Questioni interpretative e problemi aperti nella disciplina dei servizi pubblici locali

Luca Geninatti Satè1

1. Premessa sul carattere disorganico della disciplina e sulla natura interpretativa della sua ricognizione.

I servizi pubblici locali continuano a presentare un paradosso: da una parte, si avverte la necessità di una riforma complessiva della materia, che sia in grado (specie dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 23bis, d.l. 112/2008) di definire un quadro complessivo, chiaro e completo, delle regole sull’organizzazione e la gestione dei servizi; dall’altra, si assiste alla continua emanazione di disposizioni che introducono modifiche settoriali, concernenti la (sola) organizzazione o la (sola) gestione di un particolare servizio, secondo un procedere disorganico e a tratti caotico.

Ne consegue che la disciplina dei servizi pubblici locali si configura come l’esito (provvisorio e soggetto a rimaneggiamenti continui) di molteplici stratificazioni, modifiche, abrogazioni, pronunce giurisprudenziali e decisioni della Corte costituzionale, la cui ricostruzione non può perciò essere un’attività meramente esegetica, ma diventa un’operazione interpretativa, nel senso che richiede lo sviluppo di argomentazioni e processi di assegnazione di significati (non sempre esenti da perplessità e aporie).

Ciò vale, soprattutto, per la disciplina dell’affidamento dei servizi (con una parziale eccezione, frutto del recentissimo d.l. 133/20142, per il servizio idrico integrato) e, in parte, per quella dell’organizzazione.

In alcuni settori, infatti, la normativa vigente consente di considerare acquisiti alcuni punti: per il servizio di distribuzione del gas, per esempio, il completamento della normativa in materia di ambiti territoriali3 (e in particolare l’entrata in vigore dell’art. 29, d.lgs. 1° giugno 2011, n. 93, che ha imposto l’affidamento mediante gara d’ambito) ha consentito l’avvio delle prime procedure di affidamento, superando la maggior parte delle precedenti questioni interpretative4; analogamente, per il servizio di pubblica illuminazione, è almeno stata risolta la questione relativa alla qualificazione giuridica, prevalentemente ricondotta, oggi, alla categoria dei servizi pubblici locali5 (pur così residuando le questioni interpretative, che lo accomunano agli altri servizi, concernenti le procedure di affidamento).

Altri settori restano invece maggiormente soggetti ai problemi che la frammentarietà della disciplina attuale lascia aperti.

In particolare, il servizio di igiene urbana presenta varie questioni interpretative, concernenti sia l’organizzazione del servizio nelle more della definizione degli ambiti territoriali, sia le molteplici problematiche applicative derivanti dalla giurisprudenza costituzionale formatasi a seguito dell’abrogazione dell’art. 23bis, d.l. 112/2008.

Anche il servizio idrico integrato condivide in parte gli stessi problemi, pur giovandosi di alcuni opportuni chiarimenti (che costituiscono soprattutto codificazioni di posizioni giurisprudenziali o dottrinali già diffuse nel diritto vivente) introdotti dal d.l. 133/2014.

Infine, il servizio di teleriscaldamento continua a oscillare fra le qualificazioni normative che lo includono fra i servizi pubblici locali e quelle che, invece, lo configurano come attività di libero mercato.

2. L’affidamento dei servizi pubblici locali: (a) problematiche generali.

2.1. Successione di norme, abrogazioni e dichiarazioni di illegittimità costituzionali.

Il vigente quadro normativo in materia di affidamento dei servizi pubblici locali è, come si è detto, la risultante di una complessa serie di successioni, abrogazioni e dichiarazioni di illegittimità costituzionale di norme di legge.

In particolare, la normativa oggi applicabile deriva:

(a) dalla successiva stratificazione, prima, dell’art. 113, comma 5, d.lgs. 267/2000, quindi dell’art. 202, d.lgs. 152/2006, poi dell’art. 23bis, d.l. 112/2008, conv. nella l. 133/2008, ampiamente modificato dalla l. 166/2009, successivamente integrato dal d.P.R. 168/2010 e infine abrogato, ad esito di referendum popolare, dal d.P.R. 113/2011;

(b) dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. 138/2011, n. 138, convertito dalla l. 148/2011, modificato dal d.l. 1/2012, convertito dalla l. 27/2012, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012.

La ricostruzione integrale della disciplina originariamente dettata dal testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, quindi modificata dal d.lgs. 152/2006 e dall’art. 23bis, d.l. 112/2008, può essere omessa, ai fini di questo scritto: benché, infatti, questa disciplina abbia costituito l’impianto normativo sul quale per circa dieci anni sono stati disposti gli affidamenti dei servizi pubblici locali, lo scopo di questo articolo (destinato alla ricognizione della normativa attualmente applicabile) rende preferibile circoscrivere l’esposizione alle disposizioni che costituiscono il risultato di questa complessa successione normativa6.

2.2. L’applicazione della normativa dell’Unione Europea: implicazioni, criticità e problemi aperti.

L’abrogazione dell’art. 23bis, d.l. 112/2008, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. 138/2011, hanno di fatto determinato l’assenza, nel vigente ordinamento giuridico italiano, di norme interne volte a disciplinare l’affidamento dei servizi pubblici locali.

Questo effetto è stato espressamente considerato dalla Corte costituzionale sia nel momento in cui ha dichiarato ammissibile il referendum sulla prima norma (con la sentenza n. 24/2011, che ha doverosamente esaminato le conseguenze sull’ordinamento dell’eventuale esito positivo della consultazione popolare, poi effettivamente verificatosi), sia allorché ha dichiarato costituzionalmente illegittima la seconda.

In particolare, secondo la Corte, l’elisione delle norme interne in materia di affidamento dei servizi pubblici locali non determina l’insorgenza di una lacuna normativa propria, poiché da essa consegue «l’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria … relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione di servizi pubblici di rilevanza economica»7.

È dunque in queste regole che dev’essere oggi individuata la disciplina applicabile all’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Questo assunto della Corte costituzionale non è, tuttavia, privo di implicazioni critiche: rinviando genericamente alla “normativa comunitaria”, la Corte ha individuato la fonte della disciplina dell’affidamento in un complesso di atti normativi che possiedono un’efficacia molto diversa nell’ordinamento giuridico italiano.

Altro è, infatti, che per “normativa comunitaria” (oggi, rectius, “normativa dell’Unione europea”)8 s’intendano i regolamenti dell’Unione europea (i quali, ai sensi dell’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, hanno efficacia immediata e diretta negli ordinamenti dei Paesi membri); altro è che s’intendano – anche – le direttive dell’Unione europea (che invece non vincolano direttamente i cittadini dei Paesi membri, ma solo gli Stati, e che quindi assumono efficacia soltanto per effetto del recepimento da parte degli organi nazionali); altro ancora è che s’intendano – anche – i provvedimenti riconducibili alla cosidetta soft law, ossia quell’insieme di atti dell’Unione europea che, pur non possedendo portata precettiva codificata negli ordinamenti dei Paesi membri, sono comunque assunti a riferimento per identificare l’orientamento, e le politiche normative, dell’Unione e per trarne indicazioni ai fini del ravvicinamento delle legislazioni nazionali9.

Non si può certo ammettere che, mediante il rinvio generico alla “normativa comunitaria”, la Corte costituzionale abbia inteso attribuire efficacia immediata e diretta, nell’ordinamento italiano, a tutte le disposizioni dell’Unione europea in materia di affidamento dei servizi pubblici a rilevanza economica, indipendentemente dalla fonte normativa in cui tali regole siano collocate, poiché ne deriverebbe una inaccettabile alterazione delle norme, internazionali e costituzionali, che disciplinano i rapporti fra l’ordinamento dell’Unione Europea e quello nazionale.

Il riferimento contenuto nella giurisprudenza della Corte avrebbe perciò dovuto essere analiticamente scomposto – almeno dalla dottrina e dalla giurisprudenza – attraverso l’identificazione puntuale di quali regole contenute nella normativa dell’Unione europea siano effettivamente applicabili (in conformità alle norme sull’efficacia degli atti dell’Unione nell’ordinamento nazionale) in materia di affidamento dei servizi pubblici.

Questa operazione analitica non è però, sino ad oggi, stata condotta: ad essa si è invece superficialmente sovrapposta la semplice riproposizione delle modalità di affidamento che si ritengono ammesse dal diritto dell’Unione europea ai fini della tutela della concorrenza.

2.3. Le regole per l’affidamento.

Si deve quindi rilevare che per effetto dell’abrogazione dell’art. 23bis, d.l. 138/2011, e della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. 138/2011, si è formato un “diritto vivente” che, fondandosi sul generico rinvio della giurisprudenza costituzionale alla “normativa comunitaria” come fonte della disciplina in materia di gestione dei servizi pubblici, ha individuato quali modalità di affidamento dei servizi le seguenti:

(i) affidamento del servizio con procedura di evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato di funzionamento dell’Unione europea;10

(ii) affidamento del servizio a società mista il cui socio privato sia scelto mediante procedura ad evidenza pubblica;11

(iii) affidamento del servizio a soggetto interamente pubblico in house, purché l’affidatario disponga dei requisiti individuati dalla giurisprudenza dell’Unione europea12.

Per effetto dell’entrata in vigore del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012, per l’affidamento dei servizi pubblici locali è poi richiesto uno specifico onere procedimentale: in particolare, ai sensi dell’art. 34, comma 20, «l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste».

2.4. Principali questioni applicative delle regole per l’affidamento.

2.4.1. La procedura ad evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi e le regole di gara.

L’affidamento mediante procedura ad evidenza pubblica era configurato dalla normativa nazionale previgente (in particolare: dall’art. 23bis, ccomma 2, lett. a), del d.l. 112/2008) come modalità “ordinaria” di conferimento dei servizi pubblici locali, esplicitando così una connotazione che già era desumibile dall’art. 202 del d.lgs. 152/2006.

