La riforma costituzionale degli articoli 9 e 41 della Costituzione: un (prudente) ampliamento di prospettiva del diritto costituzionale dell’ambiente
Luca Imarisio [1]
1. Una premessa
Una valutazione della portata normativa, nonché delle verosimili implicazioni, dell’intervento di riforma degli artt. 9 e 41 della Costituzione attuato attraverso l’approvazione della legge di revisione costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022 presuppone, in primo luogo, una valutazione del senso e del segno di tale intervento.
Le motivazioni esplicitate dalle forze politiche parlamentari come fondamento di tale intervento risultano convergenti intorno all’esigenza di dare un più solido fondamento costituzionale ad istanze complessivamente riconducibili all’idea di “tutela ambientale” (si vedano, da ultimo, le dichiarazioni finali di voto dei rappresentanti delle diverse forze politiche presso la Camera dei Deputati, seduta dell’8 febbraio 2022), coerentemente peraltro con l’intitolazione del provvedimento: “Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente”.
Si tratta di una suggestione sintetica, evocativa, ma piuttosto vaga e imprecisa, che, se non circostanziata, può per certi versi essere addirittura fuorviante rispetto allo specifico contenuto normativo dell’intervento di riforma.
Cercando di enucleare tale contenuto, appaiono invece individuabili nell’intervento quattro fondamentali elementi, che configurano non tanto l’introduzione di nuove norme costituzionali, quanto, come si dirà, essenzialmente altrettanti ampliamenti di prospettiva del diritto costituzionale dell’ambiente: 1) Un riequilibrio tra un approccio antropocentrico e un approccio ecocentrico in ordine alle istanze di tutela ambientale; 2) Una prima introduzione di una istanza di responsabilità intergenerazionale in relazione alle questioni ambientali; 3) Una prima introduzione di un principio di tutela costituzionale nei confronti degli animali; 4) Un’articolazione/esplicitazione dei principi costituzionali da bilanciare con quello di salvaguardia della libertà di iniziativa economica privata.
Al di là di questi (peraltro, come si dirà, assai prudenti) ampliamenti di prospettiva, la riforma adottata appare rilevante per almeno altri due elementi, che si delineano invece come due mancati interventi: l’omessa definizione ed esplicita costituzionalizzazione di una complessiva istanza di sostenibilità dello sviluppo e la mancata compiuta chiarificazione dell’ordine delle competenze in materia, soprattutto in relazione ai rapporti tra Stato e Regioni.
2. Uno sguardo oltre l’orizzonte antropocentrico
Uno degli aspetti qualificanti della riforma approvata è indubbiamente costituito dalla previsione secondo cui ai compiti della Repubblica già definiti dall’art. 9 Cost. (la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione) si aggiunge quello per cui essa “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi”.
Si tratta della riproposizione quasi testuale di un intervento di riforma costituzionale già discusso nel 2004 in Parlamento ma allora non giunto ad approvazione definitiva: nella versione approvata dalla Camera dei Deputati il 28 ottobre 2004 si prevedeva ad esempio l’aggiunta, quale terzo comma dell’art 9 della disposizione secondo cui la Repubblica “tutela l’ambiente e gli ecosistemi, anche negli interessi delle future generazioni. Protegge la biodiversità e promuove il rispetto degli animali” (sulla vicenda, E. Lucchese, La riforma dell’art. 9 Costituzione nel testo approvato dalla Camera, in www.forumcostituzionale.it, 2004.).
Volendo individuare un elemento di innovazione normativa in tale previsione, che vada al di là della semplice esplicitazione e formalizzazione di una istanza, quale quella di tutela ambientale, già emersa ad opera essenzialmente della Corte Costituzionale, questa va ricercata nello specifico riferimento alla biodiversità e agli ecosistemi.
Per quanto riguarda il riferimento alla tutela dell’ambiente la nuova previsione non pare poter andare molto al di là di un consolidamento e di una esplicitazione a livello costituzionale degli esiti di un percorso che ha condotto la Corte costituzionale italiana a riconoscere, già da diversi decenni, come, già prima della revisione odierna, l’ambiente risultasse, a livello costituzionale “protetto come elemento determinativo della qualità della vita. La sua protezione non persegue astratte finalità naturalistiche o estetizzanti, ma esprime l’esigenza di un habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini, secondo valori largamente sentiti; è imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), per cui esso assurge a valore primario ed assoluto. […] L’ambiente è, quindi, un bene giuridico in quanto riconosciuto e tutelato da norme. Non è certamente possibile oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli” (così nella nota sentenza Corte cost. N. 641 del 1987).
