Norme regionali e aiuto al suicidio

Anna Costantini[1]

(ABSTRACT) ITA

Il contributo affronta in prospettiva penalistica la questione dell’ammissibilità di un intervento normativo regionale in materia di suicidio assistito, emersa di recente a fronte della presentazione di alcune proposte di legge regionali (iniziativa “Liberi Subito”) e dell’approvazione di alcune delibere amministrative in Emilia-Romagna.

(ABSTRACT) EN

From a criminal law perspective, the paper addresses the question of the admissibility of a regional regulatory intervention on assisted suicide, which has recently emerged in the face of the presentation of some regional bills (the so-called “Liberi Subito” initiative) and the approval of some administrative resolutions in Emilia-Romagna.

Sommario:

1. Il dibattito sulla “regionalizzazione” del suicidio assistito e il contributo del diritto penale – 2. I contorni dello “spazio libero dal diritto penale” in tema di aiuto a morire – 3. I contenuti del diritto regionale in fieri – 4. Prima questione: il controverso riconoscimento di un “diritto” al suicidio assistito – 4.1. Gli obblighi (già esistenti) in capo ai medici e alle amministrazioni sanitarie. Il possibile ruolo delle regioni – 5. Seconda questione: la compatibilità con il limite della riserva di legge statale in materia penale – 5.1. La possibile interferenza del diritto regionale sulla clausola “procedurale” dell’art. 580 c.p., tra causa di esclusione del tipo, dell’antigiuridicità o della colpevolezza – 5.2. Gli spazi dell’interazione ammissibile tra legge regionale e diritto penale – 5.3. Il limite “attuativo” del contributo regionale alla definizione della procedura liceizzante il suicidio assistito – 6. Conclusioni

1. Il dibattito sulla “regionalizzazione” del suicidio assistito e il contributo del diritto penale

Sono trascorsi alcuni anni da quando la Corte costituzionale, nel definire il caso Antoniani-Cappato[2], richiamò con urgenza il Parlamento alla necessità di approvare una disciplina organica, laica e costituzionalmente compatibile sul “suicidio medicalmente assistito”. Quelle sollecitazioni, ancora ribadite pochi mesi fa nella pronuncia resa nel caso Trentini[3], sono rimaste del tutto inascoltate e la materia continua a essere priva di definizione normativa: la conseguenza è che quanti si sono visti riconoscere sulla carta la libertà di ricevere aiuto medico a morire si trovano, nei fatti, confinati in un vero e proprio “limbo giuridico”[4], poiché, in mancanza di chiare indicazioni legislative, l’accoglimento della loro richiesta risulta subordinato alle decisioni disomogenee delle singole amministrazioni sanitarie o dell’autorità giudiziaria.

Di fronte alla contumacia del legislatore a livello “centrale”, si va allora facendo strada l’idea che possano essere le regioni a intervenire, così da uniformare – per quanto su base territoriale – l’attuale frammentazione applicativa. Sono due le vie prospettate, una “legislativa” e l’altra “amministrativa”: la prima è quella indicata dall’iniziativa Liberi Subito dell’Associazione Luca Coscioni, che in numerose regioni ha promosso la presentazione di progetti di legge sull’accesso al suicidio assistito; alla seconda si conforma la scelta, già percorsa in alcune regioni (ad es. l’Emilia-Romagna), di regolare alcuni aspetti della materia mediante delibera amministrativa.

In entrambe le varianti, la prospettiva di una “regionalizzazione” normativa del suicidio assistito non ha mancato di incontrare opposizioni a livello politico, così come di suscitare un ampio dibattito nella dottrina costituzionalistica[5].

Occorre tenere distinti i piani della discussione: a livello politico, si osservano resistenze che celano una volontà contraria alla piena attuazione delle sentenze costituzionali (nient’altro che proiezioni “locali”, dunque, delle medesime spinte oppositive presenti sulla scena parlamentare). Per converso, sono emersi timori di una concretizzazione diseguale dei diritti fondamentali riconosciuti dalla stessa Corte costituzionale, quale deriverebbe da una disciplina “a macchia di leopardo” del suicidio medico assistito, oltre alla considerazione di opportunità secondo cui la delicatezza degli interessi coinvolti richiederebbe di essere maneggiata dal Parlamento nazionale[6]. Da un punto di vista tecnico-giuridico, invece, il nodo principale è quello della compatibilità con il riparto di competenze legislative tra Stato e regioni sancito dalla Costituzione (art. 117). Così, se, da un lato, vi è chi ritiene che una legge regionale sul fine vita (e a maggior ragione una delibera amministrativa) sconfinerebbe in settori di competenza statale esclusiva (“ordinamento civile” o “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”), ovvero inciderebbe sull’individuazione di princìpi fondamentali riservati allo Stato nella disciplina di materie concorrenti (“tutela della salute”)[7], vi è, dall’altro lato, chi ammette uno spazio di intervento regionale strettamente finalizzato ad attuare quanto sancito dalla Corte costituzionale[8].

Il dibattito si riflette anche sul fronte istituzionale: se numerosi organi di garanzia regionale hanno ritenuto ammissibili le proposte di legge presentate (così, ad es. in Emilia-Romagna, Abruzzo, Piemonte, Friuli-Venezia Giulia, Veneto), in senso contrario si è espressa, invece, l’Avvocatura dello Stato in un parere richiesto dal Consiglio regionale del Veneto[9], con posizione ribadita di recente in un ricorso al Tar contro le delibere della Regione Emilia-Romagna[10]. Particolarmente emblematica della contrapposizione è la vicenda piemontese: nella legislatura appena conclusa, dopo un iniziale via libera del consiglio di garanzia, il Consiglio regionale ha, infine, approvato una “pregiudiziale di costituzionalità” che ha precluso l’esame nel merito del progetto di legge[11].

Nella cornice di tale contrapposizione dialettica, che sinora ha impegnato soprattutto la dottrina costituzionalistica, meritano considerazione alcuni profili che, più specificamente, intersecano la prospettiva del diritto penale.

Il punto di vista penalistico, del resto, si colloca già nelle premesse della riflessione, se è vero che, tuttora, la perimetrazione dei confini della materia del suicidio assistito risulta assegnata a una norma incriminatrice, vale a dire l’art. 580 c.p.: questa costituisce l’unica disposizione che sia stata direttamente investita dalle interpolazioni della sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale. È noto come la parziale liceizzazione della morte assistita rappresenti il risultato della declaratoria di parziale incostituzionalità di tale reato: la Consulta, più precisamente, ha ritagliato una “zona di libertà” dal rimprovero penale, sottraendo alla pretesa punitiva le condotte di assistenza alla “morte di mano propria” prestate a persone: (i) affette da patologie irreversibili; (ii) costrette a sopportare sofferenze fisiche o psicologiche che trovino assolutamente intollerabili; (iii) tenute in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale; (iv) capaci di prendere decisioni libere e consapevoli; condizioni, queste, che devono essere oggetto di un previo accertamento “proceduralizzato” da parte del servizio sanitario pubblico (v. infra).

Ebbene, per le ragioni che si vedranno, la mancanza di una disciplina legislativa sul suicidio assistito affligge in prima battuta proprio l’operatività della “causa di non punibilità” introdotta dalla Corte costituzionale: da questo punto di vista, la prospettiva di un intervento regionale sembra promettere di rendere realmente disponibile quel territorio di libertà dalla pena aperto dalla sentenza Cappato.

Per altro verso, il diritto penale offre una chiave di lettura anche per l’individuazione di eventuali ostacoli che si frappongano a una regolamentazione regionale dell’aiuto al suicidio. Una funzione di limite è svolta dalla “regola” introdotta dalla Corte costituzionale con la riformulazione dell’art. 580 c.p.[12]: sebbene accedente a una norma incriminatrice, infatti, la Corte costituzionale detta una disciplina di dettaglio che impatta anche su profili giuridici extra-penali. Ne consegue che qualunque fonte (statale o regionale, primaria o secondaria che sia) che aspiri ridefinire i contorni dell’istituto deve confrontarsi con quel referente normativo.

Un secondo fattore di possibile delimitazione si riconnette al pericolo di una diversificazione regionale degli statuti punitivi dell’aiuto al suicidio, in contrasto con l’esigenza di uguaglianza della tutela penale sul territorio nazionale. Occorre considerare, in altre parole, il rischio di un’incidenza “di ritorno” sul diritto penale di atti normativi locali che, nel regolare l’accesso al suicidio medicalmente assistito, si candidano almeno in astratto a tangere i bordi della disposizione incriminatrice, con l’effetto di espandere o contrarre l’area della responsabilità penale. Questa evenienza chiama immediatamente in causa la garanzia della riserva di legge nella materia penale, che opera come duplice vincolo – di fonte primaria e di fonte statale – all’esercizio del potere punitivo, dunque come limite all’ingresso di norme sia di natura regolamentare, sia di provenienza regionale.

Seguendo questa duplice direttiva d’indagine, si tratterà quindi di esaminare quali siano i possibili spazi di intervento normativo delle regioni in tema di suicidio assistito, alla luce dei limiti che possono specificamente derivare dal diritto penale.

2. I contorni dello “spazio libero dal diritto penale” in tema di aiuto a morire

Prima di affrontare i profili problematici delineati, pare opportuno premettere una ricostruzione dello “stato dell’arte”, ossia dello scenario normativo con cui le attuali o potenziali iniziative regionali si trovano a confrontarsi. La regolamentazione del suicidio medicalmente assistito si innesta, come detto, in un’area in precedenza “occupata” dal diritto penale, per poi esserne in parte “liberata” a opera della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale.

Le attuali coordinate dell’istituto, pertanto, si rintracciano in quella pronuncia, costituendo la risultante della “scelta tragica” di cui la Consulta è stata investita tramite la questione di legittimità dell’art. 580 c.p. I giudici costituzionali, per un verso, non avrebbero potuto ignorare gli aspetti di incostituzionalità – in relazione ai principi dell’autodeterminazione e della dignità della persona[13] – convogliati da una punizione indiscriminata delle condotte di agevolazione materiale del suicidio: una fattispecie, questa, che visibilmente si offuscava di intransigente disumanità dinanzi a quei casi, emblematizzati dalla vicenda di Marco Cappato e Fabiano Antoniani, in cui l’aiuto si rivolge a persone che invocano di essere liberate da un’esistenza percepita come prigioniera delle sofferenze del corpo[14]. Si voleva, però, al contempo scongiurare il vuoto di legislazione che una secca declaratoria di illegittimità avrebbe determinato, con il pericolo di privare di una, invece necessaria, tutela penale le persone che maturano la decisione di morire in condizioni di fragilità e sono, dunque, maggiormente esposte ad abusi o a condizionamenti. Insomma: occorreva, sì, liberare dal diritto penale, in alcune situazioni, il suicidio medicalmente assistito, ma non in ogni caso, né si poteva in via assoluta lasciarlo libero dal diritto, da qualunque disposizione che ne regolasse condizioni e modalità di esercizio[15].

Alla Corte era chiaro, peraltro, che questo bilanciamento coinvolgesse scelte di valore fondamentali di cui dovesse essere investito il decisore politico. Di qui l’iniziale tentativo di interlocuzione con il Parlamento, tramite il (fino ad allora) inedito meccanismo della “incostituzionalità differita” escogitato dall’ordinanza n. 207/2018: la decisione anticipava e, insieme, sospendeva lo scrutinio delle norme censurate, così da consentire all’organo legislativo, nel frattempo “messo in mora”, di elaborare una disciplina organica e costituzionalmente compatibile della materia.