L’intervenuta abrogazione di questa norma (e la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4, d.l. 138/2011, che di fatto la riproduceva) ha invece ricondotto il quadro normativo applicabile verso la sostanziale equiordinazione tra le varie modalità di affidamento, già in origine contemplata dall’art. 113, comma 5, d.lgs. 267/2000.

In effetti, la “normativa comunitaria” non afferma espressamente il carattere preferenziale della scelta della procedura di gara, evitando quindi di connotarla quale modalità di affidamento maggiormente corrispondente alle esigenze di regolamentazione sottese alla disciplina.

Tuttavia – come si vedrà nel prosieguo – è indubbio che anche nell’ordinamento dell’Unione Europea l’affidamento diretto a un soggetto in house, pur ammesso quale modalità di gestione dei servizi pubblici, si configuri come un istituto circondato di cautele, e perciò soggetto a specifici requisiti, in ragione delle potenziali alterazioni della tutela della concorrenza che un ricorso non sorvegliato ad esso potrebbe generare13.

Si può quindi ammettere che, ai fini della conformità alla “normativa comunitaria”, la procedura di gara ad evidenza pubblica, così come l’affidamento diretto a società mista il cui partner sia scelto mediante gara, si configurano come le modalità apertamente rispettose dei principi del Trattato che istituisce la Comunità europea e, in particolare, dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, trasparenza, adeguata pubblicità, non discriminazione, parità di trattamento, mutuo riconoscimento e proporzionalità.

In ordine alle modalità di svolgimento delle procedure di gara per l’affidamento dei servizi, la (ritenuta) abrogazione dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. 168/2010 («Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23bis, comma 10, del decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133») ha determinato l’inapplicabilità delle regole ivi stabilite circa il contenuto dei bandi di gara, con riguardo, per esempio, alla disponibilità delle reti, ai requisiti di partecipazione o alle forme di aggregazione.

In realtà, alcune di quelle previsioni possono ragionevolmente essere ricondotte nell’alveo dei principi dell’Unione europea in materia di tutela della concorrenza (come per esempio, l’esigenza che i bandi escludano che la disponibilità a qualunque titolo delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali non duplicabili a costi socialmente sostenibili ed essenziali per l’effettuazione del servizio possa costituire elemento discriminante per la valutazione delle offerte dei concorrenti, oppure la necessità che i bandi assicurino che i requisiti tecnici ed economici di partecipazione alla gara siano proporzionati alle caratteristiche e al valore del servizio e che la definizione dell’oggetto della gara garantisca la più ampia partecipazione e il conseguimento di eventuali economie di scala e di gamma).

Tuttavia, ritenere queste regole cogenti per i bandi di gara resta principalmente affidato a operazioni interpretative e alla loro consolidata diffusione nel “diritto vivente”.

 2.4.2. L’affidamento diretto a società mista: presupposti e limiti.

L’art. 23bis, comma 2, lett. b), individuava una ulteriore modalità di affidamento dei servizi nel conferimento della gestione «a società a partecipazione mista pubblica e privata, a condizione che la selezione del socio avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi di cui alla lettera a), le quali abbiano ad oggetto, al tempo stesso, la qualità di socio e l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio e che al socio sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento».

L’abrogazione di questa norma (che specificava puntualmente, con dettaglio ulteriore rispetto a quanto previsto d.lgs. 152/2006, le condizioni e i limiti che gravavano sulla società mista affinché potesse legittimamente risultare affidataria del servizio) ha comportato che l’affidamento alla società mista sia oggi ammissibile nei termini previsti dalla “normativa comunitaria”.

Si deve quindi ritenere, in applicazione delle regole dell’Unione europea in materia di tutela della concorrenza e di Partenariato pubblico-privato istituzionalizzato, che persista la necessità che la selezione del socio privato avvenga mediante le medesime procedure (competitive e ad evidenza pubblica) previste per l’affidamento con gara.

È invece certamente venuta meno l’esigenza che al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40%, requisito che non è prescritto dalla “normativa comunitaria”: si possono quindi ritenere legittimamente affidatarie del servizio pubblico locale tanto le società miste a capitale pubblico maggioritario senza limite di quota, quanto quelle a capitale pubblico minoritario, ai sensi dell’art. 116 del d.lgs. 267/2000.

Maggiori dubbi sorgono in ordine all’esigenza che il socio privato svolga specifici compiti operativi o, quanto meno, abbia natura industriale (e quindi non meramente finanziaria).

L’abrogazione dell’art. 23bis, che imponeva l’attribuzione al socio privato di «specifici compiti operativi” va infatti confrontata con le indicazioni contenute nel “Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati ed al diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni», pubblicato dalla Commissione europea il 30 aprile 2004, COM(2004)327.

In tale atto, con riguardo ai Pppi, la Commissione precisa che la scelta di un partner privato per la costituzione di una società mista «non può essere basata esclusivamente sulla qualità del suo contributo in capitali o della sua esperienza, ma dovrebbe tenere conto delle caratteristiche della sua offerta – che economicamente è la più vantaggiosa – per quanto riguarda le prestazioni specifiche da fornire» (p.to 58).

Si rileva, dunque, che l’orientamento della Commissione è nel senso di preferire un socio industriale a uno meramente finanziario, e anche che la selezione del partner deve tenere conto del ruolo operativo che esso assumerà.

Se, dunque, non è più imposto, per l’intervenuta abrogazione dell’art. 23bis, che il socio privato sia dotato di “specifici compiti operativi”, si ritiene comunque necessario che la sua selezione privilegi il carattere industriale e operativo rispetto al mero apporto di capitali.

In che misura questa “preferenza” renda o no legittimo l’affidamento diretto di un servizio pubblico locale a una società mista il cui partner privato è, invece, mero socio finanziario dipende dalla portata precettiva che il “diritto vivente” ritiene di attribuire a un atto come il “Libro verde”.

Come si è visto, il rinvio generalizzato della Corte costituzionale alla “normativa comunitaria” non consente di risolvere questo dubbio: se il “Libro verde”, non essendo un atto normativo e non avendo quindi efficacia diretta negli Stati membri, non appartenga al novero di fonti che impongono le caratteristiche degli affidamenti dei servizi pubblici (e dunque se resti legittimo un affidamento che, discostandosi da esso, contempli un socio privato meramente finanziario), oppure se la “normativa comunitaria”, intesa come comprensiva anche delle regole interpretativamente dedotte dagli atti di soft law, esiga comunque il rispetto anche di queste disposizioni, ed escluda quindi un affidamento a società mista il cui socio privato non abbia un ruolo industriale.

Analoghi dubbi sorgono, peraltro, con riferimento alla necessità di prevedere una durata temporale della società mista, da identificarsi all’atto della scelta del partner e da correlare alla durata dell’affidamento.

Anche in questo caso, infatti, dopo l’abrogazione delle norme nazionali che imponevano la previsione della durata, la regola è unicamente desumibile dal punto 61 del citato “Libro verde”, laddove si afferma che quando «la durata dell’impresa creata non coincide con la durata del contratto o della concessione attribuita» si può verificare un fenomeno distorsivo della concorrenza, perché il fenomeno può «indurre a rinnovi dell’incarico affidato a questa impresa senza che sia posta in essere una reale nuova messa in concorrenza».

Ulteriori questioni in materia di società miste affidatarie di servizi pubblici locali riguardano, da un lato, la legittimità di un affidamento a società miste partecipate solo indirettamente da enti locali e, dall’altro, i limiti alla operatività delle società miste affidatarie.

Di per sé, le vicende che hanno interessato la disciplina dei servizi pubblici locali non introducono elementi di criticità rispetto alla possibilità che la partecipazione pubblica nella società mista affidataria diretta del servizio sia detenuta dall’Amministrazione in via indiretta.

È ben possibile, infatti, che l’ente affidante individui in una società partecipata il soggetto strumentale mediante il quale partecipare alla società mista, naturalmente a condizione che il primo soggetto possegga uno specifico ruolo istituzionale quale società preordinata allo svolgimento di compiti strumentali alle attività dell’ente socio.

Sotto questo profilo, anche la “normativa comunitaria” non pare contenere elementi pregiudizievoli rispetto a tale possibilità.

Sul tema, e con particolare riferimento al carattere pubblicistico di una società interamente partecipata da uno o più enti pubblici, basti ricordare che dalla tendenziale assimilazione delle società interamente pubbliche ai soggetti pubblici discende il fatto che le partecipazioni detenute da tali società sono qualificabili come partecipazioni pubbliche, dal che ulteriormente deriva che una società partecipata da una società pubblica è qualificabile come società mista alla stregua di una società partecipata direttamente da enti pubblici14.

Con riguardo alla operatività della società mista, la giurisprudenza si era orientata a riconoscerne la legittimazione a partecipare, fuori dal contesto di origine, alle gare per l’affidamento di altri servizi pubblici locali, purché l’impegno extra-territoriale non sottraesse risorse in misura tale da pregiudicare il conseguimento del suo scopo primario15.

L’entrata in vigore dell’art. 23bis aveva però imposto una diversa disciplina, atteso che il comma 9 di tale norma (come sostituito dall’art. 15, comma 1, lett. d), l. 166/2009) prescriveva un generale divieto di «acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti territoriali diversi» alle società che, in Italia o all’estero, gestiscono di fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b).

Il divieto aveva una portata significativamente ampia, in quanto si estendeva, sotto il profilo soggettivo, alle società controllate e controllanti e controllate da una medesima controllante, pur non riguardando (oltre che le società quotate in mercati regolamentati) il socio privato di società mista selezionato secondo le modalità previste dall’art. 23bis, che restava quindi libero di svolgere attività ulteriori; sotto il profilo oggettivo, il divieto comprendeva anche la preclusione a svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o privati, sia direttamente, sia tramite loro controllanti o altre società che siano da essi controllate o partecipate, sia partecipando a gare; circa l’aspetto temporale, il divieto operava per tutta la durata della gestione.