Senza poter qui ricostruire un percorso giurisprudenziale articolato e a volte anche contraddittorio (sulle evoluzioni della giurisprudenza costituzionale in materia, si può rinviare, ad esempio, a D. Porena, La protezione dell’ambiente tra Costituzione italiana e “Costituzione globale”, Giappichelli, Torino, 2009, 178 ss.), si deve notare come le coordinate fondamentali per la configurazione di una tutela costituzionale del bene ambiente risultassero già delineate: presenza di un fondamento di tutela a livello costituzionale, natura di valore primario e assoluto, natura non tanto di diritto soggettivo ma di bene fruibile dalla collettività come dai singoli. Valore primario e assoluto, si è detto, ma non nel senso che il valore ambiente debba sempre integralmente prevalere negli eventuali bilanciamenti con altri valori costituzionali potenzialmente confliggenti, ergendosi con ciò a “diritto tiranno”, ma nel senso che debba sempre essere tenuto in considerazione in tali bilanciamenti e salvaguardato nel proprio contenuto essenziale. “La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto” (così nella nota sentenza Corte cost. N. 85 del 2013).
Tutte coordinate rispetto alle quali la recente riforma non pare poter apportare innovazioni rilevanti, tanto da essere in talune letture, percepita come pleonsatica se non come insidiosa (esemplificativamente, nel senso di una pleonastica e per diversi aspetti rischiosa “revisione bilancio”, C. De Fiores, Le insidie di una revisione pleonastica. Brevi note su ambiente e Costituzione, in www.costituzionalismo.it, 3 2021 [2022], 149 s.) Si è del resto opportunamente evitata la strada della diversa configurazione di un “diritto soggettivo all’ambiente” che avrebbe avuto complesse e contraddittorie implicazioni soprattutto a livello processuale, così come si è evitata la configurazione di ancor più ambigui “diritti della Natura” (sulle problematiche connesse a tale nozione si può ad esempio rinviare a G. Demuro, I diritti della Natura, in www.federalismi.it, 2022). Per tale aspetto la disposizione può dunque leggersi come volta essenzialmente al consolidamento delle acquisizioni già maturate nel corso degli ultimi decenni in relazione alle istanze ambientali, (maggiormente, anche se certo non totalmente) sottratte ad eventuali mutamenti di orientamento della giurisprudenza costituzionale.
Sostanzialmente un consolidamento, dunque, tranne però rispetto alla prospettiva valoriale alla base di tale approccio di tutela: se nella prospettiva tradizionale, fatta propria dal Giudice costituzionale soprattutto nella sua giurisprudenza degli anni ’80 del secolo scorso, la tutela dell’ambiente è operata dall’uomo e per l’uomo, entro una cornice culturale sostanzialmente antropocentrica (come si è visto, ambiente come “habitat naturale nel quale l’uomo vive ed agisce e che è necessario alla collettività e, per essa, ai cittadini”), il riferimento alla tutela della biodiversità e degli ecosistemi pare aprire ad una prospettiva in qualche misura anche ecocentrica, o per lo meno biocentrica (non potendosi in questa sede ricostruire compiutamente tali nozioni, si può rinviare, ad esempio, a M. Andreozzi, Biocentrismo ed ecocentrismo a confronto – Verso una teoria non antropocentrica del valore intrinseco, LED, Milano, 2013): la prospettiva della tutela di un ambiente anche non umanizzato o umanizzabile, non necessariamente fruibile dall’uomo, non funzionale al soddisfacimento diretto di bisogni umani; la prospettiva, per contro, della preservazione di un valore-vita in quanto tale, nella sua varietà di manifestazioni e negli equilibri del contesto anche fisico in cui si presenta e che ad esso (non necessariamente all’uomo fruitore) è funzionale. Naturalmente una tutela comunque mediata da un fatto umano quale il diritto, che ha a suo fondamento elementi altrettanto umani quali i valori pregiuridici che lo ispirano e mediata, in particolare, dal personalismo alla base del nostro ordinamento costituzionale: non pare di poter leggere nelle nuove norme un ribaltamento di paradigma (quale sarebbe l’assunzione di approcci di ecocentrismo integrale: sugli assunti teorici e culturali della così detta deep ecology, si può rinviare a A.C. Amato Mangiameli, Natur@. Dimensioni della Biogiuridica, Giappichelli, Torino, 2021, 28 ss.), quanto piuttosto un ampliamento, un allargamento di prospettiva.
In questo senso forse ultronea, in una prospettiva di economia nella formulazione dei dati dispositivi (sempre opportuna nei testi costituzionali), risulta la distinzione tra tutela degli ecosistemi e tutela della biodiversità, sia per la indotta disomogeneità con la disposizione collocata all’art. 117 Cost. (che senso si deve attribuire alla limitazione alla sola tutela dell’ecosistema, peraltro declinato al singolare, e non anche a quella della biodiversità della competenza legislativa esclusiva dello Stato?) sia per la difficoltà di immaginare una tutela della biodiversità slegata da quella degli equilibri degli ecosistemi entro i quali tale biodiversità si manifesta (a meno di immaginare un riferimento riduttivo alla preservazione del dato meramente genetico della biodiversità, che apparirebbe tuttavia fuori contesto in una disposizione costituzionale di principio: sulla nozione di biodiversità si può rinviare, esemplificativamente, a L. Marfoli, Biodiversità: un percorso internazionale ventennale, in Riv. Quad. Dir. Amb., 2021, 3, 155 ss.).