Le attese – è storia nota – sono rimaste deluse: e, scaduto l’anno di tempo concesso, alla Corte non è rimasto altro, con la successiva sentenza n. 242/2019, che dichiarare la preannunciata parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p., suo malgrado avocando a sé la difficile opera di mediazione tra le istanze di libertà e i bisogni di protezione individuale che confliggono, spesso in modo drammatico, nelle situazioni di vulnerabilità di fronte alla morte. Per conseguire tale obiettivo, la pronuncia si è orientata in due direzioni.

In primo luogo, non è stata imboccata la strada, suggerita dall’ordinanza di rimessione, di ritenere tout court incostituzionale la parte della disposizione che incrimina le condotte di “aiuto” al suicidio, ossia di assistenza nell’esecuzione di una decisione suicidaria già precedentemente e autonomamente formate: una prospettiva, questa, che è stata invece percorsa in altri ordinamenti (ad es. dal Tribunale costituzionale tedesco[16]) e la cui adozione presupporrebbe di considerare la scelta di morire quale espressione di una libertà assoluta di autodeterminazione individuale – a fondamento costituzionale (artt. 2 e 13 Cost.) e sovranazionale (art. 8 Cedu) –, con la conseguenza che anche il supporto prestato dal terzo all’esercizio di tale libertà dovrebbe necessariamente qualificarsi come lecito[17].

Nell’ottica della Corte costituzionale, tuttavia, simile conclusione risulta viziata da una lettura eccessivamente astratta dell’autonomia individuale, che ignora le concrete condizioni di vulnerabilità da cui, sovente, le decisioni suicidarie sono condizionate. In linea di principio, quindi, non potrebbe ritenersi inibita all’ordinamento una reazione oppositiva a quelle scelte, tramite la punizione delle condotte che ne agevolino l’attuazione[18]: ciò si giustificherebbe, infatti, in funzione di tutela del diritto alla vita “dei soggetti più deboli e vulnerabili”, ossia di quelle persone “che attraversano difficoltà e sofferenze” perché “malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine”, e quindi “facilmente indotte” a compiere un gesto irreparabile dal quale, invece, potrebbero essere distolte con un adeguato supporto psicologico[19].

Si tratta di ragioni di tutela che, però, vengono meno ove ricorra la specifica “sotto-fattispecie” di aiuto al suicidio[20] riscontrata nella vicenda di Antoniani e Cappato (v. supra), relativa cioè ai casi in cui l’ausilio si rivolga al malato che, in forza dell’art. 32, comma 2, Cost. e dell’art. 1, l. 219/2017, già avrebbe il diritto (o la libertà) di lasciarsi morire[21], pretendendo l’interruzione delle cure e la sottoposizione alla sedazione palliativa profonda e continua, ma che a questa possibilità preferisca una morte immediata, considerandola più dignitosa e meno dolorosa, anche per le persone che gli sono care. In tali situazioni, infatti, la richiesta di morire potrebbe non corrispondere a una transitoria “vulnerabilità” psicologica[22], ma essere dettata da un lucido e convinto rifiuto dell’alternativa imposta tra una vita e un decorso mortale entrambi percepiti come contrastanti con la propria idea di dignità (nel vivere e nel morire). Il divieto assoluto di aiuto al suicidio finirebbe, così, per “limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”[23].

In queste situazioni-limite, dunque, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio diviene incompatibile con il quadro di valori tracciato dalla Costituzione e lascia il passo al pieno riconoscimento della libertà di decidere su se stessi: consegue da ciò la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui impedisce la piena attuazione di tali princìpi. D’altra parte, anche in questi casi non viene meno il pericolo che il malato subisca condizionamenti o abusi nella decisione di morire: proprio per garantire protezione a tale peculiare dimensione di vulnerabilità individuale, che appartiene al malato terminale (ed è diversa dalla “comune” vulnerabilità davanti al suicidio), la sent. 242/2019 ha subordinato la non punibilità ex art. 580 all’ulteriore rispetto di una disciplina “procedurale”, strumentale ad assicurare un controllo ex ante sulla reale sussistenza dei presupposti che, sul piano sostanziale, rendono legittima la condotta di aiuto al suicidio. Più precisamente, occorre che tali requisiti siano accertati da parte di una struttura pubblica del servizio sanitario, secondo le medesime modalità previste dalla l. n. 219/2017 per i casi di interruzione di trattamenti di sostegno vitale e previo parere del comitato etico territorialmente competente. La soluzione sposata dalla Corte, in definitiva, colloca il suicidio medicalmente assistito in uno spazio di libertà “proceduralizzata”, ossia ne condiziona la liceità al rispetto di un iter che, nelle sue linee essenziali, si trova già delineato nella pronuncia, che ne detta la relativa disciplina sulle “rime adeguate” della legislazione sul rifiuto delle cure (v. infra, § 5.1.).

Ebbene, nell’introduzione di tale procedura si annida il nucleo problematico dell’attuale praticabilità del suicidio assistito. Da un lato, infatti, la sentenza costituzionale sembra intendere le proprie indicazioni come auto-applicative e, quindi, destinate a essere eseguite dalle amministrazioni sanitarie senza necessità di ulteriore mediazione legislativa; dall’altro lato, tuttavia, l’opera creativa dei giudici costituzionali non si è spinta fino a introdurre una disciplina di dettaglio (né, del resto, avrebbe potuto farlo), con l’effetto di lasciare numerosi profili aperti all’interpretazione: si pensi, solo a titolo di esempio, ai dubbi sorti in merito all’individuazione dei comitati etici competenti a fornire il parere richiesto[24]. Una delle questioni principali è se in capo alle amministrazioni sanitarie, che risultino destinatarie di richieste di suicidio assistito, sussista un vero e proprio obbligo di attivare il percorso di accertamento dei requisiti richiesti dalla Corte e di prestare l’aiuto richiesto: in merito, la prassi applicativa registra risposte disomogenee, per cui a situazioni di spontaneo adeguamento alla sentenza costituzionale[25] si accostano comportamenti di inerzia o aperto rifiuto, che costringono gli istanti ad affidarsi alle decisioni (a loro volta incerte) degli organi giudiziari[26].

È proprio per arginare tali difformità applicative, in attesa di un intervento da parte del legislatore nazionale, che si discute di un’eventuale “supplenza” delle regioni nel dettagliare la disciplina dettata dalla Consulta per la legittimità del suicidio assistito.

3. I contenuti del diritto regionale in fieri

In questa direzione si orientano le proposte di legge redatte dall’Associazione Luca Coscioni e depositate, con formulazione sostanzialmente coincidente, in vari Consigli regionali. L’obiettivo degli interventi è duplice: (i) la specificazione dei requisiti “procedimentali” del suicidio medicalmente assistito, tramite la definizione di “tempi e modalità” per l’erogazione, da parte dell’amministrazione sanitaria regionale, dei relativi trattamenti; (ii) la configurazione di tale procedimento come doveroso per il soggetto pubblico, riconoscendo l’esistenza di un corrispondente diritto soggettivo, “individuale e inviolabile”, in capo al paziente che, in costanza dei presupposti stabiliti dalla Corte costituzionale, richieda l’assistenza sanitaria al suicidio (art. 1).

La procedura viene articolata in due successive fasi: la prima, volta all’accertamento della sussistenza dei requisiti sostanziali legittimanti l’aiuto al suicidio, ai sensi della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale; la seconda, subordinata all’esito positivo del riscontro degli stessi presupposti, diretta a garantire al malato sia il reperimento del farmaco, sia la necessaria assistenza sanitaria, prima e durante l’atto di autosomministrazione.

La verifica delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito prende avvio a seguito di istanza presentata dall’interessato all’azienda sanitaria competente per territorio (v. art. 3, comma 1). Lo svolgimento dell’attività accertativa è affidato a una Commissione medica multidisciplinare permanente (art. 2), formata da persone individuate sulla base di specifiche professionalità – più precisamente: un medico palliativista, un neurologo, uno psichiatra, un anestesista, un infermiere e uno psicologo (comma 2) – e fatta salva la possibilità, per la stessa Commissione, di integrarne di volta in volta la composizione, per una migliore valutazione delle condizioni del singolo paziente (comma 3). Il progetto di legge prevede, inoltre, che in “caso di rifiuto di cure con sedazione profonda continua e di ogni altra soluzione praticabile ai sensi della legge 22 dicembre 2017, n. 219” e previo parere del Comitato etico territoriale, la Commissione stabilisca anche le modalità per assicurare al richiedente la “morte più rapida, indolore e dignitosa possibile” (comma 4).

Laddove la prima fase abbia esito positivo, il paziente può chiedere l’erogazione del trattamento autorizzato[27]: in tal caso le aziende sanitarie regionali, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017, “forniscono il supporto tecnico e farmacologico nonché l’assistenza medica per la preparazione all’autosomministrazione del farmaco autorizzato presso una struttura ospedaliera, l’hospice o, se richiesto, il proprio domicilio” (art. 3, comma 4). Tali prestazioni e trattamenti sono configurati come gratuiti (art. 5).

La procedura bifasica descritta deve seguire precise scansioni temporali (art. 4). Quanto all’attività di controllo circa il possesso dei requisiti, se ne prevede la conclusione entro venti giorni dalla presentazione dell’istanza da parte della persona interessata (comma 1). Si tratta di un termine complessivo che viene, poi, ulteriormente modulato in una serie di passaggi: (i) l’azienda sanitaria locale competente per territorio ha quattro giorni di tempo per avviare il procedimento di verifica convocando la Commissione medica multidisciplinare; (ii) la Commissione, a sua volta, entro i successivi otto giorni deve inviare la relazione sull’esito dell’accertamento al Comitato etico; (iii) quest’ultimo ha cinque giorni per comunicare il proprio parere all’Azienda sanitaria che, (iv) entro i successivi tre giorni, deve comunicare alla persona malata le risultanze del procedimento di verifica compiuto (comma 2).

Per quanto attiene alla seconda fase, relativa all’erogazione dei trattamenti terapeutici e assistenziali richiesti, si prevede che l’accesso al percorso finalizzato all’autosomministrazione del farmaco letale avvenga entro sette giorni dalla richiesta (comma 3). Resta fermo che la persona ha in ogni momento il diritto di “sospendere, posticipare o annullare l’erogazione del trattamento” (comma 4).

Tutte le disposizioni introdotte, in ogni caso, vengono sottoposte a una sorta di “condizione risolutiva espressa” tramite l’introduzione di clausole di “cedevolezza invertita”[28], dirette a evitare pro futuro il possibile crearsi di conflitti antinomici con una eventuale normativa statale sopravvenuta, rispetto a cui la disciplina regionale viene resa ex ante automaticamente recessiva: si prevede, da un lato, che l’accesso alle procedure delineate dalla legge risulta possibile “fino all’entrata in vigore della disciplina statale” (art. 2, comma 1); dall’altro, che “le strutture sanitarie pubbliche della regione conformano i procedimenti disciplinati dalla presente legge alla disciplina statale” (art. 4, comma 5).

Proprio tali regole, nel momento in cui “giocano d’anticipo” nel cercare soluzioni al possibile crearsi di contrasti legislativi tra Stato e regioni, sembrano sconfessare il cuore problematico delle proposte di legge in esame, ossia la loro controversa collocazione entro il quadro di competenze di cui all’art. 117 Cost. Come anticipato, infatti, le principali criticità evidenziate dalla dottrina costituzionalistica concernono il possibile sconfinamento di tali iniziative dai campi di materia di spettanza regionale[29].

Senza poter in questa sede ripercorrere nel dettaglio i termini della discussione in corso, preme evidenziare i due profili che assumono rilevanza nell’ottica penalistica.

Per un verso, viene in rilievo l’obiezione secondo cui le proposte di legge regionale mirerebbero a introdurre un sinora inesistente “diritto di morire” tramite l’accesso al suicidio medicalmente assistito, giuridicamente azionabile nei confronti delle amministrazioni pubbliche: una simile previsione, si è sostenuto, collocandosi al di fuori del perimetro delle libertà fondamentali tracciato dalla Corte costituzionale, eccederebbe anche la competenza regionale, perché investirebbe materie riservate allo Stato in misura esclusiva (ad es., l’ordinamento civile), ovvero la definizione di princìpi generali di materie concorrenti (ad es., la tutela della salute).