Dopo l’abrogazione dell’art. 23bis, il divieto di acquisire la gestione di ulteriori servizi pubblici, gravante sulle società affidatarie, ha naturalmente perso efficacia.

Inoltre, anche durante la vigenza dell’art. 4, d.l. 138/2011 (e dunque prima della relativa dichiarazione di illegittimità costituzionale), la l. 183/2011 aveva escluso dall’ambito soggettivo di applicazione dei divieti di partecipazione alle gare per l’affidamento della gestione dei servizi non solo il socio privato (come già anteriormente previsto), ma anche le società miste affidatarie dirette.

Possono quindi ritenersi superate le questioni concernenti il divieto di extraterritorialità per tali società16.

La normativa dell’Unione europea, del resto, non appare contenere un espresso e generalizzato divieto di partecipazione per le imprese che hanno conseguito affidamenti diretti.

In particolare, l’art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede che: «1. Gli Stati membri non emanano né mantengono, nei confronti e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, alcuna misura contraria alle norme dei trattati delle imprese pubbliche. 2. Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole di concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento, in linea di diritto e di fatto, della specifica missione loro affidata».

Tale norma, in effetti, non formula un vero e proprio divieto di partecipazione alle pubbliche gare a carico delle imprese che abbiano affidamenti in corso assegnati senza gara e, del resto, l’interpretazione che conducesse all’esito opposto potrebbe essere ritenuta in contrasto con i principi unionisti in materia di massima concorrenzialità e apertura al mercato.

La giurisprudenza dell’Unione europea ha inoltre precisato che è contraria al diritto unionista, perché viola il principio di proporzionalità, una normativa nazionale che escluda dalle gare pubbliche intere categorie di operatori in virtù di una presunzione assoluta di violazione del principio di parità di trattamento, senza permettere valutazioni caso per caso17.

2.4.3. L’affidamento in house e l’applicazione del diritto dell’Unione europea.

La terza modalità di affidamento dei servizi pubblici locali è rappresentata dal cosiddetto modello in house18.

Mentre l’art. 23bis, comma 3, configurava questa modalità come derogatoria rispetto alle ipotesi (ordinarie) di conferimento della gestione mediante gara o a società mista (subordinandone il ricorso alla ricorrenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato»), l’intervenuta abrogazione della norma ha rimosso questo presupposto.

Nondimeno, l’applicazione della “normativa comunitaria” richiede tuttora che l’affidamento in house, per essere compatibile con le regole in materia di tutela della concorrenza, sia prescelto soltanto in presenza di circostanze che escludano l’utilità e l’efficacia del ricorso al mercato19.

Peraltro, le nuove direttive approvate all’inizio di quest’anno (le nn. 23, 24 e 25 del 2014, in corso di recepimento) sembrano disvelare un certo maggior favor per l’utilizzo dello strumento dell’in house.

Infatti, da un lato, è consentita, ancorché in posizione non determinante, la partecipazione al capitale anche di soci privati; dall’altro, è fissato il limite minimo di attività a favore dell’ente pubblico di controllo nella percentuale dell’80%, in questo modo consentendo che una non irrilevante quota di attività, fino al 20% dell’attività dell’impresa in house, possa essere svolta liberamente a favore di soggetti terzi, in competizione con gli altri operatori di mercato.

Peraltro, di recente la Corte di Giustizia ha nuovamente ribadito l’esigenza che, ai fini della configurazione dell’in house, è necessaria l’assenza di capitale privato nella società sottoposta al controllo pubblico, quindi ribadendo la necessità del controllo totalitario in capo all’’amministrazione di controllo20.

Anche sotto questo profilo, pertanto, si deve sottolineare l’assenza di un univoco “acquis”, divenendo quindi cruciale attendere il recepimento delle direttive, onde verificare in che modo la norma nazionale recepirà il disposto delle direttive rispetto alla fattispecie in esame.

A ciò si aggiunga (come in precedenza evidenziato) che, sul piano interno, l’art. 34, comma 20, del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012, prescrive che «l’affidamento del servizio è effettuato sulla base di apposita relazione, pubblicata sul sito internet dell’ente affidante, che dà conto delle ragioni e della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta e che definisce i contenuti specifici degli obblighi di servizio pubblico e servizio universale, indicando le compensazioni economiche se previste».

Con particolare riferimento all’affidamento in house, questo onere richiede di dimostrare (i) che la decisione di ricorrere a una società in house anziché a un soggetto terzo discende dalla previa valutazione comparativa dei rispettivi servizi offerti (cfr., in argomento Tar Liguria, sez. II, 1 febbraio 2012, n. 225) e (ii) che sussistono i presupposti di inadeguatezza e inefficienza del ricorso al mercato che legittimano eccezionalmente il ricorso all’in house providing21.

Ove i presupposti per il ricorso all’affidamento in house siano dimostrati, la scelta di questa modalità richiede il rispetto degli elementi che caratterizzano il modello, elementi che devono essere desunti dai requisiti richiesti dall’ordinamento dell’Unione europea e dai «principi della disciplina comunitaria in materia di controllo analogo sulla società e di prevalenza dell’attività svolta dalla stessa con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».

Com’è noto, infatti, s’impiega l’espressione “in house providing”, o “affidamento in house”, per designare la possibilità per una pubblica amministrazione di affidare un contratto direttamente, ossia senza l’interposizione di procedure ad evidenza pubblica, ad un soggetto da essa distinto ma comunque riconducibile alla sua unitaria articolazione organizzativa.

La dizione compare per la prima volta nel Libro bianco della Commissione europea del luglio 1998, ove gli appalti in house sono definiti come quelli «aggiudicati all’interno della Pubblica amministrazione, ad esempio tra Amministrazione centrale e locale o, ancora, tra una amministrazione ed una società interamente controllata».

Sulla scorta della definizione data dalla Commissione europea, l’istituto dell’in house si radica nel diritto dell’Unione europea a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia 18 novembre 1998, in causa C-197/98, c.d. “Teckal”; in tale pronuncia la Corte legittima l’affidamento diretto, non preceduto da selezione ad evidenza pubblica, quando l’ente eserciti sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello dal medesimo ente esercitato sui propri servizi ed a condizione che l’affidatario svolga la parte più importante della propria attività con l’ente che lo controlla.

La sussistenza dei due requisiti ora menzionati, detti, il primo, “dipendenza gestionale”, e, il secondo, “dipendenza finanziaria”, determina, secondo la Corte, l’inapplicabilità delle norme che impongono la scelta del terzo contraente mediante evidenza pubblica, perché tali requisiti comportano che l’affidatario non sia qualificabile come terzo, ossia come soggetto alieno dall’Amministrazione, e che perciò il rapporto fra Pa e affidatario non possa nemmeno configurarsi come contratto.

Per conseguenza, non essendo l’affidatario un “terzo”, e non essendo il rapporto un “contratto”, non si applicano le regole di evidenza pubblica che presiedono, invece, proprio la scelta del “terzo contraente”.

L’origine giurisprudenziale dell’istituto ha conosciuto successivamente l’impatto della codificazione, ossia della previsione espressa, da parte del legislatore, delle ipotesi di operatività degli affidamenti in house; nel settore dei servizi pubblici di rilevanza economica la codificazione è stata dapprima piena, ma ha poi conosciuto una progressiva riduzione mediante una più rigorosa definizione dei presupposti di eccezionalità che legittimano il ricorso all’istituto.

Laddove il vigente quadro normativo in materia di servizi pubblici rinvia, ai fini della legittimità dell’affidamento in house, ai principi e alle regole sviluppatisi in sede unionista, esso prescrive dunque la ricorrenza dei requisiti (a) della dipendenza gestionale e (b) della dipendenza finanziaria, caratterizzati secondo la fisionomia ad essi attribuita dall’evoluzione pretoria dell’istituto.

A questo riguardo, ai fini della sussistenza del requisito della dipendenza gestionale s’individuano alcuni presupposti essenziali:

(a) la società affidataria dev’essere a partecipazione pubblica totalitaria (ma, come sopra esposto, sussiste un dubbio al riguardo, derivante dal tenore delle recenti direttive in corso di recepimento), in quanto la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale della società esclude la possibilità di configurare un’effettiva e completa dipendenza gestionale nei confronti dell’ente pubblico;

(b) gli strumenti di controllo dell’ente devono risultare più penetranti rispetto a quelli civilistici; per conseguenza:

(b1) il Consiglio di amministrazione del soggetto affidatario non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente controllante dev’essere consentito di esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale22; le decisioni principali sulla gestione e conduzione della società in house devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante23;

(b2) il soggetto affidatario in house non deve avere acquisito una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente pubblico, quale risulterebbe per esempio (i) dall’ampliamento dell’oggetto sociale, (ii) dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali, (iii) dall’espansione territoriale della società a tutta l’Italia e all’estero;

(b3) devono essere rinvenibili previsioni aggiuntive a beneficio dell’ente controllante che permettano a quest’ultimo di operare un sindacato concreto sui poteri gestionali dell’organo amministrativo dell’affidatario, che investa non solo gli atti di gestione straordinaria ma anche, in parte rilevante, la gestione ordinaria;

(c) la società in house può anche essere partecipata da una pluralità di enti locali, in tal caso:

(c1) da un lato, il “controllo analogo” può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse;

(c2) dall’altro lato, si esige che il controllo esercitato sull’entità partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza del capitale sociale: è necessario, infatti, che anche il singolo socio possa vantare una posizione idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell’organismo del quale è parte;

(c3) la giurisprudenza dell’Unione europea non specifica attraverso quali sistemi operativi debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli organi direttivi e con quale modalità concreta quest’ultimo debba concorrere al controllo analogo; la prassi conosce svariati meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società; ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell’assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza; un’efficace alternativa è costituita, al riguardo, dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell’attività ordinaria e straordinaria del soggetto in house, tali da rendere l’organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti;

(c4) la giurisprudenza sottolinea la necessità che il relativo consiglio di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo, e che l’ente pubblico affidante (la totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario e caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria; risulta a tal fine indispensabile che le decisioni strategiche e più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante.

