Le autonomie territoriali nell’ordinamento repubblicano
Giorgio Pastori1
1. La concezione dell’autonomia territoriale nello Stato unitario. – Se si riflette sul modo in cui si sia venuto affermando nel nostro ordinamento il principio autonomistico emerge quasi costantemente in tutta la nostra storia istituzionale la tensione fra due poli tra loro in rapporto dialettico, talora antitetico, comunque sempre di difficile contemperamento: da un lato l’esigenza di assicurare l’unità dell’ordinamento e dall’altro il riconoscimento e l’attuazione alle autonomie territoriali.
Come è noto, al momento della formazione dell’unità nazionale si sacrificarono le istanze, pur autorevoli e presenti, in favore di un assetto articolato dell’organizzazione di governo su base territoriale, ed in particolare regionale, anche sul piano amministrativo. Si diede vita invece ad un assetto unitario e centralizzato secondo l’idea che l’unità dell’ordinamento dovesse coincidere con l’unità dello Stato, del soggetto Stato quale ente portatore di tutte le finalità di interesse generale e titolare di tutte le funzioni di governo e di amministrazione sulla società, e da questa separato se non contrapposto.
Vero è che tra la fine dell’ottocento e i primi decenni del novecento si giunse al riconoscimento di Comuni e Province come enti politicamente autonomi, retti da organi rappresentativi delle rispettive collettività e di per sé responsabili nei loro confronti. Comuni e Province tuttavia furono sempre qualificati, in coerenza con l’idea base dello Stato unitario, come enti autarchici (vennero anzi qualificati addirittura come enti ausiliari dello Stato quando ne furono soppressi gli organi politico rappresentativi durante il ventennio).
Con la qualificazione di enti autarchici si intendeva che Comuni e Province perseguivano sì scopi propri ed erano sì titolari delle funzioni ad essi conferite, ma compiti e funzioni dovevano pur sempre considerarsi anche dello Stato, per quanto la loro cura fosse affidata ad enti rappresentativi delle collettività locali. E’ significativo al riguardo che le loro funzioni fossero qualificate come spese obbligatorie.
In effetti, nella visione dello Stato unitario, l’autonomia territoriale poteva ammettersi solo come autarchia. L’idea di fondo era che ci si trovasse sempre in presenza di un decentramento (dall’alto al basso) dallo Stato agli enti locali anche se politicamente autonomi. I Comuni e Province rappresentavano qualche cosa di aggiuntivo, posti accanto alla stessa organizzazione periferica statale, per l’esercizio di funzioni determinate e speciali rispetto alla generalità delle funzioni rimaste allo Stato, in condizione subordinata nei suoi confronti sotto molti profili (normativi, organizzativi, amministrativi, finanziari e di controllo) e privi di prerogative di partecipazione al funzionamento dell’organizzazione centrale dello Stato.
Ma è altrettanto vero che venne riconosciuta agli enti locali anche la possibilità di assumere (accanto alle spese o funzioni obbligatorie), le c.d. spese o funzioni facoltative, risorse finanziarie permettendolo e sempre che non vi fosse già una riserva ad altri enti. E nell’ambito delle c.d. spese facoltative poté esplicarsi in concreto e in modo innovativo l’iniziativa autonomistica locale pur sotto la tutela dello Stato. Nell’esplicazione di queste funzioni poté esprimersi in particolare la capacità delle singole istituzioni locali di provvedere alle esigenze e agli interessi delle proprie collettività ovvero la capacità di inventare e assumere funzioni e servizi nuovi secondo le diverse caratteristiche delle realtà economico-sociali e territoriali.
Venivano così a convivere nelle stesse istituzioni locali le due visioni dell’autonomia: l’autarchia – decentramento a cui corrispondeva la specialità di compiti e funzioni determinati e l’autonomia come autonomo governo delle collettività ovvero la capacità di provvedere alle proprie esigenze in modo tendenzialmente generale pur entro i principi e i limiti dell’ordinamento.
2. Il principio autonomistico nel disegno generale della Costituzione. – Ci si può chiedere tuttavia ora se e come nell’ ordinamento repubblicano che prende le mosse dalla vigente Costituzione le due polarità si siano venute tra loro componendo in termini che possano averne assicurato anche la reciproca valorizzazione.
Il Costituente del 1947 ha certamente voluto superare l’ambivalenza dell’assetto precedente mirando a comporre in una prospettiva rinnovata e originale unità dell’ordinamento e principio autonomistico.