Per altro verso, a essere contestate sono le previsioni che aspirano a dettagliare le modalità e i tempi dell’accertamento dei requisiti di liceità del suicidio medicalmente assistito da parte delle strutture sanitarie: il tema specificamente penalistico è se tali regole, intervenendo sul presupposto “procedurale” introdotto dalla Consulta per escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio, siano capaci di espandere o contrarre la “zona di libertà” dal rimprovero penale, eventualità che ne segnerebbe l’appartenenza alla “materia penale”, riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Rispetto al secondo profilo, va ancora evidenziato come questioni analoghe si ripropongano, in modo anzi ancor più accentuato, rispetto alla regolamentazione amministrativa già introdotta da alcune regioni. Si pensi al caso, che recentemente ha fatto discutere, dell’emanazione in Emilia-Romagna di una disciplina definita mediante una determinazione del direttore generale dell’assessorato alla cura della persona, salute e welfare[30]. I contenuti sono per molti versi simili a quelli delle proposte di legge analizzate, concernendo le modalità e i tempi sia della verifica dei requisiti da parte di una commissione medica, sia della successiva prestazione dell’assistenza al suicidio (inclusiva anche della fornitura del farmaco), che deve essere gratuita e deve essere attuata da “personale adeguato, individuato su base volontaria”.

In prospettiva penale, la scelta di demandare la regolamentazione del suicidio assistito a una fonte sottordinata alla legge regionale può risultare ancor più problematica, perché chiama in causa il nucleo del principio di riserva di legge come vincolo di fonte primaria, ancor prima che come regola di competenza statale. La questione centrale diventerebbe, infatti, quella dei limiti all’integrazione della norma penale da parte di fonti di rango secondario.

4. Prima questione: il controverso riconoscimento di un “diritto” al suicidio assistito

Il primo nodo da sciogliere riguarda la stessa ammissibilità di interventi normativi di provenienza regionale orientati a garantire il riconoscimento di un diritto a ricevere assistenza al suicidio: come si è visto, si tratta di un obiettivo espressamente dichiarato dalle proposte di legge Liberi Subito, che qualificano l’erogazione dei trattamenti da esse disciplinati quali oggetto di un diritto “individuale e inviolabile”, specificando che quest’ultimo “non può essere limitato, condizionato o assoggettato ad altre forme di controllo al di fuori di quanto ivi previsto” (art. 1, comma 2), nonché, in via speculare, pongono a carico dell’amministrazione sanitaria un dovere di assistenza medica al suicidio, da prestare gratuitamente al paziente che si trovi nelle condizioni prescritte dalla Corte costituzionale.

Di fronte a una simile previsione, si riscontrano due posizioni alternative: (i) da un lato, si afferma che in essa si annida un’autentica opera di creazione ex novo di un diritto (regionale) a ricevere assistenza medica al suicidio, il quale sarebbe contrastante con il riparto di competenze legislative Stato-Regioni[31]; (ii) all’opposto, vi è chi assegna all’intervento regionale un significato meramente attuativo di posizioni soggettive delineate dalla sent. n. 242/2019 e, quindi, ritenute già operanti nell’ordinamento[32].

Chi sostiene la prima tesi muove dalla convinzione che la Corte costituzionale si sia limitata a riconoscere, nelle peculiari situazioni dalla stessa circoscritte, una mera facoltà di richiedere un aiuto per compiere il suicidio (a tal fine escludendo la punibilità dell’agevolatore), senza fondare alcun diritto a pretendere l’assistenza richiesta, né, di riflesso, alcun dovere di prestazione in capo a terzi[33]. Si fa notare, infatti, come la Consulta abbia espressamente escluso l’esistenza di un obbligo di procedere all’aiuto per i singoli medici e non abbia gravato le strutture sanitarie del dovere di predisporre le procedure organizzative necessarie ad assistere chi chieda di interrompere la vita: il che risulta evidentemente incompatibile con il riconoscimento di un diritto al suicidio. Al Servizio Sanitario Nazionale, pertanto, spetterebbero “meri oneri di verifica delle condizioni del paziente e delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio”[34], in via strumentale all’esclusione della punibilità di chi volontariamente decida di prestare l’ausilio invocato.

Questa posizione, seppur in parte condivisibile, si presta ad alcune critiche. È senz’altro vero che la sentenza n. 242/2019, come ancora ribadito dalla n. 135/2024, non ha riconosciuto un “diritto della persona alla propria morte”, implicante la pretesa a ottenere da terzi un aiuto a morire: si precisa all’opposto che l’ausilio del sanitario, pur dovendo ritenersi lecito se prestato alle condizioni previste, non è mai obbligatorio, vale a dire oggetto di un dovere di prestazione, perché resta demandato alla coscienza del singolo lo “scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la scelta del malato”.

Posta tale premessa, tuttavia, sembra erroneo trarre da essa la conclusione secondo cui, anche nei casi ora “liceizzati”, il suicidio resti una mera libertà di fatto, un puro “desiderio” confinato nel mondo del giuridicamente irrilevante. La Corte costituzionale, come detto, fonda la non punibilità parziale dell’aiuto al suicidio sulla “libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”: alle condizioni individuate, la decisione del malato relativa alla propria morte costituisce l’esercizio di una vera “libertà costituzionale”, radicata sugli artt. 2, 13 e 32 Cost., in cui sembra implicito – se non lo si vuole chiamare un diritto di morire – un diritto di scegliere di non soffrire di fronte alla morte. Il riconoscimento di tale situazione soggettiva si fonda sulla simmetria tracciata – secondo la logica del principio di uguaglianza/divieto di discriminazione (seppur non più richiamato espressamente dalla sent. n. 242/2019, a differenza di quanto aveva fatto l’ord. n. 207/2018) – con la condizione di chi abbia diritto di rifiutare i trattamenti sanitari per lasciarsi morire[35]: se la libertà di autodeterminazione impone “di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari […], non vi è ragione” per escludere da tutela anche la richiesta “di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”[36].

Potrebbe ritenersi paradossale che al riconoscimento di un diritto soggettivo non corrisponda la previsione di obblighi positivi di cooperazione in capo a terzi: ma la contraddizione è solo apparente, e può facilmente risolversi ove ci si disancori da una concezione dei diritti fondamentali rigidamente ricalcata su quella dei diritti patrimoniali, ossia sullo schema dei rapporti di debito-credito[37]. Un simile paradigma non può funzionare nelle situazioni, come quelle qui considerate, dove nella relazione tra chi intende esercitare la propria libertà e chi sia investito di tale richiesta entrino concezioni esistenziali personalissime e intangibili, non necessariamente condivise.

La “libertà di coscienza” riconosciuta al sanitario[38] consegue, allora, all’impossibilità di imporre una condotta di attiva collaborazione alla morte altrui. Pertanto, non può essere percorso sino alla fine il parallelismo tra aiuto al suicidio e interruzione delle cure su cui, come si è appena detto, viene edificata la posizione soggettiva del malato. Se la simmetria “funziona” dal versante dei pazienti i quali, di fronte a comuni presupposti fattuali (malattia inguaribile, sofferenze intollerabili e necessità di supporti vitali), devono poter scegliere il modo per loro più dignitoso di affrontare la morte, non lo stesso può valere per i medici: esiste, è vero, una forte omogeneità assiologica tra chi agevoli il morente e chi, in esecuzione di una volontà terapeutica, si astenga o interrompa le terapie salvavita[39], ma le due fattispecie possono risultare al contempo molto diverse sul piano della percezione etica individuale, in ragione della differenza naturalistica che intercorre tra una condotta che contribuisce a provocare la morte (accelerandone il decorso eziologico) e quella che si limiti a non impedirla sospendendo le cure. È questo disallineamento a spiegare l’ineliminabile eterogeneità della posizione del medico, in un caso e nell’altro: solo nell’ipotesi del rifiuto di terapie, infatti, gli si può imporre un dovere di corrispondere alla volontà del malato, che si traduca nella necessità di obbedire a un mero divieto di attuare o proseguire i trattamenti respinti; al sanitario non potrebbe, invece, essere prescritto di collaborare in modo fattivo all’esecuzione di scelte autolesive, trattandosi di un contenuto estraneo alla sua posizione di garanzia.

Ciò non toglie, come si diceva, che anche al malato che chiede assistenza al suicidio sia riconosciuta una libertà costituzionalmente tutelata e, come tale, giuridicamente vincolante. Questa implica, anzitutto, il diritto di non essere ostacolato da terzi nell’attuazione di una decisione di procurarsi la morte, una volta che tale scelta sia autonomamente e liberamente formata[40]. La possibilità di accedere al suicidio assistito non potrebbe quindi essere rifiutata per ragioni etiche, o comunque diverse dall’inesistenza dei requisiti sostanziali prescritti dalla Corte. Né l’esecuzione del suicidio, una volta autorizzata dai servizi nazionali, potrebbe essere materialmente ostacolata da terzi (ci si potrebbe interrogare, anzi, sulla possibile rilevanza penale di una condotta impeditiva).

Fin qui, peraltro, si è rimasti ancora nel campo della “libertà da” impedimenti e restrizioni, la cui tutela esige un dovere di astensione a carico dei terzi (un non facere)[41]. Più delicato è se alla stessa possa accompagnarsi un diritto di pretendere qualcosa (un facere)[42]. Sono diversi i profili da tenere in considerazione.

4.1. Gli obblighi (già esistenti) in capo ai medici e alle amministrazioni sanitarie. Il possibile ruolo delle regioni

Come si è detto, la sent. 242/2019 attribuisce alle strutture sanitarie pubbliche il compito di gestire la procedura di accertamento delle condizioni di liceità dell’aiuto al suicidio (v. supra, § 3). Si tratta di una disciplina che la Corte costituzionale immagina come già immediatamente esecutiva: ne è ulteriore conferma, da ultimo, l’invito rivolto dalla sent. 135/2024 (non solo al legislatore ma anche, e autonomamente) al servizio sanitario nazionale di intervenire “prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione ai principi fissati” dalle precedenti pronunce (par. 10).

Dal carattere self-executive della procedura delineata dalla sent. 242/2019 discendono alcune conseguenze sul piano degli obblighi che, già allo stato attuale, devono ritenersi sussistenti in capo sia ai medici del servizio sanitario, sia agli stessi soggetti pubblici.

Il coinvolgimento dei sanitari deriva dalla circostanza che la Corte costituzionale, tramite il richiamo operato agli artt. 1 e 2 l. 219/2017, abbia calato la verifica dei presupposti di legittimità dell’aiuto al suicidio nel quadro della relazione terapeutica medico-paziente. Sul soggetto qualificato – al quale, è vero, non potrà mai essere imposta la realizzazione di condotte di sostegno materiale al suicidio ex art. 580 c.p. (ad es. la prescrizione o la messa a disposizione del farmaco) – permane invece “– ex art. 32, comma 1, Cost., ed ex l. 219/2017 – l’ordinario obbligo diagnostico e prognostico a fronte di patologie, e quello di tutelare la salute residua anche di chi intenda suicidarsi”[43]. Ne consegue, in particolare, che il medico è tenuto a fornire al paziente la necessaria assistenza sanitaria, a informarlo delle sue condizioni e a ridurne la sofferenza, sia nella fase in cui la decisione suicidaria viene maturata (quando dovrà, inoltre, essere prospettata la possibilità di accesso al percorso palliativo), sia successivamente, durante l’esecuzione del suicidio: anche in quest’ultimo momento, infatti, non viene meno il compito del sanitario di assistere il paziente e di alleviarne il dolore a fronte di eventuali complicanze[44].