Con riferimento, invece, alla sussistenza del requisito della dipendenza gestionale, esso s’identifica nella necessità che il soggetto affidatario svolga la parte più importante della propria attività con l’ente che lo controlla; a tal proposito:

(a) tale requisito può sussistere solo se l’attività dell’impresa affidataria in house è principalmente svolta a favore dell’ente controllante, con la conseguenza che ogni altra attività assume carattere solo marginale;

(b) il criterio della prevalenza va inteso in senso quantitativo e qualitativo (si noti: le recenti direttive in corso di recepimento lo quantificano in almeno l’80% del fatturato), sussistendo il requisito quando l’affidatario in house o non svolga alcuna attività a favore di soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, oppure ne svolga ma in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante;

(c) per il soddisfacimento del requisito non assume rilievo il fatto che l’affidatario percepisca dagli utenti del servizio reso, e non dagli enti locali affidanti, il corrispettivo per l’attività, sempre che tale attività sia svolta a favore di utenti che compongono la comunità al cui presidio è posto l’ente affidante;

(d) nel caso di affidatario in house partecipato da più enti locali, il requisito può sussistere laddove l’impresa svolga la parte più importante della propria attività anche non necessariamente con l’uno o l’altro degli enti ma con questi ultimi complessivamente considerati.

Va infine osservato che il citato art. 34, comma 27, del d.l. 179/2012, convertito dalla l. 221/2012, ha modificato l’art. 4, comma 8, del d.l. 95/2012, convertito dalla l. 135/2012, disponendo l’abrogazione delle parole: «e a condizione che il valore economico del servizio o dei beni oggetto dell’affidamento sia complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui».

La modifica ha comportato il venir meno delle restrizioni al ricorso all’in house providing previste dal citato d.l. 95/2012, per effetto delle quali, a decorrere dal 1° gennaio 2014, l’affidamento diretto avrebbe potuto disporsi solo a condizione che il valore economico del servizio fosse complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui.

Inoltre, dopo che l’art. 114, comma 5bis, del d.lgs. 267/2000, aggiunto dall’art. 25 del d.l. 1/2012, convertito dalla l. 27/2012, ha assoggettato le aziende speciali e le istituzioni, a decorrere dall’anno 2013, al patto di stabilità interno (in sostanza sottoponendo le aziende speciali agli stessi limiti e condizioni previsti per le società affidatarie in house dall’art. 3bis del citato d.l. 138/2011), si è affermato un orientamento che ammette l’affidamento in house anche a favore di aziende speciali, naturalmente a condizione che sussistano tutti i richiamati requisiti che legittimano il ricorso a tale modalità organizzativa24.

2.5. Il regime transitorio degli affidamenti in essere.

L’art. 34 del d.l. 179/2012 ha previsto che «gli affidamenti in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea devono essere adeguati entro il termine del 31 dicembre 2013 pubblicando, entro la stessa data, la relazione prevista al comma 20. Per gli affidamenti in cui non è prevista una data di scadenza gli enti competenti provvedono contestualmente ad inserire nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto un termine di scadenza dell’affidamento. Il mancato adempimento degli obblighi previsti nel presente comma determina la cessazione dell’affidamento alla data del 31 dicembre 2013».

La disposizione riguarda gli affidamenti in essere al 20 ottobre 2012 e comporta:

(a) che gli affidamenti «non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea» siano “adeguati” entro il 31 dicembre 2013 «pubblicando, entro la stessa data, la relazione prevista al comma 20»; è da ritenersi che ciò comporti la necessità, per gli Enti affidanti, di procedere in autotutela e di disporre l’affidamento con modalità conformi alla normativa dell’Unione europea;

(b) che gli affidamenti conformi alla normativa unionista, ma rispetto ai quali non è stata prevista una data di scadenza, debbano essere integrati attraverso l’introduzione di un termine di scadenza dell’affidamento.

Per entrambe le fattispecie, in caso di mancata ottemperanza è prevista la cessazione ex lege dell’affidamento in essere alla data del 31 dicembre 2013.

Sul punto, il d.l. 150/2013, convertito dalla l. 15/2014, ha previsto, in espressa deroga alla disposizione ora richiamata, che ove l’ente affidante abbia già avviato le procedure di affidamento, pubblicando la già ricordata relazione, il servizio prosegue in regime di prorogatio sino al subentro del nuovo gestore «e comunque non oltre il 31 dicembre 2014».

Poiché la medesima norma ha disposto che il mancato rispetto di questi termini «comporta la cessazione degli affidamenti non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea alla data del 31 dicembre 2014», si ritiene che il termine del 31 dicembre 2013, previsto dall’art. 34, possa intendersi implicitamente sostituito da quello del 31 dicembre 2014.

Il comma 22 del citato art. 34, d.l. 179/2012, prevede poi che «Gli affidamenti diretti assentiti alla data del 1° ottobre 2003 a società a partecipazione pubblica già quotate in borsa a tale data, e a quelle da esse controllate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile, cessano alla scadenza prevista nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto; gli affidamenti che non prevedono una data di scadenza cessano, improrogabilmente e senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, il 31 dicembre 2020».

La norma disciplina il regime transitorio degli affidamenti diretti alle società quotate, i quali cessano (i) alla scadenza prevista nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto oppure (ii) al 31 dicembre 2020, nel caso in cui non sia prevista una data di scadenza.

3. (segue): (b) l’affidamento del servizio idrico integrato.

Il d.l. 12 settembre 2014, n. 133, ha introdotto nuove rilevanti disposizioni per l’affidamento del servizio idrico integrato (Sii), regolando anche, in modo innovativo, la disciplina del pagamento del rimborso al gestore uscente.

Queste disposizioni consentono di risolvere, almeno in parte, i molteplici dubbi (ricostruiti anche nel precedente paragrafo 2) sulla puntuale identificazione delle disposizioni applicabili al servizio idrico dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 23bis, d.l. 112/2008, nonché sulla persistente vigenza delle norme adottate in delegificazione del medesimo articolo (in particolare, con riguardo all’art. 10 del d.P.R. 168/2010).

Le stesse norme del d.l. 133/2014 sollevano, per altro verso, alcune nuove questioni interpretative e applicative.

Al fine di superare le difficoltà interpretative conseguenti alla richiamata abrogazione referendaria, il d.l. 133/2014 ha introdotto il nuovo art. 149bis del d.lgs. 152/2006, che chiarisce ora in modo esplicito che l’affidamento del SII costituisce competenza esclusiva degli Enti di governo dell’ambito (ossia degli organi che hanno sostituito le Autorità d’ambito dopo la riforma della l. 42/2010) e deve avvenire in una delle forme previste dall’ordinamento europeo, nonché nel rispetto della normativa nazionale in materia di organizzazione dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica.

La prima parte della disposizione conferma (codificandola in una norma di diritto positivo) l’impostazione della giurisprudenza costituzionale, identificando le forme di gestione del Sii in quelle stabilite dall’Unione europea; in questo modo, tuttavia, la norma riproduce anche alcune delle criticità che questo rinvio può generare.

Da un lato, infatti, il riferimento all’ ordinamento europeocomporta (come si è visto) che le forme di gestione del Sii siano da individuare:

(a) nell’affidamento del servizio con procedura di evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del Trattato di funzionamento dell’Unione europea;

(b) nell’affidamento del servizio a società mista il cui socio privato sia scelto mediante procedura ad evidenza pubblica;

(c) nell’affidamento del servizio a soggetto interamente pubblico in house, purché l’affidatario disponga dei requisiti individuati dalla giurisprudenza dell’Unione europea

Dall’altro, residuano però le questioni interpretative legate al fatto, già discusso, che le norme dell’ ordinamento europeo consistono in un complesso di atti normativi che possiedono un’efficacia eterogenea nell’ordinamento giuridico italiano: in particolare, permangono alcune perplessità sul grado di vincolatività che le norme contenute in questi ultimi provvedimenti assumono nell’ordinamento italiano (e continua quindi a restare dubbio, per esempio, dunque se sia o no possibile un affidamento diretto a società mista con partner meramente finanziario).

La seconda parte della norma (che richiama la disciplina nazionale in materia di servizi «di rilevanza economica») rappresenta invece una novità di rilievo, perché riafferma – sia pure indirettamente – la riconducibilità del Sii a questa categoria di servizi: ciò comporta (come recentemente precisato dalla giurisprudenza amministrativa)25 la necessità che la tariffa del servizio idrico consenta l’integrale copertura dei costi, esigenza che legittima un modello tariffario comprensivo di una componente esattamente volta a questa copertura.

Questa previsione normativa codifica, quindi, la posizione assunta dalla giurisprudenza, superando le incertezze sorte per effetto dell’abrogazione referendaria dell’art. 154, comma 1, d.lgs. 152/2006.

4. (segue): (c) l’applicazione della disciplina sull’affidamento dei servizi pubblici locali al servizio d’igiene urbana.

Presupposto perché la normativa sull’affidamento dei servizi pubblici sin qui ricostruita si applichi al servizio di igiene urbana è la sua qualificazione come servizio pubblico locale.

Da tale qualificazione discende, infatti, l’applicabilità delle disposizioni in materia di affidamento dei servizi d’interesse economico generale, anziché di quelle dettate dal legislatore per l’affidamento dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture.

Al riguardo, costituisce acquisizione consolidata, in dottrina e in giurisprudenza, l’ascrivibilità del servizio di igiene urbana ai servizi pubblici locali.