Come è noto, il nuovo ordinamento democratico repubblicano ha voluto essere nelle intenzioni del Costituente, prima ancora che un ordinamento delle istituzioni di governo, un ordinamento della società che trova la sua unità di base, preliminare nei principi, e nei valori di libertà, eguaglianza, solidarietà personale e sociale quali sono stati sanciti nei principi fondamentali (in specie negli artt. 1,2,3,4) e specificati poi in tutta la prima parte della Costituzione, anche come oggetto di altrettanti diritti e doveri dei cittadini singoli e associati. E’ la società italiana che è ordinata e si organizza attorno a questi principi e finalità comuni. Sono questi che danno sostanza unitaria al nuovo ordinamento e identificano la Repubblica nel suo insieme e al loro perseguimento deve essere finalizzata l’azione di tutte le istituzioni di governo come espressione della società stessa.
Entro questa visione della società, che si organizza per governarsi democraticamente e che ritrova la sua unità di ordinamento nei fini e nei compiti comuni obiettivati nella Costituzione e nelle leggi (come dirà poi la Corte costituzionale: dec. n. 453/1990), si iscrive a sua volta naturalmente l’affermazione all’art. 5 del principio autonomistico come principio fondamentale dell’assetto delle istituzioni di governo. Alla divisione classica orizzontale dei poteri propria dello Stato di diritto si affianca il pluralismo politico-istituzionale al fine di assicurare la migliore rispondenza e responsabilità delle istituzioni nei riguardi della collettività nazionale e insieme delle singole collettività locali.
È una netta cesura rispetto al passato che emerge agevolmente se si guarda a quanto dice l’art. 5 Cost. che riassume in sé i principali tratti della nuova visione costituzionale dell’autonomia: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Come si può notare, è la Repubblica in quanto ordinamento complessivo della società e del governo, nell’unità e indivisibilità dei principi e dei fini che la identificano, che non solo riconosce le autonomie locali (vale a dire: prende atto della loro esistenza), ma le promuove. E il riconoscimento e la promozione delle autonomie si distinguono e si contrappongono rispetto all’impegno parimenti assunto di attuare il più ampio decentramento amministrativo nei servizi che dipendono dallo Stato. Nell’art. 5 è ben chiaro il principio secondo cui spetta alle collettività locali nella misura più ampia possibile la capacità di governarsi ed amministrarsi da sé attraverso proprie istituzioni rappresentative, come dirà poi la Carta europea dell’autonomia locale del 1985 (recepita da noi con l. n. 439/1989). Ed è a tal fine, per corrispondere alle esigenze dell’autonomia, oltre che del decentramento, che l’art. 5 si conclude significativamente dicendo che dovranno essere adeguati non solo i principi ma anche i metodi della legislazione, preludendo a una partecipazione delle autonomie alla formazione della legislazione repubblicana.
La prospettiva è totalmente mutata. Si delinea quella che si è poi usato chiamare la Repubblica delle autonomie. Le autonomie locali e con ciò anche le nuove autonomie regionali e le rinate autonomie locali acquistano il ruolo di momenti costitutivi di un sistema pluralistico delle istituzioni di governo, come confermava esplicitamente poi l’art. 114 in apertura dell’originario Titolo Quinto della Parte seconda dicendo che “La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”.
Le autonomie regionali e locali concorrono al perseguimento dei fini comuni dell’ordinamento come enti generali portatori degli interessi delle rispettive collettività e devono poter disporre non solo di funzioni speciali e determinate, ma in relazione al loro ruolo di governo devono poter disporre di tutte le funzioni che possono essere esercitate in sede locale e poter assumere le funzioni e i servizi che risultino opportuni in relazione alle condizioni locali.
Non possono essere più considerate in posizione subordinata rispetto allo Stato, ma devono rapportarsi tra loro e con lo Stato in termini di coordinamento tendenzialmente paritario, partecipando (come dice l’art. 5 prevedendo la necessità di adeguare non solo i principi ma anche i metodi della legislazione) ai processi decisionali dei livelli di governo più ampi che le riguardano.
In breve nell’art. 5 vi era e vi è come racchiuso un programma di trasformazione e di riordino del nostro sistema istituzionale che partendo dalle collettività di base doveva risalire alle collettività e alle istituzioni territoriali di livello superiore e che nella sua ispirazione di fondo poteva essere già definito sostanzialmente a vocazione federale, in quanto si doveva costruire dal basso verso l’alto e in quanto l’ unità dei compiti e il pluralismo delle istituzioni dovevano comporsi in un disegno di autonomia e insieme di responsabilità condivise.