Altro piano del discorso è quello dei doveri delle strutture sanitarie. Il ruolo dei servizi è essenziale nell’economia del ragionamento della Corte costituzionale: la liceizzazione dell’aiuto al suicidio non equivale a una sua liberalizzazione, ma comporta la definizione di un’area di controllo assegnata in via esclusiva all’amministrazione pubblica; si vuole infatti evitare che “qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – [possa] lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento”, il supporto a morire[45]. L’espletamento dell’attività di verifica demandata all’ente pubblico, pertanto, costituisce la stessa condizione per la non punibilità della condotta di agevolazione ex art. 580 c.p. Tale compito non può non ritenersi doveroso: diversamente il cittadino, il quale intenda rispondere a una legittima richiesta di aiuto a morire, verrebbe a trovarsi nella paradossale impossibilità di rispettare il precetto penale. In altri termini, all’onere di ottenere l’accertamento dei requisiti da parte dell’aspirante agevolatore corrisponde un vero e proprio obbligo di procedere in tal senso da parte dei servizi sanitari.

Non solo: il ruolo di controllo pubblicistico si proietta oltre l’accertamento della sussistenza dei requisiti di non punibilità del suicidio assistito, dovendo investire anche le concrete modalità prescelte per l’esecuzione del suicidio, al fine di evitare abusi, tutelare la dignità del paziente e garantire la minima sofferenza possibile nel momento della morte.

Si stanno orientando in questa direzione i giudici di merito, che già in alcune occasioni hanno censurato l’inerzia delle amministrazioni sanitarie, condannandole ad avviare la procedura descritta dalla Corte costituzionale. Si è affermato, più precisamente, che in capo ai servizi sanitari incombono due obblighi (cui corrispondono altrettante pretese individuali): (i) quello di accertare la sussistenza dei presupposti indicati nella sent. 242/2019 ai fini della non punibilità della condotta di agevolazione suicidaria realizzata dal terzo; (ii) quello di verificare sul piano tecnico-scientifico, anche tramite il parere del Comitato etico competente, l’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità esecutive e del farmaco prescelti ad assicurare la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile[46].

Rispetto alle situazioni di diritto/dovere descritte, dunque, non ha neppure senso discutere dell’esistenza di una competenza legislativa regionale: non si tratterebbe, infatti, di introdurre nuovi diritti, ma di ribadire posizioni soggettive che già esistono e che già impongono ai servizi sanitari, prima e a prescindere dall’approvazione di una legge, di predisporsi sul piano organizzativo in modo da consentire l’avvio e l’espletamento della procedura necessaria.

Più controverso, invece, è se le regioni possano prevedere un vero e proprio diritto del paziente, che versi nelle note quattro condizioni, di accedere al suicidio medicalizzato, tramite l’assunzione del farmaco letale. Una pretesa di questo tipo, come si è detto, non è stata espressamente riconosciuta dalla Corte costituzionale: né può, quindi, ritenersi ad oggi sussistente un corrispondente dovere di prestazione in capo ai soggetti pubblici[47]. Nondimeno, la previsione legislativa di una situazione soggettiva formulata in questi termini – purché rispetti la libertà di coscienza dei singoli operatori sanitari – non contrasterebbe con la prospettiva della Corte costituzionale, ma, al contrario, concorrerebbe a realizzare la libertà del paziente posta a fondamento della decisione sull’art. 580 c.p., evitando irragionevoli discriminazioni nel suo esercizio: quella di autodeterminarsi al suicidio, infatti, è una scelta che, nelle situazioni tipiche considerate dalla Consulta, per lo più non può essere realizzata in modo autonomo, ma risulta in concreto subordinata alla possibilità di entrare in contatto con medici disposti a prestare l’aiuto, oltre che di sostenere sul piano economico l’acquisto del farmaco.

Il legislatore ben potrebbe, in definitiva, riconoscere ai soggetti individuati dalla Corte la possibilità di pretendere dall’ente sanitario l’ausilio necessario ad auto-procurarsi la morte, in particolare la fornitura del farmaco (nonché la sua gratuità). Altra questione è se a farlo possa essere una legge regionale, considerato che la stessa, sotto questo profilo, non si porrebbe in rapporto strettamente attuativo rispetto a prescrizioni già poste dai giudici costituzionali: a prescindere dalla possibilità per le regioni di fissare livelli essenziali di assistenza superiori rispetto a quelli garantiti a livello nazionale, fondare un “diritto” a ricevere l’erogazione di un trattamento sanitario sembra, invero, coinvolgere princìpi fondamentali in materia di salute, attraendone la competenza a livello statale.

Sotto questo punto di vista, d’altra parte, l’aspetto realmente critico della proposta di legge pare essere esclusivamente la configurazione in termini di “diritto” della pretesa di ricevere la somministrazione del farmaco. Non sembrano invece contrastare con le competenze regionali, per le ragioni esposte, sia la previsione di una pretesa all’attivazione della procedura di accertamento dei requisiti e di controllo dell’adeguatezza delle modalità esecutive del suicidio, sia la predisposizione di norme organizzative dei servizi sanitari che si traducano in protocolli uniformi per la gestione delle richieste di assistenza medica al suicidio, anche nella fase di somministrazione del farmaco.

5. Seconda questione: la compatibilità con il limite della riserva di legge statale in materia penale

Una seconda questione che, come anticipato, interseca l’ottica penalistica, congiuntamente a quella di diritto costituzionale, riguarda la compatibilità degli articolati normativi in discussione con il principio della riserva di legge statale in materia penale. Tra gli argomenti contrari all’approvazione delle proposte di legge, infatti, vi è quello secondo cui le previsioni regionali in esame sarebbero suscettibili di ingerire illecitamente nel settore dell’ordinamento penale, quale (ulteriore) materia che la Costituzione colloca tra le competenze esclusive dello Stato (art. 117, lett. l, Cost.)[48].

La critica muove da una preoccupazione condivisibile: se alle regioni si consentisse, sia pur indirettamente, di incidere sull’art. 580 c.p., si rischierebbe di creare per tale reato una punibilità “frammentata”, territorialmente disomogenea, nel senso che la responsabilità penale per un identico fatto di agevolazione suicidaria potrebbe risultare esclusa o affermata in ragione del luogo in cui l’evento si realizza. A soffrire sarebbe, in definitiva, la stessa ratio essendi del vincolo di competenza statale in materia penale impresso dall’art. 117 Cost., che, come appena detto, sottrae in radice il territorio dello ius criminalis alla potestà legislativa delle regioni: sebbene la fonte regionale non abbia minore dignità rappresentativa di quella statale, essendo a questa “comprimaria”, è infatti il principio di uguaglianza a precluderne l’espansione in una materia, come è tipicamente quella penale, che coinvolge scelte essenziali sui diritti e le libertà della persona, rispetto alle quali, quindi, occorre garantire uniformità a livello nazionale, incompatibile con la presenza di regimi territoriali differenziati[49]. Il limite all’ingresso della legge regionale nell’ordinamento penale assume carattere generale, ossia vale sia per l’attività legislativa con effetto espansivo, sia per quella a effetto riduttivo dell’area penalmente rilevante[50]. Considerata, poi, la naturale “trasversalità” del diritto penale ai settori di disciplina più diversi, il vincolo statale non viene meno neppure quando, come potrebbe accadere nel caso qui in esame, ci si muova in campi di materia che rientrano nella competenza regionale concorrente[51].

D’altra parte, proprio nelle ipotesi da ultimo indicate, la coesistenza di prerogative centrali e periferiche crea inevitabili spazi di sovrapposizione[52]. Sebbene resti sempre fermo il divieto “forte” per la legge regionale di introdurre così come di abolire ipotesi criminose, ovvero di prevedere cause di non punibilità, vi sono alcuni ambiti in cui sembrerebbero aprirsi varchi per possibili interazioni, giungendo in alcuni casi ad ammettere un parziale allentamento del carattere assoluto della riserva di legge: il tema è discusso, come si dirà a breve, sia sul fronte dell’integrazione degli elementi normativi, sia sul peculiare versante delle cause di giustificazione.

Ebbene, le previsioni regionali qui esaminate sembrano collocarsi in questi territori “intermedi”: pur senza impattare in modo diretto ed esplicito sulla sotto-fattispecie di non punibilità introdotta dalla Corte costituzionale per l’aiuto al suicidio, le stesse potrebbero incidere in modo collaterale su alcuni elementi richiamati dalla disposizione penale.

Due sono, allora, gli aspetti che occorre chiarire per verificare la conformità degli interventi normativi in questione con il vincolo costituzionale di competenza statale: da un lato, se le disposizioni richiamate effettivamente (e in che misura) interagiscano con l’area di punibilità del delitto di aiuto al suicidio; dall’altro, se quell’eventuale punto di contatto sia, o meno, compreso entro i limiti entro cui può ritenersi ammissibile l’integrazione regionale in materia penale.

5.1. La possibile interferenza del diritto regionale sulla clausola “procedurale” dell’art. 580 c.p., tra causa di esclusione del tipo, dell’antigiuridicità o della colpevolezza

In primo luogo, dunque, occorre individuare la tipologia di interferenza tra diritto regionale e diritto penale di cui deve discutersi.

Come anticipato, i disegni legislativi in esame dichiarano esplicitamente di voler assicurare il rispetto dei princìpi stabiliti dalla sentenza n. 242/2019 (art. 1) e, di conseguenza, riproducono in modo letterale i requisiti per l’accesso al suicidio assistito contenuti nel dispositivo della declaratoria di incostituzionalità (art. 2). Non si evidenzia, sotto questo aspetto, un effetto modificativo della fattispecie introdotta dalla Corte costituzionale.

A venire in riferimento, piuttosto, sono le norme (artt. 3 e 4) che disciplinano la procedura di verifica delle condizioni sostanziali di liceità del suicidio, precisando i soggetti coinvolti, nonché modi e tempi del suo svolgimento (v. supra, § 3). Queste disposizioni dettagliano i passaggi formali che la Corte costituzionale impone di compiere quale ulteriore presupposto per la non punibilità delle condotte di aiuto, a tutela, come si è detto, delle situazioni di maggiore vulnerabilità di fronte alla morte: in altre parole, il necessario accertamento da parte delle strutture del servizio sanitario nazionale delle situazioni liceizzanti il suicidio assistito, nonché delle modalità esecutive di quest’ultimo, previo parere del comitato etico territorialmente competente (v. supra, § 2).

È, allora, necessario individuare il ruolo che tale presupposto procedimentale, su cui gli atti normativi regionali vorrebbero incidere, ricopre all’interno della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 580 c.p..

La risposta parrebbe anzitutto condizionata dalla natura giuridica della causa di non punibilità introdotta dalla Corte costituzionale, in cui la stessa procedura si innesta: il discorso si complica subito, atteso il carattere controverso di tale inquadramento dogmatico, non chiarito dalla sent. 242/2019 e ricostruito diversamente dagli interpreti sui piani dell’antigiuridicità, della tipicità del fatto o della colpevolezza.