Infatti, nei servizi pubblici locali l’Amministrazione ricorre a un soggetto al fine di provvedere a un bisogno della collettività, attribuendogli il compito di svolgere, a favore dei cittadini, un servizio volto a soddisfare bisogni collettivi ritenuti indispensabili.

Nei servizi pubblici locali, quindi, le attività affidate «sono destinate a rendere un’utilità immediatamente percepibile ai singoli o all’utenza complessivamente considerata, che ne sopporta i costi direttamente, mediante pagamento di apposita tariffa, all’interno di un rapporto trilaterale, con assunzione del rischio di impresa a carico del gestore»26.

Il fatto che il corrispettivo sia reso direttamente dall’Amministrazione o, in alternativa, gravi sugli utenti vale poi a distinguere l’appalto di servizio pubblico locale dalla concessione di servizio pubblico locale (chiarisce infatti l’art. 3, comma 12, del d.lgs. 163/2006 che la concessione di servizi «è un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto pubblico di servizi, ad eccezione del fatto che il corrispettivo della fornitura di servizi consiste unicamente nel diritto di gestire i servizi o in tale diritto accompagnato da un prezzo»), ma questa distinzione non incide sulla natura di servizio pubblico locale, laddove sussistano i relativi elementi caratterizzanti.

È stato infatti chiarito che «la subordinazione al pagamento di un corrispettivo, rilevante nella prospettiva abbracciata dal codice dei contratti pubblici in sede di distinzione tra la figura dell’appalto e quella della concessione … non incide sulla sua qualifica di servizio pubblico locale ai fini dell’applicazione della disciplina di cui al Tuel.»: infatti, «relativamente ai servizi pubblici locali, l’art. 117 Tuel precisa che la tariffa ne costituisce il corrispettivo ma non ne definisce il contenuto, determinato dalla possibilità concreta dell’ente di dividere sui singoli l’onere della gestione ed erogazione della prestazione»27.

Sono dunque ascrivibili al genere dei servizi pubblici locali i rapporti in cui (i) l’attività è preordinata a soddisfare in modo diretto le esigenze proprie (non dell’amministrazione, ma) di una platea indifferenziata di utenti e (ii) il gestore è sottoposto una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l’espletamento dell’attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico-professionale e qualità.28

Il servizio d’igiene urbana presenta, nitidamente, tutti gli indici rilevatori della nozione di servizio pubblico locale29; in particolare:

(a) è rivolto all’utenza ed è destinato a soddisfare interessi generali dei quali i cittadini usufruiscono uti singuli e come componenti la collettività;

(b) la remunerazione della prestazione è posta a carico degli utenti, che vi provvedono attraverso il sistema tariffario previsto dalla legge;

(c) il gestore del servizio assume il rischio economico relativo alla gestione;

(d) il servizio è destinato a soddisfare in modo diretto esigenze proprie di una platea indifferenziata di utenti, per un periodo di lunga durata;

(e) il gestore è la sottoposto a una serie di obblighi, tra i quali quelli di esercizio e tariffari, volti a conformare l’espletamento dell’attività a regole di continuità, regolarità, capacità tecnico-professionale e qualità (perché ciò che connota in modo rilevante la natura di servizio pubblico è il conseguimento di fini sociali a favore della collettività per il tramite dell’attività svolta dal gestore);

(f) il servizio presenta struttura trilaterale, poiché tutte le prestazioni dei soggetti coinvolti fanno capo all’Amministrazione, al gestore ed agli utenti (mentre nel contratto d’appalto il rapporto ha carattere bilaterale, limitandosi alla relazione sinallagmatica fra il prestatore e l’Amministrazione beneficiaria).

Pertanto, «non può esser dubbia la qualificazione giuridica del servizio di raccolta e conferimento dei rifiuti urbani come servizio pubblico locale a rilevanza economica»30.

5. L’organizzazione del servizio di igiene urbana.

5.1. L’organizzazione per ambiti ai sensi del d.lgs. 152/2006.

L’organizzazione del servizio di igiene urbana è stata disciplinata in modo innovativo dal d.lgs. 152/2006.

In particolare, il decreto ha previsto, ai fini del superamento della frammentazione delle gestioni, che il servizio sia organizzato sulla base di ambiti territoriali ottimali, attribuendo alle Regioni il compito di disciplinare le forme di cooperazione degli enti locali ricadenti nell’ambito e, in particolare, di regolamentare la costituzione delle autorità d’ambito, alle quali sono attribuiti i compiti di organizzazione, affidamento e controllo del servizio di gestione integrata dei rifiuti.

Questa previsione (ispirata al modello organizzativo del servizio idrico integrato già introdotto dalla l. 36/1994) era quindi destinata a trasferire dai singoli Comuni all’autorità d’ambito le competenze in materia di organizzazione e affidamento del servizio.

La riforma dell’organizzazione introdotta dal d.lgs. 152/2006 è peraltro rimasta lungamente inattuata, con la conseguenza che la frammentazione delle gestioni e la disorganicità degli affidamenti hanno continuato a costituire elementi caratterizzanti del servizio di igiene urbana.

5.2. L’organizzazione per ambiti dei servizi a rete ai sensi del d.l. 138/2011.

Un nuovo impulso verso la riorganizzazione del servizio d’igiene urbana è successivamente derivato dall’art. 3bis del d.l. 138/2011, introdotto dal d.l. 1/2012, convertito in l. 27/2012.

Ai sensi di tale articolo, lo svolgimento dei servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica dev’essere organizzato, da parte delle Regioni, in ambiti o bacini territoriali ottimali e omogenei, tali da consentire economie di scala e di differenziazione idonee a massimizzare l’efficienza del servizio.

La norma (evidentemente volta ad incrementare l’efficienza della gestione dei servizi pubblici mediante l’estensione dei relativi bacini territoriali) fissava in origine nel 30 giugno 2012 il termine per la determinazione degli ambiti, prescrivendo che la loro dimensione, di norma, dev’essere non inferiore almeno a quella del territorio provinciale.

Le Regioni, però, possono individuare specifici bacini territoriali di dimensione diversa da quella provinciale, motivando la scelta in base a criteri di differenziazione territoriale e socio-economica e a princìpi di proporzionalità, adeguatezza ed efficienza rispetto alle caratteristiche del servizio, anche su proposta dei comuni (da presentarsi entro il 31 maggio 2012 previa lettera di adesione dei sindaci interessati oppure previa delibera di un organismo associato e già costituito ai sensi dell’art. 30 del d.lgs. 267/2000: vale a dire, attraverso una convenzione fra Enti locali).

Successivamente, il d.l. 150/2013, convertito dalla l. 15/2014, ha disposto (art. 13, comma 2) che la mancata istituzione o designazione dell’ente d’ambito comportano l’esercizio del potere sostitutivo dal parte del Prefetto territorialmente competente, che provvede al completamento della procedura di affidamento entro il 31 dicembre 2014 (con spese a carico dell’ente inadempiente).

Inoltre, ai sensi del comma 3 del medesimo art. 13, il mancato rispetto dei termini stabiliti comporta la cessazione degli affidamenti non conformi ai requisiti previsti dalla normativa europea alla data del 31 dicembre 2014.

L’obbligatorietà della istituzione dell’ente d’ambito (presupposto per l’ottemperanza alle disposizioni del d.lgs. 152/2006, che attribuiscono a questo ente, per l’intero ambito territoriale, i compiti di organizzazione e affidamento del servizio) va poi correlata alle disposizioni che hanno imposto l’esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali per alcune categorie di enti locali.

Infatti, l’art. 14, comma 28, del d.l. 78/2010, (comma sostituito dall’art. 19, comma 1, lett. b), del d.l. 95/2012, convertito dalla l. 135/2012) prevede che i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti, ovvero fino a 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a Comunità montane, esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di Comuni o convenzione, le funzioni fondamentali dei comuni di cui al comma 27, funzioni tra le quali si annovera, alla lett. f), «l’organizzazione e la gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi».

Al fine di attribuire al complesso delle disposizioni sin qui richiamate significati complessivamente coerenti e non disorganici, occorrerà ritenere che gli Enti locali assolvono all’obbligo di esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzioni di affidamento del servizio di igiene urbana attraverso la costituzione dell’ente d’ambito già previsto dall’art. 200 del d.lgs. 152/2006, le funzioni del quale, pertanto, sono destinate ad assorbire le corrispondenti funzioni degli enti locali.

Questa correlazione fra (i) gli obblighi di costituzione dell’ente d’ambito per l’organizzazione del servizio di igiene urbana e (ii) gli obblighi di esercizio associato delle funzioni fondamentali si rinviene anche rispetto ai termini temporali per il relativo adempimento.

L’art. 14, c. 31ter, del d.l. 78/2010, introdotto dall’art. 19, comma 1, lett. e), del d.l. 95/2012 e modificato dall’art. 1, comma 350, della l. 147/2013, prevede infatti che i comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti assicurano l’attuazione delle disposizioni ivi previste (a) entro il 1° gennaio 2013 con riguardo ad almeno tre delle funzioni fondamentali di cui al comma 28, (b) entro il 30 giugno 2014, con riguardo ad ulteriori tre delle funzioni fondamentali di cui al comma 27, (c) entro il 31 dicembre 2014, con riguardo alle restanti funzioni fondamentali di cui al comma 27.

Il termine del 31 dicembre 2014 coincide, quindi, tanto rispetto all’obbligo di esercizio associato delle funzioni, quanto con riferimento all’obbligo di costituzione dell’ente d’ambito per l’organizzazione e l’affidamento del servizio di igiene urbana (poiché, come si è visto, il termine originariamente fissato al 31 dicembre 2013 per il completamento del processo di costituzione degli d’ambito è ora stabilito, per effetto del d.l. 150/2013, al 31 dicembre 2014).

5.3. Su alcune questioni concernenti l’organizzazione del servizio d’igiene urbana nelle more della definizione degli ambiti territoriali.