Più significativa appare piuttosto la possibilità di distinguere tra un ambiente-paesaggio, che resta tutelato sulla base del comma II dell’art. 9, come ambiente dotato di un significato ad esso attribuito dall’uomo, espressivo di una forma di identità umana (sulla nozione di paesaggio, nella sua articolata evoluzione, si può rinviare a L. Conte, Il paesaggio e la Costituzione, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018), e ambiente-ecosistema, espressivo di un valore che, per quanto mediato dal diritto, risulta riconosciuto per sé, a prescindere dalla sua stessa percezione da parte dell’uomo.
Se dunque l’innovazione apportata appare rilevante in ordine all’allargamento del quadro valoriale recepito nelle disposizioni costituzionali dell’art. 9, la scelta di collocare l’intervento a livello di principi supremi implica uno stacco notevole (per lo meno sino a che non vengano eventualmente adottati interventi quadro ulteriori di rango primario) rispetto al piano delle concrete politiche che a tali principi saranno chiamate a ispirarsi.
Se, come si è detto, appare condivisibile la scelta di evitare la configurazione di un diritto soggettivo “all’ambiente”, appare in effetti altrettanto condivisibile quella che in qualche misura risulta la sua premessa, ovvero la constatazione (presente, ad esempio, in M. Cecchetti, La revisione degli articoli 9 e 41 della Costituzione e il valore costituzionale dell’ambiente: tra rischi scongiurati, qualche virtuosità (anche) innovativa e molte lacune, in Quad. Cost., 2021, 287 ss.) per cui la tutela dei valori ambientali richiede per sua natura di essere declinata, sul piano giuridico, non soltanto (e non tanto) in termini di diritti soggettivi, ma anche (e soprattutto) in termini di definizione di politiche (pubbliche e private) e di azioni amministrative: in termini, dunque, di disciplina dei processi decisionali attraverso i quali, sul piano della gestione, si definirà la qualità delle politiche ambientali, non potendosi il diritto oggettivo accontentare, in questa materia, di definire i termini astratti di un futuro bilanciamento tra diritti soggettivi rimesso ad un contesto decisionale essenzialmente tecnico.
Questo assunto, nel valutare un intervento di revisione costituzionale come quello recentemente adottato può indurre a individuare un qualche limite: si può infatti ritenere che una disciplina di rango costituzionale in tema di ambiente non dovrebbe limitarsi all’enunciazione di valori e principi, ma dovrebbe intervenire anche sul piano delle competenze, delle procedure decisionali, degli obiettivi fondamentali. Dato che si riscontra, ad esempio, nel contesto dell’ordinamento dell’Unione Europea, ove come noto il testo dei trattati contiene un’articolata disciplina (sovraordinata rispetto alla normazione derivata ordinaria e in grado di porsi quale parametro di legittimità della stessa) tanto a livello di definizione di principi di azione quanto a livello di definizione dell’ordine delle competenze in materia e delle connesse procedure decisionali. Persino nel contesto più solenne di una proclamazione formale, maggiormente focalizzata sul piano dei diritti soggettivi, ovvero nel contesto della Carta dei diritti dell’Ue, all’art. 37 ciò che è proclamato non è in effetti un diritto soggettivo, ma un principio guida rivolto alle future politiche: il principio di complessiva integrazione delle istanze di tutela ambientale nel contesto delle politiche dell’Unione, “conformemente” al principio dello sviluppo sostenibile. Anche a livello definitorio, non si riscontra nel contesto Ue il tentativo della configurazione di una nozione sintetica e unitaria di ambiente (che risulterebbe coerente con un approccio “per diritti”), emergendo piuttosto la materia ambientale dalla definizione delle quattro fondamentali aree-obiettivo connesse alla sua tutela (lotta all’inquinamento, tutela della salute, gestione razionale delle risorse ambientali e lotta ai cambiamenti climatici).
Anche i fondamentali “principi” definiti in materia ambientale nel contesto dell’ordinamento Ue risultano come noto volti ad orientare direttamente le politiche nella loro concreta determinazione più che a definire il presupposto di atti normativi generali astratti.
Sul piano delle competenze, poi, si riscontra un’attenzione specifica nel configurare la materia ambientale come oggetto di competenza concorrente tra Unione e Stati, concorrenza “regolata” tanto dal principio generale di sussidiarietà quanto, e più specificamente, dalla clausola di salvaguardia (art. 137 TFUE) che consentendo agli Stati di adottare misure di tutela ambientale più rigorose di quelle previste a livello di Unione, indica una specifica “direzione” alla risoluzione di potenziali conflittualità che invece, nel contesto interno dei rapporti tra Stato e Regioni, restano tuttora rimesse alle oscillazioni (se non, talora, alle contraddizioni) della giurisprudenza costituzionale.