Parte della dottrina, più precisamente, individua nell’iter di accertamento pubblico l’elemento qualificante di una c.d. scriminante procedurale[53]: l’idea di fondo, che spiega il ricorso a tale categoria, è che il fatto dell’agevolazione al suicidio, pur rimanendo “tipico” in quanto lesivo del bene vita protetto dal reato, possa essere giustificato – e, quindi, trasportato in un’area di neutralità da giudizi normativi – in presenza di condizioni che eccezionalmente consentono di far prevalere un interesse opposto a quello oggetto di tutela penale (id est, il diritto di autodeterminarsi scegliendo di morire), ma solo se prima sia superato il filtro di un controllo pubblicistico sulla genuinità e sui presupposti per l’esercizio della libertà individuale[54]. La liceità “condizionata” dell’aiuto al suicidio si fonderebbe, dunque, sulla logica tipicamente esimente del bilanciamento tra valori in conflitto, ma con la precisazione che questo non potrebbe essere svolto una volta per tutte dal potere pubblico, giacché esso investe scelte etiche non condivise a livello sociale[55]: lo Stato si limiterebbe a svolgere un ruolo formale, di vigilanza ab externo, a garanzia di possibili abusi e interferenze rispetto a una scelta che, nel merito, viene consegnata allo stesso individuo titolare dei beni in gioco, il solo a poter giudicare la prevalenza tra la propria vita o una morte per lui dignitosa.

Secondo una diversa ricostruzione, invece, non sarebbe necessario ricorrere alla categoria delle scriminanti per spiegare la non punibilità dell’aiuto al suicidio: le condotte rispondenti ai noti quattro requisiti, infatti, semplicemente cadrebbero al di fuori del “tipo criminoso” dell’art. 580 c.p., perché estranee alla ratio di tutela di quest’ultimo[56]. Assunto di tale tesi è che, per effetto della rilettura data dalla sentenza n. 242/2019, l’incriminazione dell’agevolazione al suicidio possa trovare un senso costituzionale solo ove si svincoli da un’idea di protezione in sé della vita, come valore assoluto, intangibile e sacro, e invece si colleghi a una più laica tutela della fragilità psicologica di chi progetta di uccidersi a causa di difficoltà transitorie o di pressioni ambientali, culturali o economiche esterne. A tali situazioni non sarebbero sovrapponibili i casi di suicidio assistito eutanasico, del tutto diversi “per connotazioni esistenziali, dinamiche psicologiche, implicazioni di valore, statuto fenomenologico”[57]: rispetto a decisioni di morire lucidamente maturate in condizioni di malattia e dolore insostenibile, l’impiego del divieto penale perderebbe semplicemente qualunque ragion d’essere, al di fuori di insostenibili concezioni eticizzanti dirette a imporre un “dovere di vivere”. La necessità di tutela penale tornerebbe ad affacciarsi in un’ottica differente, ossia nell’esigenza di garantire, tramite un controllo anticipato affidato a soggetti qualificati, l’autenticità della scelta suicidaria e la dignità delle modalità esecutive del suicidio: anche l’elemento procedurale, in tal modo, andrebbe collocato sul piano della tipicità del fatto, nel senso che il mancato rispetto del prescritto iter di accertamento ricondurrebbe la fattispecie concreta entro i confini dell’aiuto punibile, inibendo il perfezionarsi della causa di esclusione del tipo delineata dalla Corte. Questa seconda opzione pare personalmente preferibile: se non altro perché individuare ancora nella vita, in sé considerata, il bene tutelato dall’art. 580, significherebbe concepire la stessa in termini di sacralità e indisponibilità, fino ad ammettere l’esistenza di un oggettivo “dovere di vivere” con cui il diritto di morire del malato dovrebbe essere bilanciato[58]; una concezione, questa, sostenibile nell’originaria impostazione codicistica, ma non all’interno di un ordinamento penale autenticamente laico.

Un terzo orientamento, infine, dai requisiti di non punibilità dell’aiuto al suicidio trae l’esistenza di una causa scusante, sull’idea dell’impossibilità di esigere soggettivamente un comportamento diverso da parte del medico che, per ragioni di umanità, corrisponda a una richiesta di assistenza nel morire[59]: residuerebbe, dunque, sia la tipicità, sia l’antigiuridicità del fatto, pur considerato non rimproverabile al suo autore. Non sembra, tuttavia, che tale tesi corrisponda alla prospettiva valoriale condivisa dalla Corte costituzionale, che al contrario sembra muovere dall’idea che, alle condizioni individuate, l’aiuto al suicidio non possa dirsi un fatto illecito. Inoltre, occorre evidenziare come il richiamo al piano soggettivo della responsabilità penale collida proprio con la previsione dell’articolata procedura demandata alle strutture sanitarie, che si fonda sull’accertamento oggettivo delle condizioni che consentono di escludere la punibilità dell’agevolazione suicidaria. Come è stato perspicuamente osservato, “una volta richiesto che il fatto si svolga all’interno di una struttura sanitaria e sia preceduto da adeguati accertamenti sulle condizioni della malattia e sulla volontà dell’interessato, perde ogni rilievo il movente altruistico della condotta, che viceversa appartiene a una scusante integralmente incentrata sul rapporto tra autore e vittima”[60].

In ogni caso, a prescindere dalla condivisibilità dell’uno o dell’altro orientamento, quel che interessa domandarsi in tal sede è se dalla collocazione dogmatica della sotto-fattispecie di aiuto al suicidio possano derivare conseguenze diverse ai fini dell’individuazione di eventuali spazi di integrazione della fonte regionale, che su quella stessa fattispecie vada a incidere. Si prenderà, a tal fine, in considerazione la sola alternativa qualificatoria tra causa di esclusione del tipo e scriminante, sul presupposto, come si è evidenziato, che la condizione procedurale investita dal diritto regionale sia di per sé incompatibile con una ricostruzione in termini di colpevolezza.

5.2. Gli spazi dell’interazione ammissibile tra legge regionale e diritto penale

Rientra in campo il tema, cui si è prima accennato, dei limiti entro cui può essere ammessa l’interferenza legislativa delle regioni nelle zone “grigie” o di confine, come quella qui esaminata: nei casi, cioè, in cui non ci si misuri tanto con rivendicazioni frontali di potestà incriminatrice da parte della fonte periferica – pacificamente ricadenti sotto il divieto costituzionale –, bensì con più evanescenti influenze mediate (se non, in taluni casi, meramente apparenti). Questo problema, in effetti, è stato tradizionalmente declinato in termini diversi sul fronte della tipicità e su quello della giustificazione.

Sul primo versante, esclusa ogni possibilità di fonti diverse dalla legge di ampliare o ridurre i confini del fatto tipico, si tende però ad ammettere un contributo delle regioni alla definizione del precetto tramite la tecnica dei c.d. elementi normativi[61]: ciò può verificarsi quando la qualificazione di norme o di concetti definitori “incorporati” nella struttura del tipo criminoso sia suscettibile di intersecare, in tutto o in parte, materie di competenza regionale. In tali situazioni, può sicuramente riconoscersi alla fonte regionale un ruolo integrativo della fattispecie criminosa secondo il modello della c.d. specificazione tecnica, ossia nei medesimi limiti entro cui già si ammette l’intervento di fonti sublegislative: il principio di riserva di legge, infatti, non risulta compromesso, poiché l’apporto normativo (secondario o periferico che sia) esaurisce i propri effetti all’esterno della portata del precetto. Alla legge regionale, peraltro, si suole attribuire una capacità di incidenza sulla fattispecie penale più ampia di quella propria dell’integrazione di fonti subordinate, secondo uno schema di tipo “collaborativo-funzionale”: si tratta delle ipotesi in cui il contributo legislativo territoriale non si limiti a precisare il precetto, ma concorra a realizzare le scelte di politica criminale espresse dal Parlamento tramite un vero e proprio “giudizio di «adattamento» al caso concreto, connaturato alle specificità delle esigenze locali”[62]. Anche in queste situazioni, infatti, l’intervento regionale non si pone in rapporto oppositivo alla norma penale statale, ma esprime una funzione attuativa di opzioni di tutela già interamente compiute a livello nazionale[63].

Il discorso si fa più complesso quando ci si sposta a considerare il tema delle possibili interferenze di norme regionali sul versante delle cause di giustificazione: a essere evocata, infatti, è qui una tensione oppositiva, conflittuale, tra l’assetto di tutela penale delineato a livello statale e un’eventuale opzione di segno esimente espressa dalle regioni[64]. Su questo fronte, i limiti della riserva di legge statale sono tradizionalmente intesi in modo meno rigoroso[65]: l’esigenza di una considerazione peculiare deriverebbe dal fatto che le cause di esclusione dell’antigiuridicità, a differenza di quelle del fatto tipico, sono in prevalenza ritenute di natura non penale, in quanto espressive di un giudizio di liceità valevole per l’intero ordinamento; inoltre, si osserva che è ben possibile che le regioni, nelle materie di propria competenza, riconoscano ai cittadini diritti e doveri, suscettibili in astratto di integrare l’art. 51 c.p. e, quindi, di assumere valenza giustificatrice delle fattispecie di reato con cui si trovino a entrare in conflitto[66].

Tuttavia, pur all’interno di un dibattito articolato, tanto la dottrina maggioritaria, quanto la consolidata giurisprudenza costituzionale escludono la configurabilità di c.d. scriminanti regionali[67]. A tale conclusione si perviene, da un lato, considerando le norme penali quali principi fondamentali delle singole materie di competenza concorrente in cui intervengono, dunque come limiti all’introduzione per via regionale di diritti e doveri con efficacia scriminante[68]. Dall’altro lato, si evidenzia come le scelte di giustificazione, nella misura in cui creano spazi di liceità che portano a impedire l’applicabilità di norme criminali, incidano sull’ambito della responsabilità penale al pari di quelle di incriminazione e siano, quindi, riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato in materia di “ordinamento penale”[69].

Scartata, in definitiva, la possibilità di prevedere per legge regionale diritti e doveri direttamente scriminanti, occorre d’altra parte evidenziare come possa comunque riconoscersi alle regioni una circoscritta competenza in materia di cause di giustificazione, consistente nella specificazione o integrazione di scelte esimenti già espresse a livello nazionale, le quali richiedano di essere adeguate per tener conto delle specificità territoriali: in definitiva, si ripropongono anche in quest’ambito i medesimi princìpi propri del modello collaborativo-attuativo già sperimentato sul fronte del precetto. La norma di liceità regionale, più precisamente, può legittimarsi entro due limiti di ragionevolezza: in positivo, occorre che esista un interesse territoriale da tutelare mediante la disposizione locale; in negativo, deve essere evitata una protezione disomogenea di interessi essenziali oggetto di tutela penale[70].

In proposito, pare utile richiamare, per la vicinanza con il tema che ci occupa, la sentenza n. 253/2006 della Corte costituzionale, relativa a una legge della Regione Toscana che interveniva sulla disciplina del consenso informato in ambito sanitario, attribuendo ai maggiorenni un diritto alla designazione di un rappresentante ai fini della manifestazione del consenso in casi di urgenza e indifferibilità della decisione sulle cure: sebbene giudicata illegittima per contrasto con il vincolo di competenza in materia di ordinamento civile, la Corte non ha censurato la normativa in relazione alla riserva di legge in materia penale. Come osservato in dottrina, infatti, la norma regionale non contraddiceva la ratio della disciplina del consenso, né limitava i diritti protetti da norme penali, limitandosi a contribuire all’attuazione locale delle politiche in tema di salute[71].

Da questa ricostruzione può trarsi una prima conclusione. Stando all’orientamento prevalente di cui si è dato conto, l’inquadramento dogmatico della fattispecie di non punibilità in esame non risulta realmente decisivo ai fini dell’individuazione dei limiti della riserva di legge statale, se è vero che gli spazi per l’ingresso di fonti regionali non variano in modo sostanziale negli ambiti della tipicità e della giustificazione. Piuttosto, la conformità al vincolo di competenza potrà essere vagliata al metro del descritto criterio attuativo-funzionale, ossia verificando che l’incidenza della norma regionale sia contenuta nei limiti dell’implementazione di una scelta politico-criminale già espressa a livello nazionale, senza, quindi, che sia sacrificata la tutela penale degli essenziali interessi coinvolti.