3. I limiti del Titolo V della Parte seconda della Costituzione e della sua attuazione. – Se però si guarda ora all’originario Titolo V della Parte seconda della Costituzione, che doveva dare applicazione e sviluppo al disegno dell’art. 5 con le potenzialità innovative ed espansive in esso contenute e che pure si apriva con l’affermazione ricordata dell’art. 114, non è difficile constatare una discrasia fra i due testi, come sia rimasta anche all’interno dello stesso dettato costituzionale l’ambivalenza che pareva essere stata superata.
Il Titolo V° dettava una disciplina delle nuove istituzioni regionali e delle loro prerogative di autonomia, per quanto del tutto nuova rispetto al passato, assai prudente, frutto dei compromessi raggiunti in sede di Assemblea costituente. Era una disciplina che incideva solo marginalmente sull’assetto complessivo delle istituzioni, iscrivendosi al fondo più in una prospettiva di decentramento che di autonomia, in cui il criterio di riparto delle attribuzioni fra Stato, Regioni ed enti locali era rappresentato dalla scala discendente dell’interesse (nazionale, regionale o locale) variamente attribuito alle diverse materie e funzioni. Le Regioni sembravano così aggiungersi a un sistema ancora diversamente impostato ed avere figura di enti a competenze speciali per quanto costituzionalmente garantite. La competenza legislativa concorrente era circoscritta ad un elenco tassativo di materie valutate come di interesse regionale. Le funzioni amministrative erano attribuite secondo il principio del parallelismo nelle medesime materie e neppure completamente. L’autonomia finanziaria era affermata in linea di principio ma garantita in maniera generica. A ciò si aggiunga la subordinazione derivante dalla limitata competenza statutaria riconosciuta alle Regioni, ridotta nell’oggetto e ripartita con le Camere, nonché dalla trama di controlli puntuali previsti sugli atti legislativi ed amministrativi. Infine, nonostante le garanzie costituzionali assicurate a tutela delle competenze riconosciute, erano assai limitati i raccordi partecipativi fra istituzioni regionali e istituzioni centrali, così da indurre a considerare i reciproci rapporti in termini più di separazione che di integrazione.
D’altro canto per Comuni e Province il Titolo Quinto, sebbene li definisse come enti autonomi, rinviava al legislatore ordinario nazionale di determinarne le funzioni senza stabilire appositi principi e criteri. Inoltre poco o nulla diceva quanto ai rapporti fra Regione ed enti territoriali locali, facendo propria anche al riguardo la visione di un decentramento discendente dall’una agli altri come fra Stato e Regioni e privilegiando inoltre i rapporti diretti degli enti locali con lo Stato rispetto ai rapporti di coordinamento e di partecipazione con la Regione stessa.
Vi erano quindi delle scelte nell’iniziale testo costituzionale che riflettevano anche al suo interno la convivenza delle due anime.
E non è difficile constatare come in sede di attuazione della nuova Costituzione il disegno e il programma dell’art. 5 è apparso per molti anni più come un’enunciazione ideale iscritta nella Carta costituzionale del 1948 che non il punto di avvio di una effettiva trasformazione del sistema.
Si è assistito al riproporsi, al di là di quanto poteva giustificare il Titolo V, del confronto fra l’una e l’altra concezione, quella dello Stato unitario e quella della Repubblica delle autonomie, con una lettura della Costituzione prevalentemente ispirata all’idea, specie nel periodo iniziale della ricostruzione nazionale, che tutto, compiti e funzioni pubbliche, dovesse ancora far capo in prima istanza allo Stato anche quando erano decentrate a Regioni ed enti locali.
È appena il caso di ricordare come nei primi due decenni dell’ordinamento repubblicano si sia avuta la pressoché totale inattuazione anche di ciò che il Titolo V stabiliva. In particolare la grande novità rappresentata dall’istituzione delle Regioni dotate di autonomia legislativa, oltre che amministrativa e finanziaria, non ha avuto riscontro per più di vent’anni. Solo le Regioni speciali vengono attuate sulla base dei propri statuti di autonomia, ma entro limiti assai ristretti rispetto alle previsioni statutarie, operando le Regioni speciali come altrettante eccezioni rispetto a un impianto istituzionale rimasto ancorato al modello dello Stato unitario. D’altro canto, viene ripristinata l’autonomia politica di Comuni e Province, ma ad essa non è seguita l’opera di adeguamento legislativo che sarebbe stata richiesta.