Il possibile tardivo adeguamento da parte delle Regioni rispetto agli obblighi riassunti in precedenza può generare l’ipotesi in cui i Comuni (inclusi quelli soggetti all’esercizio in forma obbligatoriamente associata delle funzioni fondamentali) intendano procedere all’affidamento congiunto del servizio di igiene urbana ma non siano ancora stati definiti i bacini territoriali a livello regionale.

Sul punto, la (già) Autorità vigilanza contratti pubblici, con il provvedimento Ag 38/13 del 24 luglio 2013, ha apertamente affrontato il quesito concernente la possibilità che, in attesa della definizione degli ambiti territoriali ottimali, le gestioni esistenti possano essere interessate da provvedimenti di proroga.

L’Autorità ha ritenuto «maggiormente conforme alla normativa di riferimento, ed in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale» ritenere che l’assenza dell’individuazione del livello di gestione da parte delle Regioni non possa giustificare il ricorso a proroghe contrattuali al di fuori dei limiti individuati dalla giurisprudenza.

Per conseguenza, nelle more dell’individuazione di bacini territoriali di riferimento da parte delle Regioni, i Comuni dovranno procedere all’espletamento di una procedura ad evidenza pubblica ai fini dell’affidamento del contratto in questione, potendo eventualmente concedere una proroga all’attuale gestore esclusivamente per il tempo strettamente necessario allo svolgimento della procedura di gara e alla stipula del nuovo contratto (ma non per il tempo necessario alla istituzione dei bacini territoriali).

Su analoga questione, la Corte dei Conti, sezione regionale di controllo per la Regione Lombardia, ha ritenuto che nelle more dell’istituzione degli Ato permanga in capo ai Comuni la potestà di gestione del servizi di igiene ambientale31.

Poiché, infatti, le richiamate disposizioni del d.lg. 152/2006 e del d.l. 138/2011 impongono un obbligo di tipo organizzativo alle Regioni, sino a quando non saranno istituiti gli ambiti territoriali ottimali è da ritenersi persistente in capo ai Comuni il potere di gestione del servizi di igiene ambientale.

Queste conclusioni vanno naturalmente integrate con la necessaria costituzione di un soggetto chiamato a esercitare in forma associata le funzioni di gestione e affidamento del servizio ove si tratti di Comuni soggetti a questo obbligo, ai sensi delle richiamate disposizioni del d.l. 78/2010.

Va inoltre considerato che alle tesi, ora richiamate, circa la persistente potestà gestionale del servizio in capo ai Comuni va correlata la previsione, già ricordata, contenuta nell’art. 13, comma 1, del d.l. 150/2013, che espressamente consente la prorogatio delle gestioni esistenti subordinandola, però, al caso in cui (alla data di entrata in vigore del d.l., e dunque al 31 dicembre 2013) l’ente responsabile dell’affidamento abbia già avviato le procedure di affidamento pubblicando la relazione di cui al comma 20 del medesimo articolo.

6. Le più recenti disposizioni in materia di servizio idrico integrato e l’obbligo di corrispondere il valore di rimborso.

In materia di affidamento e di organizzazione del Sii, il citato d.l. 133/2014 ha inoltre introdotto una significativa serie di obblighi a capo degli Enti d’Ambito, assegnando termini perentori il mancato rispetto dei quali determina l’esercizio di poteri sostitutivi.

Per esempio:

– qualora gli enti locali (che ancora non vi abbiano provveduto) non aderiscano agli Enti d’ambito entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto, e dunque entro l’11 novembre 2014, vi provvederà il Presidente della Regione (e, in mancanza, un commissario ad acta);

– l’affidamento del Sii deve avvenire, da parte dell’Ente d’ambito, entro i sei mesi antecedenti la data di scadenza dell’affidamento previgente.

Alcune di queste norme determinano rilevanti effetti in ordine alla cessazione anticipata degli affidamenti non conformi alla disciplina vigente al momento in cui sono stati disposti: per esempio, ai sensi del nuovo comma 1 dell’art. 172, d.lgs. 152/2006, gli Enti d’ambito che non abbiano ancora provveduto alla redazione del piano d’ambito o non abbiano ancora scelto la forma di gestione e avviato le procedure di affidamento debbono adottare i relativi provvedimenti entro un anno dall’entrata in vigore del decreto (e dunque entro il 12 settembre 2015), disponendo l’affidamento del servizio al gestore unico con conseguente decadenza degli affidamenti non conformi alla disciplina pro tempore vigente.

6.1. Il rafforzamento del principio di unicità della gestione.

Numerose disposizioni del d.l. 133/2014 sono destinate a rafforzare la portata precettiva del cosiddetto “principio di unicità della gestione”, che impone l’esistenza di un unico gestore del Sii per ogni ambito territoriale ottimale (superando definitivamente la frammentazione che ancora caratterizza numerosi ambiti).

A questo fine, il nuovo art. 172 del d.lgs. 152/2006 dispone che:

(a) l’Ente d’ambito disponga l’affidamento al gestore unico di ambito alla scadenza di una o più gestioni esistenti nell’ambito territoriale il cui bacino complessivo affidato sia almeno pari al 25 per cento della popolazione ricadente nell’ambito territoriale ottimale di riferimento, con la conseguenza che il gestore unico così individuato subentra agli ulteriori soggetti che gestiscano il servizio in base ad un affidamento assentito in conformità alla normativa pro tempore vigente e non dichiarato cessato ex lege alla data di scadenza prevista nel contratto di servizio o negli altri atti che regolano il rapporto;

(b) l’Ente d’ambito, alla scadenza delle gestioni esistenti nell’ambito territoriale i cui bacini affidati siano complessivamente inferiori al 25 per cento della popolazione ricadente nell’ambito territoriale ottimale di riferimento, dispone l’affidamento del relativo servizio per una durata in ogni caso non superiore a quella necessaria al raggiungimento di detta soglia, oppure per una durata non superiore alla durata residua delle gestioni esistenti la cui scadenza sia cronologicamente antecedente alle altre e il cui bacino affidato, sommato a quello delle gestioni oggetto di affidamento, sia almeno pari al 25 per cento della popolazione ricadente nell’ambito territoriale ottimale di riferimento.

Anche relativamente a questi obblighi viene previsto, in caso di inottemperanza da parte dell’Ente d’ambito, l’esercizio dei poteri sostitutivi da parte del Presidente della Regione (o, in mancanza, di un commissario ad acta).

6.2. I nuovi contenuti delle convenzioni tipo dell’Aeegsi.

Significative novità riguardano anche il contenuto delle convenzioni tipo adottate dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico, sulla base delle quali sono predisposte le convenzioni destinate a regolare il rapporto fra l’Ente d’ambito e il gestore del Sii.

Ai sensi del comma 2 dell’art. 151, d.lgs. 152/2006, le convenzioni tipo devono prevedere, fra l’altro, (i) la durata dell’affidamento, non superiore a trenta anni, (ii) gli strumenti per assicurare il mantenimento dell’equilibrio economico-finanziario della gestione e, soprattutto, (iii) la disciplina delle conseguenze derivanti dalla cessazione anticipata dell’affidamento e i criteri e le modalità per la valutazione del valore residuo degli investimenti realizzati dal gestore uscente.

L’attribuzione alle convenzioni tipo del compito di disciplinare la determinazione del valore residuo degli investimenti costituisce una novità di grande rilievo, che interviene sul delicato (e controverso) tema del c.d. “terminal value payment”.

L’Aeegsi aveva già avviato un percorso volto a definire il valore residuo degli investimenti32, giungendo a stabilire la formula per la valorizzazione del valore residuo con la deliberazione 27 dicembre 2013 (643/2013/R/ idr): tuttavia, il nuovo art. 151, c. 2, attribuendo alla convenzione tipo la determinazione dei criteri per definire il valore residuo, rende questi criteri fonti di un’obbligazione contrattuale (per il gestore e per l’Ente d’ambito), anziché semplici prescrizioni amministrative.

Peraltro, la determinazione puntuale del valore di residuo non esaurisce ancora la problematica del “terminal value payment”, dal momento che stabilire convenzionalmente tale valore non comporta di per sé (anche se lo presuppone) l’obbligo del pagamento da parte del gestore subentrante (il quale, com’è ovvio, non è assoggettato alla convenzione fra Ente d’Ambito e gestore uscente).

A questo fine è molto rilevante la nuova previsione introdotta dal d.l. 133/2014 all’art. 152, comma 2, del d.lgs. 152/2006, che espressamente sancisce l’obbligo del gestore entrante di corrispondere il valore di rimborso.

6.3. L’obbligo del gestore subentrante di corrispondere il valore di rimborso.

L’art. 152, comma 2, del d.lgs. 152/2006, come modificato dal d.l. 133/2014, stabilisce ora in modo esplicito che «il gestore è tenuto a subentrare nelle garanzie e nelle obbligazioni relative ai contratti di finanziamento in essere o ad estinguerli, ed a corrispondere al gestore uscente un valore di rimborso definito secondo i criteri stabiliti dall’Autorità per l’energia elettrica, il gas e il sistema idrico».

La norma supera la questione interpretativa, sorta dopo l’abrogazione referendaria dell’art. 23bis, circa la persistente applicabilità dell’art. 10, d.P.R. 168/2010 (che parimenti sanciva l’obbligo per il gestore entrante di corrispondere il valore residuo), ritenuto, da alcuni, inapplicabile in quanto disposizione attuativa dell’abrogato art. 23bis e, invece, più correttamente da ritenersi applicabile anche dopo l’abrogazione di quest’ultimo in quanto norma in delegificazione33.

La determinazione del valore di rimborso è coerentemente rimessa, dall’art. 152, comma 2, ai criteri stabiliti dall’Aeegsi (sebbene sarebbe stato auspicabile un miglior coordinamento con l’art. 151, comma 2, nel senso di identificare tali criteri con quelli contenuti nelle convenzioni tipo)34.