5.3. Il limite “attuativo” del contributo regionale alla definizione della procedura liceizzante il suicidio assistito

Ridimensionata la rilevanza dei profili dogmatici, si tratta ancora di chiarire il significato da attribuire alla procedura di accertamento nel quadro dell’art. 580 c.p.: ciò consente, infatti, di stabilire se la precisazione di tale elemento per legge regionale sia suscettibile di compromettere le scelte di tutela riservate al legislatore statale, in spregio alla ratio dell’art. 117 Cost..

Nell’ambito della tesi della giustificazione, si è recentemente prospettata la possibilità che il controllo svolto dal servizio sanitario nazionale abbia valenza meramente dichiarativa, non costitutiva, del diritto scriminante attribuito al singolo, il quale si fonderebbe esclusivamente sulla sussistenza dei presupposti sostanziali individuati dalla Corte[72]. Ulteriore aspetto essenziale, in quanto strettamente funzionale alla tutela delle persone più vulnerabili, sarebbe rappresentato dalla formazione della volontà del malato nel quadro di una relazione di cura con il medico, secondo le modalità di acquisizione del consenso previste dalla l. 219/2017. Il rispetto degli ulteriori passaggi formali non sarebbe, tuttavia, essenziale ai fini della non punibilità, producendo il mero effetto processuale di anticipare l’accertamento del diritto e impedire l’avvio di un procedimento penale. La tesi è stata proposta per sostenere la possibilità di giustificare fatti commessi presso cliniche estere anche successivamente alla sent. 242/2019 (che aveva espressamente escluso la punibilità solo per fatti anteriori), ma pare suscettibile di ripercuotersi anche sul tema degli spazi della riserva di legge statale: ove si accogliessero tali premesse, infatti, l’integrazione normativa regionale della procedura risulterebbe meno problematica, perché i suoi effetti rimarrebbero all’esterno del significato penale del fatto.

Al contrario, riconoscendo alla giustificazione procedurale efficacia costitutiva[73], dovrebbe concludersi per l’irrinunciabilità dell’iter pubblicistico ai fini dell’esclusione della punibilità dell’agevolatore e, così, anche per l’impossibilità di sottrarre tale elemento dall’ambito della riserva di legge statale. A esiti non difformi si perviene anche riconducendo la procedura alla tipicità del fatto: in tal caso, sarebbe anzi proprio la “irregolarità” dell’aiuto al suicidio, ossia il mancato rispetto delle regole prescritte per la sua liceità, a costituire il vero e proprio target del rimprovero penale, secondo il paradigma proprio dei delitti “a tutela di funzioni”.

L’essenzialità della procedura sembra in ogni caso trovare conferma, di nuovo a prescindere dalle opzioni dogmatiche prescelte, nella recente sent. 135/2024 della Corte costituzionale, che nel fornire un’interpretazione autentica del portato delle proprie precedenti affermazioni contenute nella sent. 242/2019, ha espressamente riaffermato “la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali stabilite dalla sentenza n. 242 del 2019”, giudicate “essenziali per prevenire [il] pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili”: tali condizioni, si precisa, includono sia il necessario coinvolgimento del servizio sanitario nazionale, sia il parere del comitato etico territorialmente competente, ferma restando la possibilità di impugnare giudizialmente un’eventuale mancata autorizzazione alla procedura da parte delle strutture sanitarie.

A ulteriore sostegno dell’inderogabilità di tali elementi, può essere proposto un parallelismo con i reati fondati sull’inosservanza di provvedimenti autorizzatori, in cui la tutela dell’interesse finale è mediata da un’attività di gestione o di accertamento affidata all’organo amministrativo[74]. La procedura di accertamento prevista in tema di suicidio assistito presenta profili strutturali simili a quelli dell’elemento autorizzativo, non a caso anch’esso ricondotto alternativamente (e non univocamente) sul terreno dell’antigiuridicità o della tipicità. Con riferimento all’art. 580 c.p., a essere più precisamente rievocato è lo schema dell’autorizzazione vincolata all’accertamento di requisiti predeterminati dalla legge, non richiedendosi agli organi amministrativi una valutazione discrezionale diretta alla composizione degli interessi in gioco[75]. In proposito, sebbene in un settore di tutela distante da quello qui in esame, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha in più occasioni censurato la legittimità di leggi regionali che rimuovevano obblighi autorizzatori previsti a livello statale[76].

Se ne deduce che il legislatore regionale non potrebbe in ogni caso introdurre disposizioni che consentano di prescindere dalla verifica dei requisiti sostanziali da parte del servizio sanitario, così come dall’acquisizione del parere del comitato etico.

Allo stesso tempo, tuttavia, si ritiene che le regioni non potrebbero nemmeno snaturare il contenuto essenziale di tale procedura, ossia regolarla in modo da pregiudicarne la funzionalità di tutela svolta all’interno della disposizione penale. L’esigenza di proteggere le persone vulnerabili dal pericolo di abusi richiede, infatti, che la verifica ex ante dei requisiti sostanziali sia effettiva e che la decisione di morire del paziente possa essere maturata nella dimensione “medicalizzata” della relazione di cura. Solo ove tali condizioni siano soddisfatte, sembra potersi ammettere la possibilità di una specificazione di carattere attuativo che non comprometta quel nucleo di tutela fondamentale.

Il contenuto delle attuali iniziative legislative sembra nel complesso soddisfare il limite indicato: la definizione dei tempi e delle modalità della procedura di accertamento non pregiudica infatti gli obiettivi di tutela penale cui la stessa è rivolta. Si ravvisa però un profilo critico in relazione alla rigidità (oltre che della brevità) del termine assegnato alla commissione medica per lo svolgimento della sua attività di controllo, un tempo che potrebbe in concreto risultare insufficiente ai fini dell’instaurazione di un’effettiva relazione di fiducia con il paziente e di una piena verifica delle condizioni di legittimità della richiesta di suicidio. Tale aspetto potrebbe essere corretto prevedendo la possibilità di derogare il termine in presenza di ragioni che richiedano un esame più approfondito o più cauto della vicenda.

Quanto alla composizione della commissione medica incaricata della procedura di accertamento, i soggetti coinvolti sono individuati sulla base di competenze connesse all’accertamento dei requisiti o alla definizione delle modalità di esecuzione del suicidio. Sarebbe però più opportuno limitare la composizione “fissa” del gruppo alle sole professionalità essenziali per le finalità della procedura (medico palliativista, psicologo, anestesista) – cui potrebbero aggiungersi anche quella del medico specialista della patologia di cui è affetto il paziente, nonché dell’eventuale medico di fiducia – e prevedere poi una sua integrazione flessibile alla luce delle peculiarità del caso (ad esempio, la presenza di uno psichiatra in caso di patologie mentali).

6. Conclusioni

Ove mantenuta entro i limiti indicati, una legge regionale volta a disciplinare la procedura di accertamento dei requisiti di legittimità del suicidio medicalmente assistito non incorrerebbe in una violazione del vincolo di competenza statale in materia penale ex art. 117 Cost.

La mera specificazione del presupposto procedurale dell’aiuto a morire, infatti, si pone in linea (e, anzi, in funzione servente) con le finalità di tutela penale individuate dalla sent. 242/2019. Inoltre, sembrano sussistere quelle esigenze territoriali richieste per giustificare una declinazione su base regionale della disciplina statale: la definizione delle modalità e delle tempistiche degli adempimenti accertativi richiesti per la liceità del suicidio assistito, infatti, risulta strumentale allo svolgimento di un’attività demandata alle strutture sanitarie, la cui organizzazione, come noto, rientra in politiche di competenza regionale. In altre parole, si è già in presenza di una procedura che, per lo stesso fatto di essere affidata nella sua implementazione pratica alle strutture sanitarie, presenta ineliminabili margini di specificità esecutiva a livello locale.

È la stessa Corte costituzionale, poi, come già ricordato, a valorizzare l’esigenza di una cooperazione degli organi locali – oltre che del legislatore nazionale – alla piena realizzazione della disciplina che, vale la pena ribadirlo, è concepita come già destinata a operare. Sempre nella sent. 242/2019, la consapevolezza di una necessaria declinazione territoriale della normativa emerge ancor più nitidamente con riferimento all’attribuzione di un ruolo centrale nella procedura ai comitati etici “territorialmente competenti”, dunque a organi che – pur nella difficoltà della loro individuazione – sono istituiti e regolati su base regionale.

Vi è, infine, una ragione ancora più forte per sostenere l’opportunità di regolamentare gli aspetti organizzativi e applicativi dell’accesso al suicidio assistito. La sent. n. 242/2019, come si è detto, introduce una disciplina che comporta una serie di doveri in capo alle strutture e al personale sanitario (v. supra, § 4.1): sono, allora, gli stessi attori investiti dalle richieste di suicidio assistito ad abbisognare di chiare direttive per orientare il proprio comportamento senza incorrere nel rimprovero penale. Tale esigenza si pone sia sul fronte amministrativo, rispetto al personale delle strutture sanitarie, sia sul fronte “professionale” e personale, ossia sul piano del rapporto tra medico e paziente. È proprio questa la prospettiva che, ben prima delle iniziative normative in discussione, nel 2020 aveva ispirato la Commissione regionale di bioetica della Regione Toscana ad adottare un articolato parere consultivo, sulla base della proposta redatta da un apposito gruppo di studio[77]: agendo su un piano di soft law, il documento si propone di rispondere al problema di come dare attuazione alla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, nel rispetto dei diritti delle persone coinvolte, individuando sia gli accorgimenti organizzativi e le procedure operative da seguire, sia i doveri in capo ai singoli medici coinvolti. Come si legge nel parere, “il fine è la tutela vuoi dei cittadini toscani, vuoi dei sanitari e delle loro opzioni professionali e di coscienza, sul presupposto che, rispetto a una fattispecie di tale delicatezza, sia da scongiurare il rischio di soluzioni estemporanee, «localistiche» e diseguali, quali quelle che potrebbero derivare dall’esercizio di una troppo libera discrezionalità (comportante un’eccessiva responsabilità) del singolo direttore sanitario o comitato etico (laddove istituito e operativo), investiti del problema dal singolo medico, sollecitato dal singolo paziente”.

Proprio l’esigenza di uniformità di tutela, dunque, costituisce una ragione valida a sostegno dell’opportunità dell’introduzione di leggi regionali che si occupino di individuare standard di comportamento condivisi nel tracciato segnato dalla Corte costituzionale. Ciò consentirebbe almeno di raggiungere l’obiettivo minimo di ridurre le disparità di trattamento che, ad oggi, possono prodursi all’interno dei singoli contesti territoriali, restringendo gli spazi lasciati alla decisione delle singole aziende sanitarie. Si tratterebbe, naturalmente, di una soluzione compromissoria, perché inevitabilmente esposta al rischio di creare a sua volta difformità tra regione e regione. La presenza di discipline locali non farebbe, dunque, venir meno la prioritaria esigenza di un più ampio intervento da parte del Parlamento: quella delle regioni non potrebbe essere una sostituzione definitiva, ma una mera e imperfetta supplenza, come tale temporalmente limitata.