E’ solo ai primi anni settanta che si è avviato un lungo e progressivo ma sempre contrastato cammino verso la realizzazione di quel disegno di composizione fra unità dell’ordinamento e pluralismo autonomistico che l’art. 5 postulava.
L’istituzione delle Regioni ordinarie segna il momento di avvio di questo cammino, ma fa emergere anche in tutta la sua evidenza il contrasto fra le due visioni, che trovava d’altronde non poco alimento negli stessi limiti interni al testo costituzionale originario del Titolo V: quando, da un lato le Regioni, benché sotto tutela delle Camere, elaborano i primi statuti e, d’altro lato, si effettuano i primi trasferimenti di funzioni e risorse (la c.d. prima regionalizzazione del 1970-72).
Negli statuti, visti come “piccole costituzioni”, le Regioni diedero di sé stesse l’immagine di un ente a fini generali espressione dell’autonomo governo delle rispettive collettività che concorreva a realizzare gli scopi e i compiti costituzionali valendosi di tutte le funzioni che avrebbero dovuto loro spettare a questi fini con il coinvolgimento e la partecipazione di tutti gli enti e di tutti i soggetti espressione della società regionale.
Per contro il primo trasferimento effettuato sulla base dei disposti costituzionali, per di più nell’ottica minuta del conferimento di singole competenze, esprimeva ancora il disegno di un decentramento dallo Stato sebbene ad enti autonomi e l’immagine di Regioni caratterizzate dalla specialità delle funzioni (che paradossalmente neppure sembravano disporre al pari degli enti locali di funzioni facoltative). Le Regioni erano viste come terminali di un sistema retto sul modello dello Stato unitario che non si trasformava in un sistema a base regionale. Si pensi a come il trasferimento delle funzioni venne altresì limitato dalla riserva di una inedita funzione di indirizzo e coordinamento del Governo sull’esercizio delle funzioni trasferite in vista di assicurare gli obiettivi nazionali di programmazione.
Da ciò trae origine il progredire del successivo cammino trentennale di riforme che ha fatto dell’autonomia regionale e delle autonomie locali una sorta di grande work in progress istituzionale per riuscire a trasformare l’intero sistema alla luce dell’art. 5 e che non si può ora che richiamare del tutto sommariamente nelle sue fasi peraltro ben note.
La successiva fase, la c.d. seconda regionalizzazione, mirò a rispondere, mediante un’interpretazione il più possibile organica e finalizzata delle materie di spettanza regionale e un corrispondente trasferimento di funzioni, alle istanze espresse dagli statuti regionali. Si ricordi il ben noto DPR n. 616 del 1977 che sulla base della legge delega n. 382 del 1975 ha rappresentato il più significativo sforzo per porre in grado le Regioni di svolgere – diceva la legge delega – una “gestione sistematica e programmata per il territorio e il corpo sociale“, vale a dire un effettivo ruolo di governo della realtà regionale quale delineato dagli statuti. Nello stesso tempo si incrementarono anche le competenze amministrative di Comuni e Province. Si impostò inoltre (art. 11 d.lgs. n. 616 cit.) un disegno di raccordi generali programmatici di coordinamento fra Stato, Regioni ed enti locali che avrebbe dovuto realizzare la definizione partecipata delle politiche e degli obiettivi da perseguire, ma che però non ebbe seguito, così come fu lasciato cadere il proposito di intervenire sull’organizzazione centrale dello Stato.
Ma alle riforme degli anni settanta che, per quanto fondate sul dato costituzionale, erano pur sempre state attuate con legge ordinaria, è seguito nel corso del decennio successivo una sorta di centralismo di ritorno che ha contribuito a condizionare, se non ad annullare, specie mediante programmazioni nazionali di settore, gli spazi di autonomia prima acquisiti dalle singole Regioni. Un centralismo di ritorno solo in parte compensato dall’emergere prima nella prassi e poi anche sul piano formale di quello che diventerà il “sistema delle conferenze” ovvero dalla tendenza ad associare in forme meno episodiche la rappresentanza delle Regioni (e poi in seguito negli anni 90 anche quella degli enti locali) alla definizione di politiche nazionali in sostituzione e a compenso di quanto di fatto era stato tolto all’autonomia decisionale dei singoli enti (privilegiando con ciò anche gli esecutivi regionali rispetto alle assemblee) .
