. Per le società pubbliche non in house si applicherebbe il diritto comune giustificando così la giurisdizione ordinaria in relazione all’azione civile esercitata ex art. 2392 c.c. dalla società per i danni direttamente arrecati al patrimonio sociale, poiché separato da quello pubblico (esercitatile anche da minoranze qualificate ex art. 2393 bis c.c.) o rispetto all’azione civile ex art. 2395 esercitata dal socio per i danni diretti nei suoi confronti. Limitatamente ai danni direttamente causati dagli amministratori al patrimonio delle società in house, poiché secondo la Corte il controllo analogo svuoterebbe l’autonomia decisionale e quindi patrimoniale di dette società, sarebbe esercitabile un’azione pubblicistica da parte della Procura contabile per conto del socio pubblico. In tal caso, infatti, il danno diverrebbe “erariale” perché direttamente subito dall’ente pubblico socio. Per tutte le società pubbliche rimane salva l’eventualità di un danno diretto da pregiudizio all’immagine all’ente pubblico e da mancato esercizio dei diritti sociali nei termini di prescrizione da parte degli amministratori dell’ente socio che assumerebbe la qualità di danno erariale e pertanto radicherebbe la giurisdizione contabile.
3) Soluzione sostanziale “concorrente”: si è sostenuto che già l’attuale sistema dei rapporti fra giurisdizioni, fondato sulla concorrenza delle azioni, permetterebbe di considerare azionabili sia la giurisdizione contabile che quella civile rispetto allo stesso danno, poiché, comunque, la regola del ne bis in idem impedirebbe una duplicazione del risarcimento (limite dell’integrale ristoro).
4) Soluzione formale “corretta”: l’opzione privatistica proposta dalla Cassazione fondata sull’alternativa, anche in termini di giurisdizione, fra carattere diretto o indiretto del danno, potrebbe essere superata “trapiantando” del corpus del processo civile l’iniziativa doverosa della procura contabile, in modo da sterilizzare la principale critica avanzata dalla tesi sostanzialista: la carenza di effettività della tutela dell’interesse pubblico in un quadro solo civilistico. Si è sostenuto che tale opzione sarebbe già praticabile de iure condito14, mentre la dottrina maggioritaria ritiene opportuno un intervento legislativo chiarificatore.
Pur prendendo atto che l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione è particolarmente autorevole, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’attuale assetto normativo, a parere di chi scrive, dovrebbe privilegiare, in nome dell’effettività della tutela pubblica, le tesi sostanzialiste. Oppure, de iure condendo, si dovrebbe auspicare un intervento normativo che si facesse carico di colmare il divario di effettività di tutela “in concreto” dell’interesse pubblico, di fatto sfavorito rispetto a quelli integralmente “privati”. Senza neppure modificare i confini della giurisdizione, sarebbe forse sufficiente il “trapianto” dell’iniziativa doverosa da parte della procura contabile in seno al processo civile. In tal modo pur rispettando le conseguenze in termini di giurisdizione del carattere indiretto del danno al patrimonio sociale, non occorrerebbe più attendere il mancato esercizio dei diritti sociali da parte dell’ente pubblico per il periodo necessario alla maturazione della prescrizione, poiché l’ente sarebbe processualmente sostituito dall’attività doverosa del procuratore contabile nel quadro del processo civile.
Per il resto ogni società pubblica rimarrebbe soggetta alle eventuali regole pubblicistiche relative al settore di operatività (es. trasporto pubblico o norme d’evidenza pubblica), mentre ai fini dell’organizzazione e del funzionamento interno varrebbero le ordinarie regole privatistiche.
1 Funzionario della Giunta della Regione Piemonte presso il Settore Politiche fiscali della Direzione Risorse finanziarie e Patrimonio.
2 Rappresentativa del fenomeno è la galassia societaria fra Comune, Provincia di Roma e Regione Lazio connessa al decreto c.d. “salva Roma” descritta in “Quei fascinosi intrecci romani” di http://www.lavoce.info/partecipate-roma-lazio-provincia/ di R. Perotti, F. Teoldi.
3 F. M. Longavita “La giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori e dipendenti di S.p.a.”, atti del Convegno della Corte dei Conti di Perugina, 18-19/4/2008.
4 G. D’Auria “Amministratori e dipendenti di enti economici e società pubbliche: quale “revirement” della Cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa” , in Foro Italiano 2005-I, pag. 2684 e ss.
5 G. Cavallaro “Recenti indirizzi della Cassazione in ordine alla giurisdizione della Corte dei conti per danni provocati a società a partecipazione pubblica”, in La finanza locale, 4/2013, pag. 60 e ss.
6 G. D’Auria “Amministratori e dipendenti di enti economici e società pubbliche: quale “revirement” della Cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa” , in Foro Italiano 2005-I, pag. 2684 e ss.
7 F. Fimmanò ”La giurisdizione sulle società pubbliche”, in Le società, n. 8-09/2013.
8 V. C. Chiarenza, in “Problematiche specifiche delle istruttorie e dei giudizi in materia di SPA pubbliche; interventoall’incontro di studio : Evoluzione normativa e giurisprudenziale delle ipotesi di responsabilità sanzionatoria e di altre forme tipizzate di responsabilità introdotte dall’ordinamento ed affidate alla cognizione del Giudice contabile” Roma, Corte dei conti, aula delle SS.RR. 1-3 aprile 2008.
9 di recente ribadita da Vetro, “Problematica sulla giurisdizione in tema di responsabilità nei confronti degli amministratori e dipendenti delle società con partecipazione pubblica, alla luce della giurisprudenza della Corte dei conti, della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e della Cassazione” su www.contabilita-pubblica.it/.
10 F. M. Longavita “La giurisdizione della Corte dei Conti sugli amministratori e dipendenti di S.p.a.”, atti del Convegno della Corte dei Conti di Perugina, 18-19/4/2008.
11 C. Ibba: Responsabilità degli amministratori di società pubbliche e giurisdizione della Corte dei conti, Giurisprudenza commerciale, fasc. 5, 2012, pag. 641.
12 di recente ribadita da A. Vetro, “Problematica sulla giurisdizione in tema di responsabilità nei confronti degli amministratori e dipendenti delle società con partecipazione pubblica, alla luce della giurisprudenza della Corte dei Conti, della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e della Cassazione” su www.contabilita-pubblica.it/.
13 Sempre A. Vetro, “Problematica sulla giurisdizione in tema di responsabilità nei confronti degli amministratori e dipendenti delle società con partecipazione pubblica, alla luce della giurisprudenza della Corte dei conti, della Corte costituzionale, del Consiglio di Stato e della Cassazione” su www.contabilita-pubblica.it/.
14 G. Costantino, citato da Lamorrese, in Impresa Pubblica: profili giurisdizionali.