  1. Ricercatrice in Diritto penale presso l’Università degli Studi di Torino.
  2. Si tratta della nota vicenda processuale iniziata a seguito dell’auto-denuncia presentata da Marco Cappato per l’aiuto materiale prestato al suicidio di Fabiano Antoniani. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., sollevata dalla Corte di Assise di Milano, è stata risolta dalla Corte costituzionale con due successive pronunce: la prima ordinanza “interlocutoria (Corte Cost., ud. 24.10.2018 – dep. 16.11.2018, n. 207), e la sentenza di declaratoria di illegittimità parziale (Corte Cost., ud. 25.9.2019 – dep. 22.11.2019 n. 242). Anche la letteratura penalistica, oltre a quella costituzionalistica, è amplissima: per ragioni di spazio, ci limitiamo a citare alcuni volumi collettanei, rinviando alle note successive per ulteriori riferimenti bibliografici: F. S. Marini, C. Cupelli (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine della Corte costituzionale n. 207 del 2018, Napoli, 2019; G. Fornasari, L. Picotti, S. Vinciguerra (a cura di), Autodeterminazione e aiuto al suicidio, Padova, 2019; G. D’Alessandro, O. Di Giovine (a cura di), La Corte costituzionale e il fine vita. Un confronto interdisciplinare sul caso Cappato-Antoniani, Torino, 2020.
  3. Corte cost., ud. 19.6.2024 – dep. 18.7.2024, sent. n. 135: la pronuncia ha rigettato la questione di costituzionalità sollevata dal Gip di Firenze sull’art. 580 c.p., come modificato dalla sent. n. 242/2019, nella parte in cui subordina la non punibilità dell’aiuto alla condizione che questo sia prestato a persona “tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale”, pur fornendo un’interpretazione ampia del concetto di trattamenti di sostegno vitale.
  4. Così C. Caruso, Perché le Regioni possono già intervenire sul suicidio assistito, La Stampa, 25 aprile 2024.
  5. La cui varietà di accenti emerge bene dalla lettura dei contributi ospitati nello Speciale di Questa Rivista, n. 1/2024, Regioni e suicidio medicalmente assistito: E. Grosso, Una legge regionale per disciplinare forme e limiti del suicidio medicalmente assistito?, ivi, pp. 1 ss.; C. Caruso, Al servizio dell’unità. Perché le Regioni possono disciplinare (con limiti) l’aiuto al suicido, ivi, pp. 8 ss.; M.G. Nacci, Note critiche sulle iniziative legislative regionali in tema di suicidio medicalmente assistito, ivi, pp. 23 ss.; F.G. Pizzetti, La proposta di legge piemontese in materia di assistenza al suicidio, alla luce della giurisprudenza costituzionale e del riparto di competenze Stato-Regioni, ivi, pp. 45 ss. Si vedano anche G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, i rilievi dell’Avvocatura generale dello Stato, le forzature del Tribunale di Trieste e della commissione nominate dall’azione sanitaria, in Consulta Online, 1/2014, pp. 69 e ss.; P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita. Uno studio su autonomia regionale e prestazioni sanitarie eticamente sensibili, in Corti supreme e salute, 1/2024.
  6. Sulla complessità e la molteplicità dei profili coinvolti, per tutti, E. Grosso, Una legge regionale, cit..
  7. Nella dottrina costituzionalistica, v. in particolare G. Razzano, Le proposte di leggi regionali sull’aiuto al suicidio, cit.; M.G. Nacci, Note critiche sulle iniziative legislative regionali, cit..
  8. P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita, cit.; C. Caruso, Al servizio dell’unità, cit..
  9. Avvocatura Generale dello Stato, Parere del 16 novembre 2023 al Consiglio regionale del Veneto.
  10. Ricorso notificato in data 12 aprile 2024 e attualmente pendente davanti al Tar.
  11. Cfr. il comunicato dell’Ufficio Stampa della Regione Piemonte del 21 marzo 2024: https://www.cr.piemonte.it/cms/articoli/comunicati-stampa/suicidio-assistito-approvata-la-pregiudiziale-di-costituzionalita.
  12. S. B. Taverriti, Norme esimenti e aiuto al suicidio: dalle rime liberate alla metrica della dommatica, 18.5.2021, in Leg. Pen., p. 8, evidenzia come la sent. 242/2019 abbia introdotto una disciplina di dettaglio contenente “una vera e propria regola, pensata per la sussunzione del caso concreto nella fattispecie astratta” e si interroga in termini problematici sulle ripercussioni sulla discrezionalità politica dell’organo legislativo.
  13. Sul concetto di dignità, da intendersi qui in senso soggettivo, cfr. L. Risicato, La Consulta e il suicidio assistito: l’autodeterminazione “timida” fuga lo spettro delle chine scivolose, in Leg. pen., 16.3.2020, p. 3 ss.; sul legame della dignità con il principio di uguaglianza-ragionevolezza, v. F. Viganò, Diritti fondamentali e diritto penale al congedo dalla vita: esperienze italiane e straniere a confronto, in Sist. pen., 12.1.2023, pp. 25-26, secondo cui la ratio essendi della pronuncia risiederebbe, più che nel diritto alla vita o nella libertà di autodeterminazione, proprio “nella riscontrata congiunta violazione della dignità della persona e, soprattutto, del principio di eguaglianza-ragionevolezza (espressamente evocato dalla sentenza quale componente essenziale della stessa dignità umana) da parte di una disciplina positiva che da un lato permette a un paziente in quelle condizioni di morire rifiutando i trattamenti, e dall’altro non gli consente di pervenire al medesimo risultato in una modalità più rapida e diretta, in ipotesi considerata più conforme al proprio concetto di dignità”.
  14. Il rimando è ovviamente a S. Canestrari, Ferite dell’anima e corpi prigionieri, Bologna, 2021.
  15. A. Vallini, Il tempo giusto del saluto. La Consulta, la libertà di suicidarsi, la vulnerabilità del suicida, i limiti del diritto penale, in G. D’Alessandro, O. Di Giovine (a cura di), La Corte costituzionale e il fine vita, cit., p. 448.
  16. Secondo Senato, sentenza 26 febbraio 2020, 2 BvR 2347/15 e altri, con cui il Tribunale costituzionale tedesco ha dichiarato incostituzionale il reato di “agevolazione commerciale del suicidio” di cui al § 217 StGB. Sulla diversità di approccio tra le due Corti costituzionali, italiana e tedesca, v. F. Viganò, Diritti fondamentali e diritto penale, cit., p. 26 ss.; M. Romano, Suicidio assistito e Corti costituzionali italiana e tedesca, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, pp. 33 ss.; G. Fornasari, Paternalismo hard, paternalismo soft e antipaternalismo nella disciplina penale dell’aiuto al suicidio. Corte Costituzionale e Bundesverfassungsgericht a confronto, in Sist. pen., 11.6.2020, p. 1 ss.; A. Nappi, A chi appartiene la propria vita? Diritto penale e autodeterminazione nel morire: dalla giurisprudenza della Consulta alla epocale svolta del Bundesverfassunsgericht, in Leg. pen., 2020, fasc. 3, 1 ss.; A. Tigrino, Il Bundesverfassungsgericht in tema di aiuto al suicidio prestato in forma commerciale. Verso un approccio realmente liberale al fine vita?, in Arch. pen., 2020, fasc. 3, 1 ss.; V. Zagrebelsky, Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte Europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in Leg. pen., 2020, fasc. 3, 1 ss.; F. A. Manna, Esiste un diritto a morire? Riflessioni tra Corte costituzionale italiana e Corte costituzionale tedesca, in Criminalia, 2019, pp. 203 ss..
  17. Come evidenzia F. Consulich, Stat sua cuique dies. Libertà o pena di fronte all’aiuto al suicidio?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 125, “il contributo ad un’azione lecita non può che essere a sua volta lecito”: la non punibilità dell’agevolatore verrebbe in tal caso a fondarsi sul “principio di sistema” desumibile in via analogica dall’art. 119 c.p.; l’Autore, peraltro, proponeva tale soluzione (ben prima della sent. n. 242/2019) muovendo dal diverso presupposto che esista una più ristretta “libertà costituzionale di suicidarsi”, il cui esercizio sarebbe oggetto di una scriminante speciale, riferibile non a qualunque caso di suicidio, ma solo alle “situazioni limite” definite dall’incurabilità della malattia e dalla sofferenza non trattabile; detta scriminante non discenderebbe infatti dal diritto alla salute ex art. 32 Cost., ma potrebbe applicarsi solo nei casi in cui quest’ultimo non sia più esercitabile, alla luce dei diversi principi della dignità e personalità dell’individuo fondati sull’art. 2 Cost. (ivi, p. 116 ss)..
  18. Costituisce oggetto di discussione in dottrina se il suicidio in sé sia o meno un atto lecito. Secondo la tesi di F. Mantovani (Diritto penale, Parte speciale, I, Padova, 2016, 127 s.), il suicidio sarebbe un atto “giuridicamente tollerato”, pur espressivo di un disvalore che però non viene punito per ragioni di opportunità. Secondo altra tesi, alla luce dell’attuale disciplina codicistica si tratterebbe invece di un atto illecito, come dimostra la sanzionabilità penale di chi non lo impedisca (a titolo di illecito commissivo improprio per i titolari di una posizione di garanzia, ovvero ex art. 593 c. 2 c.p.): così T. Padovani, Note in tema di suicidio ed aiuto al suicidio, in G. De Francesco, A. Gargani, D. Notaro, A. Vallini (a cura di), La tutela della persona umana. Dignità, salute, scelte di libertà (per Francesco Palazzo), Torino, 2019, p. 140 s.; G. De Francesco, Il suicidio assistito nel quadro sistematico della relazione con “l’altro”, in Leg. pen., 16.3.2020, 1 ss. Secondo l’impostazione prevalente, il suicidio sarebbe invece un atto lecito, in quanto espressione di una libertà: con varietà di accenti, cfr. S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, p. 677; Canestrari, Ferite dell’anima, cit., p. 7 ss.; M. Pelissero, Libertà di autodeterminazione e diritto penale, in Aa.Vv., Rifiuto di cure e direttive anticipate. Diritto vigente e prospettive di regolamentazione, Torino, 2012, 101; B. Magro, Eutanasia e diritto penale, Torino, 2001, p. 187 ss..
  19. C. Cost., sent. 242/2019, § 2.2. del considerato in diritto (v. già ord. 207/2018). Sul punto si veda anche la limpida ricostruzione di F. Viganò, Diritti fondamentali e diritto penale, cit.,
  20. Così la definisce F. Viganò, Diritti fondamentali e diritto penale, cit., p. 23.
  21. La qualificazione di tale situazione giuridica è controversa. Di un vero e proprio “diritto di morire” dovrebbe parlarsi secondo M. Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in Sist. pen., 10.2.2020; in precedenza, v. già M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Riv. it. med. leg., 2016, 547-572. Parla di libertà costituzionale di suicidarsi F. Giunta, Diritto di morire e diritto penale: i termini di una relazione problematica, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996, p. 278. In senso contrario alla configurabilità di diritto avente a oggetto la propria morte, ritenendo che si tratti di una mera libertà negativa, F. Consulich, Stat sua cuique dies, cit., p. 113 ss.; secondo Gargani, Jus imperfectum? L’esercizio del diritto di rifiutare le cure tra esigenze di garanzia e prospettive di riforma, in Riv. it. med. leg., 2014, p. 516, non si tratterebbe di un diritto di morire, ma di un diritto di rifiutare le terapie.
  22. Si tratta della lettura “suicidologica” della sentenza della Corte proposta da A. Vallini, Morire è non essere visto: la Corte costituzionale volge lo sguardo sulla realtà del suicidio assistito, in Dir. pen. proc., 2019, p. 812 ss., che richiama il concetto di “suicidal vulnerability” elaborato dagli studi scientifici della c.d. suicidologia.
  23. C. Cost., sent. 242/2019, § 2.3 del considerato in diritto.
  24. In tema ampiamente v. Vallini, Il tempo giusto del saluto, cit., p. 454 ss..
  25. Per alcuni esempi in Veneto e Friuli-Venezia Giulia v. P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita, cit., p. 5, nt. 11.