Si delinea dunque un processo decisionale politico tendenzialmente permanente, al qual concorrono soggetti diversi e che si basa su di una varietà di strumenti, sia procedurali che normativi, anche di soft law.
Nel contesto della revisione costituzionale italiana, tale dimensione connessa alla definizione di principi operativi appare assente e, soprattutto in ordine alle competenze e alle responsabilità rispettive di Stato e Regioni (ma anche degli enti locali), gli apporti di chiarificazione sono mancati, aspetto su cui si tornerà più avanti.
3. Un’apertura all’orizzonte intergenerazionale
Strettamente collegata a tale integrazione normativa è la previsione inserita al comma III dell’art. 9 per cui la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi debba avvenire “anche nell’interesse delle future generazioni”.
Così come in relazione alla configurazione delle istanze di tutela ambientale, anche in relazione a tale profilo si è opportunamente esclusa la strada della configurazione di formali “diritti” in capo alle generazioni future (l’approccio del diritto alla dimensione intergenerazionale è come noto oggetto di un vasto confronto, per una ricostruzione del quale si può rinviare a D. Porena, Il principio di sostenibilità. Contributo allo studio di un programma costituzionale di solidarietà intergenerazionale, Giappichelli, Torino, 2017, soprattutto 27 ss.), evitando le aporie legate di situazioni di vantaggio in capo a soggetti non (ancora) venuti ad esistenza ed impossibilitati oggettivamente ad eventualmente azionare tali diritti.
Tuttavia la scelta di formulare la disposizione nei termini di un “interesse” di tali generazioni non risolve del tutto la problematica, lasciando un margine di ambiguità circa la natura e le implicazioni di tale interesse.
Il diritto si rivolge, inevitabilmente, alla generazione presente: più coerente concettualmente sarebbe stata dunque la previsione di una responsabilità della generazione presente nei confronti di quelle future. Il che avrebbe tra l’altro ricollegato più esplicitamente la problematica al campo dei doveri costituzionali di solidarietà, evidenziando gli elementi di coerenza e di continuità dell’impianto costituzionale complessivo. Non sono peraltro mancate, rispetto alla scelta di richiamare a livello costituzionale la dimensione dell’intergenerazionalità degli interessi, anche critiche di altra natura, come quella legata al rischio che la nuova disposizione venga intesa essenzialmente quale presupposto di politiche economiche restrittive orientate a un principio di sostenibilità declinata prevalentemente come sostenibilità del bilancio pubblico (in questo senso C. De Fiores, Le insidie di una revisione pleonastica, cit., 155).
Può lasciare per certi versi perplessi anche un altro dato connesso alla formulazione scelta: l’interesse delle generazioni future risulta richiamato solo in riferimento alla tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità, ma non a quella del paesaggio, che resta richiamato al comma II dell’art. 9. Peraltro tutti i grandi edifici oggetto nel tempo di interventi di ampiamento o di manutenzione in momenti diversi e ad opera di mani (e di menti) diverse, finiscono per presentare alcune disomogeneità di stile, asimmetrie. Anche l’edificio normativo della Costituzione, quando sia oggetto di interventi di manutenzione, può presentare di queste asimmetrie, che andrebbero evitate ma che non vanno caricate di eccessivi significati. Pare di potersi escludere che dalla nuova disposizione si debba far discendere la norma secondo cui la tutela del paesaggio, tanto può inteso come territorio complessivamente espressivo di una identità percepita da una comunità, entro un percorso evolutivo di rapporto tra uomo e contesto ambientale, non debba anch’essa essere immaginata e condotta anche nell’interesse delle generazioni future.
Resta una questione aperta, che delinea quella che può apparire un’aporia.
Le norme costituzionali, oltre a indirizzarsi alla giurisdizione e all’amministrazione, hanno come proprio interlocutore privilegiato il Parlamento, la sfera della decisione politica.
Si è detto di come una delle cifre più innovative della revisione adottata, cifra che costituisce un elemento comune al ciclo costituzionalistico presente, sia l’assunzione di un orizzonte temporale ampio, che abbraccia la considerazione degli interessi delle generazioni anche future.
Questa ampiezza di orizzonte temporale, questa attitudine a decidere oggi pensando al domani (e al dopodomani) stride fortemente con le dinamiche attuali dei processi di decisione politica.