Ne scaturì comunque nell’insieme un assetto caratterizzato da una commistione e da un’indistinzione di responsabilità fra i vari livelli di governo in ordine al perseguimento dei fini e dei compiti comuni che metteva in crisi sia la democraticità che la efficienza del sistema e spingeva a proporne il superamento anche attraverso revisioni costituzionali.
4. La riproposta del principio autonomistico nella riforma costituzionale del 2001. – Di qui la ripresa di un’azione riformatrice verso la fine degli anni novanta con la c.d. terza regionalizzazione del 1997-1998, che è stata seguita poi dalle modifiche costituzionali del 1999 e 2001 secondo una linea ispiratrice comune.
La scelta intrapresa è stata quella di una sorta di ritorno al disegno dell’art. 5 cercando di dare la massima attuazione al principio autonomistico compatibilmente con la piena realizzazione delle finalità e dei compiti che individuano l’ordinamento repubblicano nella sua unità sostanziale.
A ciò è servito in particolare riconsiderare l’intero sistema politico-istituzionale alla luce di una riscoperta e di una rilettura del principio autonomistico nei termini del principio di sussidiarietà.
Il principio, nella sua duplice valenza sociale e istituzionale, seppure non espressamente menzionato, di per sé si poteva considerare già implicito nella visione del nuovo ordinamento democratico della società e delle istituzioni tracciato dal Costituente. Secondo il significato primo della sussidiarietà in senso sociale le funzioni o le attività di interesse generale devono poter essere svolte in via prioritaria dagli stessi cittadini singoli e associati ovvero dalle formazioni sociali a cui appunto si riferisce l’art. 2 della nostra Costituzione e solo se le formazioni sociali non possono adeguatamente svolgerle dalle istituzioni pubbliche. A ciò si ricollega poi l’ulteriore significato del principio di sussidiarietà in senso istituzionale (o federale come si suole anche definire). Secondo tale ulteriore significato le funzioni pubbliche (normative ed amministrative) devono essere conferite in via prioritaria alle istituzioni pubbliche di base e, solo se ciò non sia compatibile con la natura e la dimensione delle stesse ai fini del loro efficace ed efficiente esercizio, queste possono essere conferite alle istituzioni di pubbliche di livello superiore.
Tutto ciò si poteva già considerare implicitamente affermato nell’ art. 5. Però, la riproposta del principio autonomistico in termini di principio di sussidiarietà, occasionata in particolare dall’espressa affermazione dello stesso nel Trattato europeo di Maastricht quanto ai rapporti fra Comunità europea e Stati membri, ha potuto dare nuova forza e incisività al principio autonomistico facendone la base per una ricostruzione dell’intero sistema dal basso verso l’alto, dalle formazioni sociali alle istituzioni di base alle istituzioni di livello superiore non solo regionali e nazionali, ma anche comunitarie e internazionali. Nel medesimo tempo il principio di sussidiarietà esprime un rapporto di complementarità fra tutte le istituzioni sociali e pubbliche in ordine al conseguimento degli obiettivi comuni: l’una istituzione è sussidiaria all’altra, pur senza che siano impedite ma siano anzi favorite le ulteriori iniziative delle singole istituzioni per provvedere a situazioni ed esigenze delle rispettive collettività.
In tal senso il principio ricollega unità e pluralismo, richiede infatti che la distribuzione delle funzioni non avvenga più secondo una pretesa scala di interessi diversi inerenti alle singole funzioni (tutte le funzioni sono insieme di interesse locale, regionale e locale), ma secondo la natura e la dimensione delle funzioni stesse partendo dal livello più prossimo alla realtà sociale. Il principio di sussidiarietà postula cioè l’unità funzionale dell’intero sistema e una condivisione di responsabilità fra tutti i livelli di governo in ordine al conseguimento di obiettivi e di finalità comuni, all’adempimento dei diritti riconosciuti e dei risultati condivisi.
Si coniugano così i due poli dell’autonomia e della responsabilità: della valorizzazione della maggior autonomia sul piano normativo, organizzativo, amministrativo, finanziario e della capacità di rispondere e di essere responsabili nello stesso tempo secondo le proprie attribuzioni dei risultati conseguiti in un quadro funzionale unitario.