7. Le vicende dell’alternativa qualificazione giuridica del servizio di teleriscaldamento.

L’art. 2, comma 1, lett. g), del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, stabilisce – com’è noto – che per teleriscaldamento o teleraffrescamento s’intende la «distribuzione di energia termica in forma di vapore, acqua calda o liquidi refrigeranti, da una o più fonti di produzione verso una pluralità di edifici o siti tramite una rete, per il riscaldamento o raffrescamento di spazi, per processi di lavorazione e per la fornitura di acqua calda sanitaria».

Questa definizione non consente, di per sé, di risolvere il discusso problema della qualificazione del teleriscaldamento come servizio pubblico locale o come attività di libero mercato.

La differenza è naturalmente rilevante: aderendo alla tesi che qualifica il teleriscaldamento come servizio pubblico locale, l’ente locale territorialmente competente dovrebbe procedere all’affidamento del servizio secondo una delle modalità previste dall’ordinamento vigente (ossia, come si è visto nel precedente paragrafo 2., una delle modalità consentite dalla normativa dell’Unione europea; nel caso, invece, di configurazione del servizio quale attività di libero mercato, l’ente locale potrebbe unicamente autorizzare (o no) lo svolgimento del servizio in questione a seguito di semplice richiesta formulata da operatori interessati alla prestazione delle citate attività energetiche.

Rispetto a questa alternativa qualificazione, secondo un orientamento non isolato, le caratteristiche del teleriscaldamento non includerebbero gli elementi che identificano un servizio pubblico locale, e ciò in quanto si tratta di una attività «risulta eseguita secondo logiche di impresa di carattere industriale e commerciale, in regime di concorrenza e non finalizzata al soddisfacimento di interessi generali, non potendo l’attività svolta considerarsi come alimentazione di una rete fissa pubblica, posto che non sussiste alcun obbligo di allaccio o di fornitura»35.

Si è tuttavia formato, sino a divenire apparentemente maggioritario, un orientamento opposto, secondo il quale, poiché il teleriscaldamento può essere destinato a una platea indifferenziata di utenti, ed è volto a soddisfare un bisogno collettivo, esso va considerato servizio d’interesse generale ed è quindi da ascrivere al novero dei servizi pubblici locali36.

Più di recente, però, la giurisprudenza ha ritenuto che il teleriscaldamento non possa essere ricondotto all’una o all’altra categoria unicamente in base alle caratteristiche peculiari dell’attività, ma che la sua qualificazione giuridica dipenda dall’impostazione in concreto adottata, ai fini della sua organizzazione, dall’Amministrazione pubblica, nell’esercizio della propria discrezionalità.

Richiamandosi alla concezione oggettiva del servizio pubblico37, la giurisprudenza ha infatti ritenuto (assumendo che tale concezione sia quella oggi prevalente nel diritto positivo e in quello vivente) che consegue da essa il principio secondo cui «il soddisfacimento dell’interesse pubblico può essere assicurato anche solamente da privati, senza che l’Ente pubblico assuma ruoli di prestazione diretta, conservando semplicemente poteri di regolazione delle attività private svolte ed esercitate in concorrenza tra loro.»38.

Questo principio (desumibile anche dall’ordinamento dell’Unione europea)39 conduce a ritenere che, per la configurabilità di un servizio pubblico locale, occorre che il medesimo abbia una sua soggettiva ed oggettiva qualificazione, «la quale deve garantire la realizzazione di prevalenti fini sociali, oltre che la promozione dello sviluppo economico e civile delle relative comunità»40.

Non è perciò qualificabile come servizio pubblico locale un’attività alla quale non corrisponda una specifica pretesa degli utenti (come nel caso di un’opera pubblica o per i servizi resi all’amministrazione in senso soggettivo), ma nemmeno – aggiunge questo orientamento giurisprudenziale – «l’attività avente rilevanza economica per la quale manchi una effettiva ed inequivoca manifestazione di volontà dell’amministrazione locale interessata di assumerla (e/o quanto meno di considerarla) come tale»41.

Ai fini della configurabilità del teleriscaldamento come servizio pubblico locale o come attività di libero mercato rileva soltanto, dunque, la scelta politico-amministrativa dell’ente locale di prendere in carico il servizio, al fine di soddisfare in modo continuativo obiettive esigenze della comunità.

Si possono rinvenire alcune similitudini fra questa tesi e la posizione assunta dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato all’esito dell’indagine conoscitiva che ha svolto sul settore del teleriscaldamento42.

L’Autorità ha infatti rilevato che, storicamente, l’affidamento del servizio è avvenuto in un contesto di inclusione “di fatto” di tale servizio tra i “servizi pubblici locali”, osservando come le caratteristiche oggettive dell’attività di teleriscaldamento non si prestano a sottoporla automaticamente al regime tipico del servizio pubblico locale, e che diviene fondamentale a tali fini la concreta verificazione del contesto territoriale in cui tale servizio deve essere effettuato.

Secondo questa tesi (e, in particolare, seguendo l’enfatizzazione che ne dà il più recente richiamato orientamento giurisprudenziale), la normativa vigente non determina di per sé la qualificazione giuridica del teleriscaldamento quale servizio pubblico locale, con la conseguenza che l’attività di teleriscaldamento non è “a priori” configurabile giuridicamente come tale.

Diventa un servizio pubblico locale allorché, sussistendo caratteristiche del mercato territoriale di riferimento che, per strutturali limitazioni alla concorrenza ex ante, rischino di determinare un’offerta di carattere non universale e discriminatorio, l’ente locale deliberi di prendere in carico il servizio di teleriscaldamento.

Pertanto, ove questo orientamento si affermi come maggioritario43 (e si ritenga quindi preclusa una configurazione oggettiva e in astratto del servizio), il teleriscaldamento sarà da considerare servizio pubblico locale (e perciò soggetto alle regole di affidamento applicabili a tale settore) soltanto quanto l’ente competente avrà adottato un provvedimento espresso nel quale dichiari di voler assumere, “comunque considerare, quale scelta strategica di natura amministrativa44, l’attività di teleriscaldamento svolta nel suo ambito territoriale di riferimento alla stregua di un servizio pubblico locale.