Restando al livello statale, basti pensare a prassi consolidate quali l’abuso della decretazione d’urgenza, l’utilizzo delle deleghe legislative più per spostare dal parlamento al governo la definizione delle questioni controverse all’interno della stessa maggioranza che per impostare grandi riforme di sistema, l’abuso del ricorso agli strumenti del maxiemendamento e della questione di fiducia, che disarticolano e bloccano le possibilità di organico sviluppo del dibattito parlamentare, basti pensare a una produzione legislativa che da tempo pare rincorrere l’emergenza (o lasciarsi rincorrere dall’emergenza) più che progettare e definire organiche riforme. Anche valutando i caratteri del quadro politico complessivo, emergono dinamiche nelle quali il confronto e la comunicazione appaiono fortemente orientati all’obiettivo di suscitare, intercettare e interpretare gli umori contingenti dell’elettorato più che alla proposta di progetti politici alternativi da realizzarsi entro un orizzonte temporale ampio. Di fronte a tutto ciò, immaginare che possa avviarsi un radicale cambiamento di approccio a seguito (o almeno col concorso) di questa riforma, può lasciare evidentemente perplessi.
Ci si è disabituati a pensare una politica legislativa di ampio orizzonte, per tanti e noti fattori, non certo solo per la cattiva volontà della classe politica contingente.
Ci si è abituati a pensare la rappresentanza politica solo in funzione del consenso espresso dalla comunità contingente dei cittadini-elettori, declinandola come una accountability legata al gradimento immediato, istantaneo, non quale strumento attraverso cui tutelare degli interessi permanenti della Nazione repubblicana. Indubbiamente l’assunzione di un paradigma intergenerazionale conduce a tensioni e aporie rispetto alle più consolidate configurazioni di concetti cardine del costituzionalismo, quale ad esempio quello di responsabilità politica (su questi aspetti, si vedano, ad esempio, le considerazioni di, A. Morelli, Ritorno al futuro. La prospettiva intergenerazionale come declinazione necessaria della responsabilità politica, in www.costituzionalismo.it, 3 2021 [2022], 77 ss.).
Ma in fondo queste aporie sono in parte intrinseche al nostro stesso modello di democrazia, e allo stesso testo costituzionale, nel quale i parlamentari, gli eletti del popolo inteso come comunità di cittadini elettori, il cui consenso contingente va suscitato e intercettato nella contingenza politica, sono chiamati a operare quali rappresentanti della Nazione, di un’entità i cui interessi trascendono invece la contingenza politica.
E forse il recepimento costituzionale di un paradigma (anche) intergenerazionale, potrebbe almeno essere di stimolo ad un ripensamento, a livello di riflessione giuridica, circa la complessità e l’attualità dei legami tra Popolo e Nazione repubblicana.
4. La tutela costituzionale degli animali
Per certi versi anche l’ulteriore innovazione apportata al testo originario dell’art. 9 può essere letta come un corollario dell’allargamento di orizzonte rispetto al tradizionale paradigma antropocentrico. Anche in relazione alle tutele costituzionali nei confronti degli animali, si è opportunamente evitato di configurare nei termini di “diritti soggettivi” tali istanze.
Si parla di una non meglio configurata “tutela degli animali”, rimessa peraltro, nella definizione dei suoi contenuti e delle sue forme, alla sola legge dello Stato, e non alla responsabilità complessiva della Repubblica (con implicazioni di una qualche criticità che di cui si darà conto più avanti).
Anche in questo caso, apprezzabile appare la scelta di evitare di configurare nuove e incerte situazioni soggettive, quali quelle legate all’attribuzione agli animali nel loro insieme della qualifica di “esseri senzienti”: tale nozione si riscontra come noto a livello di ordinamento dell’Unione Europea e pare più direttamente collegata alle ricostruzioni volte a riconoscere un valore in sé alle capacità (e alla dignità) di tutti gli esseri senzienti, anche non umani, (in questo senso, ad esempio M.C. Nussbaum, Beyond “Compassion and Humanity”: Justice for Non-Human Animals, in C.R. Sunstein, M.C. Nussbaum (a cura di), Animals Rights. Current Debates and New Directions, Oxford University Press, New York, 2004, 305 ss.), sulla base di approcci etici risalenti all’emersione e alla formalizzazione teorica dell’“animalismo” a partire dagli anni ’70 del secolo scorso (su tali profili fondamentali restano le riflessioni di P. Singer, Liberazione animale (I ed. 1975), trad. It. a cura di P. Cavalieri, Il Saggiatore, Milano, 2015).
A livello di elaborazioni inter- e sovranazionali, si possono in effetti distinguere tra diversi livelli di attenzione, da parte del diritto, al mondo animale: le norme relative alla preservazione delle specie animali, le norme relative ai profili sanitari degli animali e del rapporto tra uomo e animali, le norme relative al benessere degli animali (su tali aspetti sia consentito rinviare a F. Mucci, La tutela degli animali tra diritto europeo, internazionale e costituzionale, in Eurojus, 2022, 258 ss.): il tenore delle nuove disposizioni costituzionali pare idoneo a un’interpretazione riferibile a tutte tali componenti e dunque sufficientemente aperto (anche ad una prospettiva non rigidamente antropocentrica), pur senza eccesivi azzardi e sperimentazioni.