Nelle riforme degli anni 90 e dei primi anni duemila emerge in maniera netta la progressiva affermazione del principio di sussidiarietà come chiave di volta del sistema.
La legge finalmente varata sull’ordinamento delle autonomie locali (la n. 142 del 1990) aveva già accolto la prospettiva per i Comuni e le Province come enti a fini generali per la cura degli interessi generali delle rispettive collettività: offre un primo quadro organico alle funzioni degli enti autonomi locali e prevede il conferimento a loro da parte delle Regioni di tutte le funzioni non comportanti un esercizio unitario, delineando il ruolo della Regione come centro di propulsione e coordinamento del sistema dell’autonomia locale (come si esprimerà poi la Corte costituzionale con decisione n.343/1991).
Ma è con le riforme legislative del ‘97-‘98 del c.d. federalismo amministrativo a Costituzione invariata (o riforme Bassanini) che si sceglie di andare oltre lo stesso testo costituzionale allora ancora invariato. Si sceglie di andare oltre l’elenco delle materie del vecchio art. 117 disponendo un conferimento generalizzato di funzioni amministrative a Regioni ed enti locali all’insegna del principio di sussidiarietà con l’obiettivo come diceva la legge delega n. 59/1997 di conferire “alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura di interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità”.
Si è rovesciato quindi per la prima volta il criterio di riparto delle funzioni con riguardo a quelle amministrative, superando il principio del parallelismo, in modo che le attribuzioni dello Stato diventano a carattere speciale mentre quelle del plesso regionale – locale acquisiscono un carattere generale residuale. Le riforme del ‘97-‘98 anticipano così sul piano delle funzioni amministrative il disegno ricostruttivo dell’assetto esistente poi più compiutamente realizzato nella riforma della Costituzione del 2001.
La riforma ha inteso dare una copertura e stabilità costituzionale alle scelte del legislatore ordinario del ‘97-‘98 necessariamente limitate al piano dell’amministrazione e nel medesimo tempo ha innovato sotto gli altri aspetti su cui il legislatore ordinario a Costituzione invariata non aveva potuto incidere.
Come è noto il nuovo art. 114 si apre ora con l’affermazione che la Repubblica è costituita in ordine ascendente da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. Il carattere costitutivo delle autonomie territoriali rispetto alla Repubblica e all’ordinamento repubblicano sembra ora nettamente scolpito insieme alla pari dignità istituzionale di tutti gli enti territoriali la cui autonomia è direttamente garantita nei limiti dei principi stabiliti dalla Costituzione.
A queste affermazioni di apertura fanno seguito le altre norme. I criteri di riparto delle attribuzioni legislative ed amministrative sono rovesciati rispetto al passato e complessivamente ispirati al principio di sussidiarietà. Si pensi al riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni che è contraddistinto dal carattere enumerato delle materie di spettanza esclusiva e concorrente dello Stato e dal carattere generale residuale delle materie di spettanza regionale. Si pensi al riparto delle funzioni amministrative che per tutte le materie di competenza legislativa sia statale che regionale deve effettuarsi secondo i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, partendo dalla preliminare affermazione della competenza generale dei Comuni e dal definitivo abbandono del principio del parallelismo.
Va ricordato d’altronde che la Corte costituzionale ha esteso l’applicazione del principio di sussidiarietà (con l’istituto della c.d. chiamata in sussidiarietà: dec. n. 303 del 2003 e giurisprudenza costante successiva) anche al riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni rendendo tale riparto non più rigido, ma flessibile secondo la natura e le dimensioni delle funzioni da svolgere. Si ricordi infine come l’autonomia finanziaria trovi nel testo costituzionale una più circostanziata disciplina al fine di assicurare l’integrale copertura delle funzioni spettanti.
Nel nuovo Titolo Quinto sono stati rimossi inoltre quei vincoli che determinavano una condizione di subordinazione delle autonomie territoriali sotto più aspetti: con il riconoscimento della potestà statutaria delle Regioni (già con la riforma del 1999) e di quella statutaria e regolamentare degli enti locali, con la eliminazione dei controlli preventivi sugli atti legislativi ed amministrativi.