  26. V. ad es. le decisioni di segno opposto del Trib. Ancona, ord. 26 marzo 2021 e ord. 9 giugno 2021.
  27. Come si ricava dal successivo art. 4, comma 5: cfr. F. G. Pizzetti, La proposta di legge piemontese, cit., p. 3.
  28. P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita, cit., p. 6.
  29. Del resto, la stessa logica della cedevolezza invertita non potrebbe mai giustificare – nemmeno in via transitoria – una violazione del riparto stabilito dalla Carta, essendo ammessa dalla giurisprudenza costituzionale solo in presenza di lacune normative statali in materie concorrenti o residuali, dove la latitudine dell’apporto regionale sia suscettibile di variare in funzione del concreto esercizio del potere legislativo centrale. Cfr. ancora P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita, cit., p. 6, e sentenze ivi citate sub nt. 15 e 16.
  30. In tema, C. Caruso, Al servizio dell’unità, cit.; O. Pini, Welfare regionale e nuove frontiere di tutela dei diritti: la proposta di legge regionale in tema di suicidio medicalmente assistito, in Le Regioni, 2023, p. 285 ss..
  31. M.G. Nacci, Note critiche sulle iniziative legislative regionali, cit.; Con diverse sfumature, F. G. Pizzetti, La proposta di legge piemontese, cit., p. 15.
  32. C. Caruso, Al servizio dell’unità, cit.; P.F. Bresciani, Sull’idea di regionalizzare il fine vita, cit.
  33. M.G. Nacci, Note critiche sulle iniziative legislative regionali, cit., p. 6 ss.; in senso contrario alla configurazione di un obbligo di prestazione in capo al Sistema Sanitario Nazionale volto ad “organizzare procedure sistematiche finalizzate a
  34. procurare la morte con farmaci letali” v. G. Razzano, La proposta di legge sulle «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita»: una valutazione nella prospettiva costituzionale anche alla luce della sent. n. 50/2022, in https://www.federalismi.it/, 2022; nella dottrina penalistica, esclude l’esistenza di un dovere non solo in capo ai singoli medici, ma anche al servizio sanitario, L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Corti supr. e salute, 2019, p. 197.
  35. M.G. Nacci, Note critiche sulle iniziative legislative regionali, cit., p. 7.
  36. Si rinvia, per una più ampia e meditata ricostruzione del tema delle posizioni soggettive individuali di fronte alla morte, al contributo di F. Paruzzo, Diritto e diritti di fronte alla decisione di morire, in Rivista AIC 2019, p. 96 ss., e bibliografia ivi citata; nella letteratura penalistica, cfr. anche la bibliografia citata supra, sub nt. 20.
  37. C. cost., n. 242/2019.
  38. G. Gentile, Il suicidio medicalmente assistito nello spazio libero dal diritto penale, in Dir. pen. proc., 2020, p. 385.
  39. Tale per cui non dovrebbe neppure porsi un problema di obiezione di coscienza: cfr. G. Gentile, Il suicidio medicalmente assistito, cit., p. 385.
  40. Lo evidenzia F. Consulich, Stat sua cuique dies, cit., p. 104.
  41. G. Gentile, Il suicidio medicalmente assistito, cit., p. 386.
  42. Sulla necessaria distinzione dei due piani v. F. Paruzzo, Diritto e diritti di fronte alla decisione di morire, cit., p. 135.
  43. Esclude radicalmente una simile possibilità L. Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Corti supr. e salute, 2019, p. 197.
  44. A. Vallini, Il tempo giusto del saluto, cit., p. 459.
  45. A. Vallini, Il tempo giusto del saluto, cit., p. 458-459.
  46. C. cost., ord. 207/2018.
  47. In particolare, v. Trib. Ancona, ord. 9 giugno 2021.
  48. Nella giurisprudenza di merito si rinvengono sul punto risposte diverse. Una recente decisione del Tribunale di Trieste (v. Trib. Trieste, ord. 16 luglio 2024) ha prospettato la soluzione positiva, affermando che: “nell’ambito del rapporto giuridico di spedalità tra l’Azienda sanitaria del S.S.N. e il paziente, [nel caso in cui sussistano i requisiti richiesti dalla sent. 242/2019, nda], l’Azienda deve offrire al medesimo paziente, in alternativa al trattamento sanitario della sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore […], la possibilità di porre fine alla propria esistenza con l’assunzione libera e consapevole di uno o più farmaci che lo conducano a morte certa, rapida, indolore e, per la sua soggettiva concezione, dignitosa”. In altri casi si è osservato, in senso contrario, come un simile obbligo contrasterebbe con l’incoercibilità della cooperazione del medico, se si considera che la condotta di aiuto, per essere ritenuta non punibile, deve inserirsi all’interno della relazione terapeutica e, dunque, l’esecuzione materiale della richiesta (ad es. tramite la prescrizione o l’acquisto del medicinale) comunque richiede la collaborazione del singolo sanitario (così Trib. Ancona, cit.).
  49. Prospetta dubbi di legittimità in tal senso F.G. Pizzetti, La proposta di legge piemontese, cit., p. 16.
  50. Sul principio della riserva di legge rispetto alle fonti regionali, e sul suo fondamento costituzionale prima della riforma dell’art. 117 Cost., cfr. S. Vinciguerra, Le leggi penali regionali. Ricerca sulla controversa questione, Milano, 1974; C. Piergallini, Norma penale e legge regionale: la costruzione del “tipo”, in E. Dolcini, T. Padovani, F. Palazzo (a cura di), Sulla potestà punitiva dello Stato e delle Regioni, Milano, 1994, p. 103 ss.; P. Bonetti, La potestà legislativa in materia penale tra Stato e Regioni, in C. Ruga Riva (a cura di), Ordinamento penale e fonti non statali, Milano, 2007, p. 265 ss.; C. Ruga Riva, Diritto penale, regioni e territorio, Milano, 2012.
  51. C. Sotis, Il principio di legalità, in C. E. Paliero (a cura di), Il sistema penale, Torino, 2024, p. 98.
  52. C. Cost. n. 185/2004.
  53. C. Piergallini, Norma penale e legge regionale, cit., p. 103 ss..
  54. L’elaborazione di tale categoria si deve a W. Hassemer, Prozedurale Rechtfertigungen, in H. Däubler-Gmelin, K. Kinkel, H. Meyer, H. Simon (a cura di), Gegenrede. Aufklärung-Kritik-Öffentlichkeit. Festschrift für Gottfried Mahrenholz, a cura di, Baden Baden 1994; in tema si veda il lavoro monografico di A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili dommatici e di politica criminale, Napoli, 2018. Si vedano anche: M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004, 27 ss.; M. Romano, Cause di giustificazione procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 1269 ss.; F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti. Principio di legalità e cause di giustificazione: necessità e limiti, Torino, 2018, p. 38 ss..
  55. Per questa ricostruzione, ancor prima della sentenza della corte costituzionale, M. B. Magro, Eutanasia e diritto penale, cit., p. 253 ss. Attualmente la tesi è prevalente in dottrina: v. ex multis, C. Cupelli, Il caso Cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte, in www.penalecontemporaneo.it, 3.12.2018, p. 89; M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 221 ss.; L. Risicato, La Consulta e il suicidio assistito, cit., p. 5; G. De Francesco, Il suicidio assistito, cit., p. 6; A. Sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della consulta n. 207/2018, in Dir. pen. cont., 6.5.2019; R. Bartoli, L’ordinanza della Consulta sull’aiuto al suicidio: quali scenari futuri?, ivi, 8.4.2019; S. B. Taverriti, Norme esimenti e aiuto al suicidio, cit., p. 21.
  56. Evidenzia questo carattere proprio delle scriminanti procedurali F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 38 ss..
  57. Tra gli altri, A. Nappi, Suicidio medicalmente assistito e omicidio del consenziente pietatis causa: problematiche ipotesi di tipicità penale, in Leg. pen., 23.9.2019; S. Seminara, Morte assistita, suicidio ed eutanasia (tra Corte costituzionale, quesito referendario e Parlamento), in Dir. pen. proc., 2022, p. 942.
  58. A. Vallini, Morire è non essere visto, cit., p. 818.
  59. S. Seminara, Morte assistita, cit., p. 943, che evidenzia anche come, nel caso del suicidio assistito, possa al più parlarsi di un conflitto interiore tra scelte coscienziali, ma non di un bilanciamento vero e proprio, perché manca un interesse esterno contrapposto a quello del malato.
  60. Si tratta della tesi autorevolmente sostenuta da M. Romano, Aiuto al suicidio, rifiuto o rinuncia a trattamenti sanitari, eutanasia (sulle recenti pronunce della Corte costituzionale, in Sist. pen., 8.1.2020, p. 9.
  61. S. Seminara, Morte assistita, cit., p. 945.
  62. F. Palazzo, Costituzione e scriminanti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1043. In tema v. anche M. Romano, Complessità delle fonti e sistema penale. Leggi regionali, ordinamento comunitario, Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 544; C. Ruga Riva, Diritto penale, Regioni e territorio, cit., p. 39 ss..
  63. C. Piergallini, Norma penale e legge regionale, cit., p. 134.
  64. C. Piergallini, Norma penale e legge regionale, cit., p. 149-150.
  65. F. Palazzo, Costituzione e scriminanti, cit., p. 1043 ss..
  66. V. ampiamente sul tema C. Ruga Riva, Diritto penale, Regioni e territorio, cit., p. 61 ss..
  67. F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 355.
  68. Cfr. C. Cost., n. 185/2004.
  69. F. Palazzo, Costituzione e scriminanti, cit., p. 304; contra C. Ruga Riva, Diritto penale, Regioni e territorio, cit., p. 66 ss. secondo cui le scelte di incriminazione non coinvolgerebbero i principi fondamentali della materia, essendo questi ultimi da riferirsi alla materia-oggetto e non alla materia come modo di disciplina.
  70. Come rileva F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 359, “la giustificazione di una condotta è spesso una scelta politico-criminale e come tale va trattata nell’ottica della ripartizione delle competenze tra Stato e Regione; è, in definitiva, una questione penalistica”.
  71. F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 374 ss. e p. 379, che aggiunge anche il limite normativo di sistema, evincibile dalla struttura dell’art. 117 Cost., costituito dalla necessità che le norme di liceità regionale rispettino i principi fondamentali della materia stabiliti dallo Stato nei settori a competenza concorrente.
  72. F. Consulich, Lo statuto penale delle scriminanti, cit., p. 382.
  73. A. Massaro, L. Grossi, La progressiva “destrutturazione giurisprudenziale” del suicidio medicalmente assistito: una nuova questione di legittimità costituzionale sull’art. 580 c.p., in Sist. pen., 12.3.2024, p. 12 ss..
  74. M. Donini, Libera nos a malo, cit., p. 14.
  75. Evidenzia il parallelismo con la categoria della scriminante procedurale M. Donini, Il volto attuale dell’illecito penale, cit., p.; sui reati incentrati sul momento autorizzatorio v. M. Mantovani, L’esercizio di un’attività non autorizzata. Profili penali, Torino, 2003.
  76. Distingue a seconda del carattere discrezionale o vincolato dell’attività autorizzatoria demandata all’amministrazione M. Mantovani, L’esercizio di un’attività non autorizzata, cit..
  77. In tema di smaltimento illecito di rifiuti, cfr. C. Cost. n. 14/1991; C. Cost., n. 370/1989; C. Cost., n. 43/1990. Per l’esame della giurisprudenza costituzionale in tema di interferenza tra legge regionale ed elemento normativo dell’autorizzazione amministrativa v. C. Piergallini, Norma penale e legge regionale, cit., p. 151 ss..
  78. Commissione regionale di bioetica – Regione Toscana, Parere n. 14.2.2020, redatto sulla base del lavoro del Gruppo di studio “Aiuto medico al morire” (cui hanno preso parte Antonio Vallini – Coordinatore del gruppo di studio -, Gianni Baldini, Alessandro Bichi, Vittorio Gasparrini, Mariella Immacolato, Paolo Malacarne, Piero Morino, Mariella Orsi, Antonio Panti, Monica Toraldo di Francia, Francesca Torricelli, Alfredo Zuppiroli).