Desta invece perplessità la scelta del rimando alla sola legge dello Stato: la tutela degli animali ha implicazioni articolate e complesse, non si limita all’ambito degli animali d’affezione, ma si riflette sulla disciplina delle modalità di allevamento e abbattimento degli animali allevati, sulla disciplina degli animali d’utilità, così come su quella della caccia, materie rispetto alle quali si intrecciano inevitabilmente competenze statali e regionali. Così come pare difficile escludere una competenza anche regionale in riferimento alle istanze di natura sanitaria legate al rapporto tra uomo e animali. E, ancora, parrebbe complesso ipotizzare una netta distinzione tra la dimensione della tutela in senso stretto (riservata allo Stato) e quella delle complessive modalità di relazione tra uomo e animali, rimessa a forme di concorrenza con la normativa regionale.
In effetti non appare facilmente interpretabile il riferimento alla “legge dello Stato”: non una riserva di legge in senso proprio (non essendo in questione diritti soggettivi), né d’altra parte una rigida indicazione circa il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni (che, al di là della sua condivisibilità o meno, avrebbe dovuto essere più opportunamente collocata nel contesto dell’art. 117, non tra i principi fondamentali della Costituzione).
Complessivamente, la previsione, pur poco felice per formulazione e collocazione, non pare comunque poter incidere in negativo sull’attuale disciplina della materia, così come sul dialogo tra livello statale e livelli regionali di intervento e tutela già sviluppatosi e consolidatosi: del resto l’entrata in vigore della nuova normativa costituzionale non risulta aver indotto ripensamenti circa la persistente facoltà delle Regioni di intervenire nella materia per via anche legislativa, per lo meno in attuazione dei principi stabiliti dalla legge statale. In materia di animali di affezione ed esotici, può ad esempio segnalarsi la recente proposta di legge presentata presso la Regione Piemonte (proposta di legge regionale n. 205 del 24 maggio 2022), in attuazione della legge statale n. 281 del 1991: tra i principi di tale proposta legislativa regionale si riscontrano peraltro previsioni che richiamano diverse formulazioni già discusse quali ipotesi di disposizioni da inserire a livello costituzionale nel contesto del processo di revisione da poco concluso, quali il principio del riconoscimenti in capo agli animali (in questo caso di affezione) di un “diritto a una esistenza compatibile con le proprie caratteristiche biologiche ed etologiche” (art. 1, comma I) o quello del riconoscimento agli stessi della “dignità di esseri senzienti” (art. 1, comma II). Disposizioni di principio che, avendo l’ambizione di ridefinire gli stessi presupposti antropologico/etologici per la titolarità di situazioni qualificate come “diritti”, dovrebbero trovare una più coerente collocazione, se non a livello costituzionale, per lo meno a livello di disciplina legislativa statale, difficilmente potendo configurarsi come meramente attuative di quest’ultima.
5. L’intervento sull’art. 41 Cost.: la costituzionalizzazione (implicita) della pluralità di dimensioni di uno sviluppo sostenibile
Oltre all’intervento sull’art. 9 Cost., la riforma adottata integra anche il contenuto dispositivo dell’art 41, aggiungendo ambiente e salute agli elementi (la sicurezza, la libertà, la dignità umana) rispetto ai quali l’attività economica privata non può svolgersi in contrasto.
Se in talune prospettive radicalmente liberali l’aggiunta di ulteriori parametri di legittimità costituzionale (e dunque di limiti) alla libertà di impresa, orientati ad un “fondamentalismo ambientale” determinerebbe gravi rischi, in quanto “essa de facto cannibalizza le libertà della prima generazione, e fa a pezzi le condizioni di esistenza della seconda. Edificando il sepolcro della civiltà occidentale” (in questi termini G. Di Plinio, L’insostenibile evanescenza della costituzionalizzazione dell’ambiente, in www.federalismi.it, 2021), per altro verso tale intervento può essere letto come una potenziale premessa alla riappropriazione di senso costituzionale di una disposizione che l’evoluzione dell’ordinamento della costituzione economica (ed in particolare il trasferimento al livello dell’Unione Europea di una parte prevalente delle determinazioni fondamentali in materia) aveva condotto ad una condizione di sostanziale desuetudine applicativa.
Ma al di là delle diverse letture circa le implicazioni in ordine al modello economico delineato dall’ordinamento costituzionale, l’art. 41 nel testo riformato pare rilevante (e si vedrà quanto foriero di spunti ermeneutici e applicativi) perché presenta ora l’unica traccia (implicita) di una dimensione delle problematiche ambientali emergente come rilevante nel costituzionalismo contemporaneo ma rimasta, in quanto tale, esclusa dall’intervento riformatore: il valore/principio di sostenibilità dello sviluppo (su tale nozione, sulla sua emersione e sul suo recepimento ai diversi livelli ordinamentali, si può rinviare a D. Porena, Il principio di sostenibilità, cit, 99 ss.).