Nel contempo con diverse modalità (abbandonando il limite di merito dell’interesse nazionale) si è cercato di assicurare l’unità dell’ordinamento mediante la riserva di alcune competenze allo Stato che intrecciano trasversalmente quelle delle Regioni. Si ricordi in particolare la competenza in tema di definizione dei livelli essenziali delle prestazioni corrispondenti ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Al loro rispetto è finalizzata anche la disciplina delle risorse finanziarie e la previsione di poteri sostitutivi, tipici di un sistema basato sul principio di sussidiarietà, per assicurare l’unità giuridica ed economica ed il rispetto di tali livelli essenziali (evitando con ciò possibili derive localistiche del sistema così ampiamente decentralizzato) (art. 120 2° co.).
5. L’attuazione della riforma del 2001 dieci anni dopo. – La riforma del 2001 è rimasta però finora inattuata, a parte quelle norme che potevano avere incidenza immediata, quasi non fosse avvenuta, fino alla prima vera legge di attuazione della riforma, la legge delega n.42 del 2009 sul federalismo fiscale seguita dai decreti delegati di successiva emanazione.
Molte ragioni hanno concorso a ritardarne l’attuazione o a ridurne finora l’impatto sull’ordinamento. Ma sembra fondamentalmente che, come per il precedente testo costituzionale, anche per questo sia mancata la predisposizione di adeguati meccanismi di attuazione.
La novità e l’importanza dell’opera di adeguamento del sistema erano tali che si è previsto inizialmente che vi dovessero presiedere congiuntamente tutti i soggetti del sistema. Si ricordi l’accordo interistituzionale del giugno 2002 che si espresse in tal senso e che ha avuto il limitatissimo seguito della legge n.131 del 2003, la c.d. Legge La Loggia. Ma tutto poi, come in passato, è dipeso dagli schieramenti e dagli equilibri politico-partitici centrali se attuare o non attuare le previsioni costituzionali. E si è lasciato grande spazio alla opera di supplenza necessariamente incompleta anche se meritoria della Corte costituzionale.
È l’esperienza dei dieci anni ormai trascorsi dalla riforma a mostrare che, se si vuole che le autonomie territoriali siano a pieno titolo componenti costitutive della Repubblica, si deve realizzare invece una sede condivisa di governance del sistema così prefigurato.
L’edificio della riforma del 2001 non manca di mende specie nell’individuazione delle materie attribuite rispettivamente a Stato e Regioni, ma manca soprattutto di un coronamento per giungere alla costruzione di un sistema dall’indubbia vocazione federale (come ne mancava anche la successiva riforma del 2005 poi non confermata dal referendum). È d’altronde lo stesso impianto della riforma che lo richiede, retto com’è dal principio di sussidiarietà, in cui si coniuga l’esigenza della maggiore attuazione del principio autonomistico con quella della efficace ed efficiente perseguimento dell’unità funzionale del sistema, in cui si intrecciano necessariamente le due polarità. È un sistema che per il modo flessibile e dinamico, necessariamente instabile, in cui non può che funzionare, comporta che si realizzi quella trasformazione delle sedi decisionali centrali da cui può derivare principalmente un federalismo che attraverso la piena attuazione delle autonomie territoriali concorra a dare ulteriore radicamento e forza all’unità nazionale.
Nella riforma del 2001 è stato previsto il Consiglio delle autonomie locali nelle Regioni come organo di consultazione e di confronto partecipativo fra Regione ed enti locali. In sede centrale è stata prevista però solo l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con rappresentanti regionali e locali (art. 11, l. cost. n. 3 del 2001 cit.), poi neppure realizzata.
E’ mancata la previsione di una Camera di rappresentanza istituzionale – territoriale delle Regioni in sostituzione di una delle Camere che oggi costituiscono il Parlamento della Repubblica. E comunque assai limitati sono stati i raccordi di coordinamento fra i vari livelli di governo.
La voce delle Regioni e degli enti locali oggi è affidata al “sistema delle conferenze” che specie nei tempi più recenti è parso rivestire sempre maggior rilievo proprio in ragione della indubbia unità del sistema che oggi si manifesta in particolare sul piano finanziario.
Come è noto, le autonomie regionali e locali negli ultimi vent’anni sono state in maniera sempre più incisiva corresponsabilizzate al rispetto del patto di stabilità e crescita europeo e del patto di stabilità interno così che la dimensione finanziaria ha acquisito sempre più la veste di una cornice rigida indipendente entro cui il sistema autonomistico viene ad essere costretto. A fronte di ciò si è accentuato il ruolo contrattuale nei riguardi dello Stato esplicato dal fronte delle Regioni e degli enti locali, svolto con esiti alterni e non sempre in maniera unitaria.