Nessuna delle nuove disposizioni lo esplicita e in questo può indubbiamente cogliersi una lacuna o una carenza dell’intervento di revisione. Tuttavia, a partire dal suo consolidamento a livello internazionale negli ultimi anni del secolo scorso, il principio di sostenibilità dello sviluppo è stato articolato come principio della necessaria ricerca di un complessivo sviluppo tra diversi fattori e diverse istanze: in particolare (anche se non in termini esclusivi) tra una dimensione economica, una dimensione ecologia e una dimensione sociale.
Nel nuovo testo dell’art. 41 si può per lo meno riscontrare una traccia della consapevolezza di tale molteplicità di dimensioni da “tenere in equilibrio” rispetto alle istanze della libera attività economica: da un lato quelle ambientali/ecologiche, dall’altro quelle sociali, nelle loro diverse declinazioni (salute dei lavoratori e dei cittadini, sicurezza, libertà, dignità umana). E nel richiamo a questo equilibrio complessivo si può scorgere il recupero di un altro profilo di connessione dei principi costituzionali “ambientali” con i più tradizionali principi alla base dell’ordinamento costituzionale: se il richiamo all’interesse delle generazioni future inserito all’art. 9 si presenta come un primo espresso riferimento costituzionale ad un profilo di equità intergenerazionale, la nuova articolazione delle dimensioni di un’attività economica “costituzionalmente orientata” può essere letto come un aggiornamento (premessa per una rivitalizzazione?) di un profilo di equità intragenerazionale nell’organizzazione dell’attività economica.
Il paradigma della sostenibilità rappresenta in effetti uno dei principi guida, a livello sovra e transnazionale, di tale transizione che stanno vivendo le nostre società e i nostri ordinamenti giuridici. Principio guida indubbiamente sotto il profilo della intertemporalità (e quindi in un’ottica intergenerazionale), declinata come assunzione di responsabilità nei confronti delle generazioni future e come assunzione di un orizzonte di lungo periodo nella gestione del consumo e della preservazione di risorse scarse e non rinnovabili.
Ma tale principio guida opera anche in una dimensione intragenerazionale, nel contesto della quale emerge il formante anche sociale del paradigma della sostenibilità: sin dalle origini del confronto, a livello internazionale, intorno alla nozione di sostenibilità, si riscontra infatti il ruolo centrale riconosciuto alla dimensione dell’equità, sia intergenerazionale (di cui si è detto e che risulta in parte accolta dalla revisione adottata) sia anche intragenerazionale.
E rispetto alla dimensione intragenerazionale, il principio di sostenibilità implica in primo luogo una differenziazione di impegni, di responsabilità, nell’affrontare le sfide e gli oneri della transizione tra modelli economici: differenziazione esplicitata negli strumenti internazionali in primo luogo in riferimento ai rapporti tra stati già sviluppati (e che hanno acquisito la propria condizione di sviluppo economico attraverso modelli di produzione e di consumo oggi considerati insostenibili) e stati meno sviluppati, a cui meno si può imputare per il passato in termini di dissipazione di risorse e da cui si può pretendere un impegno egualmente serio ma necessariamente differenziato in termini di risorse economiche e tecnologiche da investire nella transizione.
Ma la dimensione di equità intragenerazionale implica anche una differenziazione di impegni e di responsabilità all’interno dei singoli contesti statali, all’interno delle singole comunità, tra soggetti che si trovino nelle condizioni economiche, professionali, territoriali, complessivamente “sociali” idonee a renderli partecipi delle potenzialità della transizione ecologica ed economica che si va profilando, con l’opportunità di coglierne i benefici, e soggetti che trovandosi in una condizione di fragilità e debolezza rischino di esserne emarginati o esclusi, vedendo menomate le stesse dimensioni della propria cittadinanza.
Se la transizione digitale ha dato già da tempo luogo alle problematiche del digital divide (sul tema ancora attuali i contributi raccolti in P. Tarallo (a cura di), Digital divide. La nuova frontiera dello sviluppo globale, Franco Angeli, Milano, 2003), del divario digitale (e della “cittadinanza digitale”), la transizione ecologica che si profila andrebbe affrontata, sulla base di una accezione organica del paradigma della sostenibilità, anche nella prospettiva di prevenire i rischi di un green divide, di un divario ecologico che possa determinare nuove forme di privilegio e di esclusione, incompatibili con la pienezza di una “cittadinanza ecologica”.
Dal punto di vista degli interventi normativi in materia l’aver esplicitato, al comma II dell’art. 41, tra i fini ai quali la legge è chiamata a indirizzare l’attività economica pubblica e privata attraverso norme di programmazione e controlli, accanto a quelli sociali anche quelli ambientali, può egualmente leggersi come l’emersione, a livello costituzionale, delle tre fondamentali dimensioni del paradigma della sostenibilità dello sviluppo: da tale integrazione della disposizione costituzionale non pare peraltro possano trarsi dirette implicazioni per il legislatore, o cambi radicali di paradigmi economici, essendo del resto anche prima della revisione possibili e legittimi eventuali interventi legislativi di programmazione o controllo volti a orientare l’attività economica a istanze di tutela anche ambientale.
6. Una questione aperta: l’ordine delle competenze in materia e i rapporti tra Stato e Regioni
Una questione su cui invece la riforma approvata non pare in grado di apportare né innovazioni significative né, quantomeno, utili chiarificazioni, appare quella della definizione dell’ordine delle competenze e delle responsabilità in ordine all’attuazione delle norme costituzionali legate ai principi ambientali.
Come noto l’assetto delineato dalla riforma costituzionale del 2001 aveva lasciato molte questioni aperte, rispetto alle quali si è scaricata essenzialmente sul giudice costituzionale la responsabilità di elaborare indirizzi chiarificatori, pur tra note difficoltà legate tra l’altro alla frequente presenza, nel contesto delle controversie tra Stato e Regioni in materia ambientale, di complesse questioni di natura tecnico/scientifica, maneggiabili con difficoltà da un organo giurisdizionale (su tali problematiche si può rinviare a M. Cecchetti, La Corte Costituzionale davanti alle “questioni tecniche” in materia di ambiente, in www.federalismi.it, 2020).
Rispetto a tali incertezze l’intervento riformatore rinuncia a dare indicazioni, se non di natura ambigua e potenzialmente fonte di ulteriori criticità interpretative.
Si è detto, ad esempio, della difficoltà di attribuire un senso alla riserva alla sola legge statale del compito di definire “i modi e le forme di tutela degli animali”, si è detto della difficoltà di interpretate le incongruenze derivanti dall’attribuzione alla competenza della Repubblica nel suo insieme della “tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi”, a fronte della previsione presente all’art. 117, comma II, s), di una competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema” (declinato peraltro al singolare) ma senza riferimenti alla biodiversità.
Anche l’accennata autonomizzazione della nozione di biodiversità rispetto a quelle di ambiente e di ecosistema potrebbe in prospettiva porre qualche problema interpretativo in ordine al riparto di competenze tra Stato e Regioni: come ricordato, la nozione non è richiamata autonomamente all’art. 117 nel definire l’ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato ma è d’altra parte assegnata dal nuovo art. 9 alla responsabilità della Repubblica, intrecciandosi peraltro inevitabilmente anche con materie come la disciplina della caccia, invece riconducibili alla competenza esclusiva delle Regioni.
Complessivamente, dunque, per quanto riguarda la chiarificazione del riparto di competenze tra Stato e Regioni in ordine alle tutele ambientali, l’intervento di revisione costituzionale approvato si presenta quanto meno come un’occasione mancata.
7. A chi parlano le nuove disposizioni costituzionali?
Ci si può a questo punto chiedere se e in quali termini a seguito di questa revisione, di questa manutenzione costituzionale, sia mutato il contenuto normativo della nostra costituzione. E, dunque, se le nuove disposizioni siano idonee a configurare nuove norme, ovvero a orientare in modo diverso comportamenti umani attraverso una loro diversa qualificazione giuridica.
Una risposta appare difficile in questa fase in cui non abbiamo riscontri di quelle che saranno l’interpretazione e l’applicazione delle nuove disposizioni costituzionali da parte dei decisori politici, dell’amministrazione e della giurisdizione.
E tuttavia una revisione costituzionale, anche al di là del suo puntuale contenuto dispositivo, rappresenta un dato, un fatto di politica del diritto di per sé rilevante, con il quale la stessa giurisprudenza costituzionale è chiamata confrontarsi: magari modulandone il senso normativo in modo anche profondo, senza inibizioni “originaliste” (basti il richiamo alla penetrante giurisprudenza sviluppatasi in ordine alle nuove disposizioni del Titolo V della Costituzione), ma senza poterne prescindere.
Richiamandoci al titolo di una nota e fondamentale opera in tema di bilanciamenti tra interessi costituzionali, se le nuove disposizioni non configurano direttamente nuovi diritti, è verosimile che potranno fornire nuovi e più saldi argomenti.
Inoltre, e in conclusione, una valenza positiva di questa riforma, pur con tutte le reticenze e le ambiguità segnalate, può forse cogliersi in relazione al fatto che tra i destinatari delle rinnovate norme costituzionali, e in particolare della norma che richiama all’impegno ad agire in un’ottica di responsabilità di lungo periodo, anche intergenerazionale, mutando prassi e abitudini consolidate, vanno collocati anche, e primariamente, i cittadini: la tutela delle diverse dimensioni delle istanze ambientali non può infatti prescindere dall’assunzione di un diverso paradigma temporale e di una diversa percezione delle proprie responsabilità anche da parte della comunità dei cittadini.
E ciò sia nel momento in cui è chiamata a determinare i propri comportamenti privati, sia quando è chiamata compiere le proprie scelte politiche.
- Professore Associato di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi di Torino. ↑