In particolare negli ultimi anni, come già ricordato, si è avviata l’attuazione della riforma partendo dall’art. 119 Cost., dalla determinazione e dal coordinamento degli aspetti finanziari con la legge delega n.42/2009 e i successivi decreti delegati sul c.d. federalismo fiscale. Il che ha finito per coinvolgere preliminarmente l’identificazione delle funzioni da riconoscere a Regioni ed enti locali e in particolare la definizione di come queste si rapportino rispetto a comuni parametri di risultato e di costo, i c.d. costi standard, specie con riguardo al mantenimento dei livelli essenziali delle prestazioni e all’esercizio delle funzioni fondamentali degli enti territoriali.
A ben vedere con i provvedimenti sul c.d. federalismo fiscale si è venuto ad affrontare il problema centrale del sistema di come l’autonomia dei singoli livelli di governo si coniuga con la responsabilità del perseguimento degli obiettivi comuni (in ordine all’esercizio delle funzioni fondamentali e al rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni corrispondenti ai diritti civili e sociali) secondo determinati parametri di costo e di risultato, oltre che in ordine all’esercizio delle restanti funzioni. Si potrebbe dire: come si coniuga il federalismo devolutivo con il federalismo cooperativo, per usare termini correnti.
Anche al riguardo, per la elaborazione della normativa sul c.d. federalismo fiscale e il monitoraggio della sua attuazione, è diventato necessario creare sedi apposite di partecipazione regionale e locale alle decisioni nazionali.
Tutto ciò però non può compensare il mancato completamento di quel disegno che adombrava e adombra tuttora l’art. 5 quando diceva e dice che la Repubblica adegua ovvero deve adeguare i metodi della propria legislazione alle esigenze dell’autonomia oltre che del decentramento.
Solo così la vocazione federale della riforma del 2001, si spera, non sarà frustrata e potrà realizzarsi.
D’altronde , non può non rilevarsi come, in parallelo al corso ordinario delle riforme, si siano avute dal 2009 ad oggi, sotto l’urgenza della crisi ancora in corso, ripetute manovre finanziarie disposte o, per meglio dire, imposte unilateralmente dal centro che hanno investito tutto il sistema amministrativo con effetti gravemente invasivi nell’immediato anche delle autonomie territoriali e tali da far temere che non solo si sia vanificato lo stesso disegno del federalismo fiscale o che ne sia rinviata nel tempo la sua attuazione, ma che si sia minato nelle sue fondamenta lo stesso principio di autonomia regionale e locale. Gli ultimissimi anni caratterizzati dalla crisi economico finanziaria e le più recenti vicende istituzionali hanno infatti fatto emergere un indubbio scostamento da quel disegno che intendeva coniugare unità funzionale del sistema e pluralismo autonomistico entro un rinnovato quadro di regole e responsabilità che debbono investire l’agire del governo e dell’amministrazione ad ogni livello.
Si è piuttosto assistito, nell’urgenza delle politiche di contenimento della spesa, ad una vera e propria invasione in forme occasionali degli spazi di autonomia costituzionalmente garantiti sia alle Regioni che agli enti locali sulla base dell’esercizio non sempre giustificabile della competenza statale in tema di “coordinamento della finanza pubblica”, per poi giungere anche alle modifiche della Costituzione, varate nel 2012 sulla base degli impegni assunti in sede europea (artt. 81, 97, 117, 119), che hanno definito le nuove regole per assicurare l’equilibrio di bilancio di tutte le pubbliche amministrazioni. Il che offrirà allo Stato ulteriori possibilità di incidere sulle autonomie territoriali neppure ancora pienamente valutabili.
Si è di fatto avuto una sorta di assoggettamento delle autonomie territoriali a misure unilateralmente stabilite dal centro sulla base di esclusive ragioni finanziarie e si è abbandonato almeno momentaneamente il disegno complessivamente tracciato in sede costituzionale nel 2001 che implicava il riordino contestuale di funzioni, strutture, risorse e responsabilità per l’intero sistema politico amministrativo, in particolare secondo i ricordati principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Ed è invece dal completamento di tale disegno, pur nella diversa cornice di vincoli finanziari stabilita, che occorre ripartire.
1. Professore emerito di Diritto amministrativo, Università Cattolica del S. Cuore di Milano