1. Professore aggregato di Istituzioni di Diritto pubblico dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”.
2. Questo scritto è stato consegnato alla redazione il 12 ottobre 2014, e dunque non tiene conto delle eventuali modifiche apportate al d.l. 133/2014 nell’ambito del procedimento di conversione in legge.
3. Cfr. in particolare il dm 18 ottobre 2011, recante la “Determinazione dei Comuni appartenenti a ciascun ambito territoriale del settore della distribuzione del gas naturale”, poi modificato dal Comunicato pubblicato in gu n. 303 del 30 dicembre 2011 e dal Comunicato pubblicato in gu n. 282 del 3 dicembre 2012) e il dm 12 novembre 2011, n. 226, che ha introdotto il Regolamento per i criteri di gara e per la valutazione dell’offerta per l’affidamento del servizio della distribuzione del gas naturale. Successivamente, inoltre, il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, conv. in l. 9 agosto 2013, n. 98, ha reso vincolanti i termini stabiliti dal suddetto Regolamento per lo svolgimento delle gare, prevedendo penalizzazioni in caso di mancato rispetto di tali termini e, in caso di inerzia (nonché in mancanza dell’esercizio del potere sostitutivo da parte della Regione), il potere sostitutivo del ministero dello Sviluppo economico.
4. In realtà, dopo che il dm 19 gennaio 2011 ha provveduto alla determinazione degli ambiti territoriali, le principali questioni problematiche si sono concentrate sulla determinazione del valore di rimborso, tema sul quale si sono succeduti (i) l’art. 24 del d.lgs. 1° giugno 2011, n. 93, (modificativo dell’art. 14 del d.lgs. 23 maggio 2000, n. 164 sul valore di rimborso a regime) che ha previsto, nel primo periodo, il riconoscimento in tariffa dell’ammortamento della differenza fra il valore di rimborso degli impianti pagato dal gestore subentrante al gestore uscente e l’analogo valore calcolato secondo la regolazione tariffaria); (ii) il d.l. 23 dicembre 2013, n. 145 convertito con modificazioni, dalla l. 21 febbraio 2014, n. 9, che ha previsto che nella determinazione del valore di rimborso al gestore uscente nel primo periodo siano detratti sempre anche i contributi privati e che per gli aspetti in cui gli atti concessori non prevedano una propria metodologia si debba fare riferimento alle linee guida predisposte da MISE, ai sensi dell’articolo 4, comma 6, del dl 69/2013. Da ultimo, il dm 22 maggio 2014 ha approvato il documento Mise “Linee guida su criteri e modalità applicative per la valutazione del valore di rimborso degli impianti di distribuzione del gas naturale” del 7 aprile 2014, e, successivamente, il d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 agosto 2014, n. 116, ha previsto che nella determinazione del valore di rimborso al gestore uscente nel primo periodo si segua la metodologia specificata nei contratti solo se stipulati prima dell’11 febbraio 2012, data di entrata in vigore del citato dm 11 novembre, 2011 n. 226, dovendosi altrimenti fare riferimento alle linee guida predisposte da Mise (approvate con il citato dm 22 maggio 2014).
5.Il più risalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, secondo il quale servizio di pubblica illuminazione è reso in favore della Pubblica amministrazione e quindi non risponde alla nozione di pubblico servizio (cfr. per esempio CdS, sez. V, 23 agosto 2004, n. 5572; Tar Campania, sez. I, 29 novembre 2001, n. 5111) può ritenersi oggi superato dalla tesi che, individuando il soggetto beneficiario nella comunità locale, e ritenendo questo profilo dirimente rispetto alle modalità di remunerazione del servizio, qualifica l’attività di illuminazione pubblica come servizio pubblico locale. (cfr., ex multis, Tar Lombardia, Brescia, Sez. II, 27 maggio 2010, n. 2165; Tar Sardegna, Cagliari, Sez. I, 11 giugno 2009, n. 966). Sul punto, la (già) Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici aveva affermato che il servizio di pubblica illuminazione è «per sua stessa natura, rivolto a fini sociali e destinato a soddisfare direttamente e in via immediata esigenze generali della collettività. Come tale, ha, quindi, natura di servizio pubblico locale». (cfr. Avcp, parere 5 novembre 2009, n. 128), qualificazione confermata dal parere secondo cui «non rilevante ai fini della corretta qualificazione del contratto come concessione o appalto è la natura di servizio pubblico locale della pubblica illuminazione, generalmente accolta dalla giurisprudenza amministrativa. Il fatto che una determinata attività sia storicamente un servizio pubblico locale o come tale venga assunta dal legislatore o dagli enti locali su base di scelte eminentemente politiche, non può mettere in dubbio che le procedure ad evidenza pubblica siano quelle imposte dal legislatore comunitario e nazionale in relazione alla tipologia di contratto che si è in concreto inteso affidare» (cfr. Avcp, parere 20 giugno 2012, n. 5). Successivamente, la medesima Autorità ha qualificato il servizio di illuminazione delle strade comunali come servizio pubblico locale, trattandosi di attività caratterizzata «sul piano oggettivo dal perseguimento di scopi sociali e di sviluppo della società civile, selezionata in base a scelte di carattere eminentemente politico quanto alla destinazione delle risorse economicamente disponibili ed all’ambito di intervento e su quello soggettivo dalla riconduzione diretta o indiretta ad una figura soggettiva di rilievo pubblico» (cfr. Avcp, deliberazione 19 dicembre 2012, n. 110).
6.In argomento, la bibliografia è molto vasta. Fra i contributi maggiormente significativi, si segnalano: R. Cavallo Perin, Le regole dell’organizzazione e della gestione, in L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, a cura di H. Bonura e M. Cassano, Torino, 2011; R. Villata (a cura di), La riforma dei servizi pubblici locali, Torino, 2011 C.E. Gallo, Disciplina e gestione dei servizi pubblici economici: il quadro comunitario e nazionale nella più recente giurisprudenza, in Diritto amministrativo, 2005; L.R. Perfetti, I servizi pubblici locali. La riforma del settore operata dall’art. 35 della L. 448/2001 ed i possibili profili evolutivi, in Diritto amministrativo, 2002.
7. Corte costituzionale, 26 gennaio 2011, n. 4; successivamente, 20 luglio 2012, n. 199.
8. Sulle conseguenze linguistiche della variante v. le riflessioni di G.U. Rescigno, Prefazione a Corso di Diritto pubblico, Bologna, 2012.
9. In argomento, J. Luhter, Riconoscimento di forza normativa ad atti non prodotti da poteri-fonte (la soft law), in M. Dogliani (a cura di), Il libro delle leggi strapazzato e la sua manutenzione, Torino, 2012; R. Bin, Soft law, no law, in A. Somma (a cura di), Soft law e hard law nelle società postmoderne, Torino, 2009; A. Poggi, Soft law nell’ordinamento comunitario, in Aa.Vv., L’integrazione dei sistemi costituzionali europeo e nazionali, Padova, 2007.
10. In via generale, il Tfue si occupa del tema della concorrenza al Titolo VII art. 101 – 109 e della disciplina del mercato unico rispettivamente negli artt. 14, 26 e 27 mercato interno, 28 e 29 libera circolazione delle merci, 45 – 66 – Titolo IV libera circolazione di persone, servizi e capitali, 114 , 115 e 118 riavvicinamento delle legislazioni).
11. Il “diritto vivente” richiamato nel testo riconduce tale modalità alle disposizioni in materia di Partenariato pubblico-privato e al punto 2.2 e nota 18 della Comunicazione interpretativa della Commissione delle Comunità europee 5/2/2008 n. C 2007 6661 sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati, nonché alla Risoluzione del Parlamento europeo del 18 Maggio 2010 sui nuovi sviluppi in materia di appalti pubblici (2009/2175(INI)), e alla sentenza Corte di Giustizia Ue 15.10.2009 C-196/08.
12.Requisiti individuati dalla storica sentenza della Corte di Giustizia Ue, sentenza 18 novembre 1999, in causa C-107/98, cosiddetto Teckal.
13.Cfr., per esempio, Corte di Giustizia Ue, sentenza 23 dicembre 2009, causa C-305/08. In argomento, il quarto “considerando” della Direttiva 2004/18/Ue impone agli Stati membri di provvedere affinché una distorsione di questo tipo non si produca in considerazione proprio della partecipazione di un organismo di diritto pubblico ad un appalto pubblico (cfr. punto 32).
14.CdS, sez. II, parere 18 aprile 2007, n. 457; Adunanza plenaria, 3 marzo 2008, n. 1; sez. V, 16 marzo 2009, n. 1555; 25 agosto 2008, n. 4080.
15.CdS, sez. V, 25 agosto 2008, n. 4080; 3 settembre 2001, n. 4586.
16.Tema su cui v. : M. Cammelli – M. Dugato (a cura di), Studi in tema di società a partecipazione pubblica, Torino, 2008; G. Bottino, Le amministrazioni pubbliche e la costituzione, o la partecipazione, di società a capitale pubblico: la legittimità costituzionale dei limiti previsti nell’odierna legislazione statale, in Giurisprudenza costituzionale, 2009; M. Dugato, La concorrenza e la extraterritorialità nell‟azione delle società a partecipazione pubblica locale, in Giornale di diritto amministrativo, 2005.
17.Corte di Giustizia Ue, Grande sezione, 16 dicembre 2008, in causa C-213-07, Michaniki.
18.Sul tema, vedi soprattutto D. Casalini, La scelta tra mercato e auto-produzione di beni e servizi, in Foro amministrativo – CdS., 2008, 1158; Id., L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003; R. Cavallo Perin – D. Casalini, The control over in-house providing organizations, in Public Procurement Law Review, n. 5/2009.
19. Cfr., per esempio, la già citata Corte di Giustizia Ue, sentenza 23 dicembre 2009, causa C-305/08.
20.Corte di Giustizia Ue, sez. V, 19 giugno 2014, C-574/12.
21.Vedi sul punto CdS, Adunanza plenaria, 3 marzo 2008, n. 1.
22.Cfr. CdS, sez. V, 23 ottobre 2007, n. 1514.
23.Cfr. CdS, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5.
24.Cfr. Corte dei Conti, Sezioni riunite, 21 gennaio 2014, n. 2; sezione controllo Piemonte, 31 gennaio 2014, n. 21.
25.Cfr. Tar Lombardia – Milano, sez. II, 26 marzo 2014, n. 779; sez. II, 26 marzo 2014, n. 780.
26.Vedi, ex multis, CdS, sez. VI, 22 novembre 2013, n. 5532.
27.CdS, sez. V, 25 novembre 2010, n. 8232; in precedenza, 16 dicembre 2004, n. 8090; Tar Catania, sez. II, 12 marzo 2007, n. 461.
28.Vedi, in tal senso, CdS, Adunanza plenaria, 30 gennaio 2014, n. 7; 7 maggio 2013, n. 13; sez. VI, 13 settembre 2012, n. 4870.
29.Indici delineati, nel corso del tempo, dalle fonti europee e nazionale (cfr. Comunicazioni interpretative della Commissione europea 5 febbraio 2008 e 12 aprile 2000; Direttive 2004/18 e 2004/17; artt. 3, c. 12, e art. 30, d.lgs. 163/2006; artt. 112 e 113 d.lgs. 267/2000; circolari della Presidenza Consiglio dei ministri. nn. 3944 del 1 marzo 2002 e 8756 del 6 giugno 2002), nonché dai principi elaborati dalla giurisprudenza europea e nazionale (cfr., ex multis e in aggiunta alla giurisprudenza citata nel testo, Cgce 15 ottobre 2009, C-196/08; 13 settembre 2007, C-260/04; Corte costituzionale, 7 giugno 2013, n. 134; 12 aprile 2013, n. 67; 20 luglio 2012, n. 199; 17 novembre 2010, n. 325; Cassazione civile, Sezioni unite, 15 giugno 2009, n. 13892; 22 agosto 2007, n. 17829; CdS, Adunanza plenaria, 3 marzo 2008, n. 1).
30. CdS, sez. V, 14 febbraio 2013, n. 911; 13 dicembre 2005, n. 7058.
31. Corte dei Conti, sezione controllo Lombardia, il parere 17 gennaio 2014, n. 20; cfr. anche identico, parere 6 marzo 2013, n. 71.
32. Cfr. deliberazione 12 marzo 2013, 110/2013/R/idr; deliberazione 26 settembre 2013, 412/2013/idr.
33. In argomento, si rinvia a L. Geninatti Satè, Abrogazione differita: regolamenti in delegificazione che individuano leggi abrogate, in M. Dogliani (a cura di), Il libro delle leggi strapazzato e la sua manutenzione, cit.
34. Coordinamento che potrebbe utilmente essere introdotto in sede di conversione in legge del d.l. 133/2014 (cfr. supra, nt. n. 1).
35. Cds, sez.V, 28 dicembre 2007, n. 6690.
36. Tesi già affermata, in Piemonte, dalla giurisprudenza amministrativa: cfr. Tar Piemonte, sez. II, 27 luglio 2001, n. 1645; più recentemente, in termini, CdS, sez. V, 2 maggio 2013, n. 2396.
37. Per la ricostruzione delle teorie v. maxime L.R. Perfetti, Contributo ad una teoria dei pubblici servizi, Padova,2001.
38. Tar Lombardia, sez. I, 9 maggio 2014, n. 1217.
39. Sulla base delle interpretazioni elaborate sul tema dalla giurisprudenza dell’Unione europea (cfr. Corte di giustizia Ue, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione contro Italia) e dalla Commissione europea (cfr. le comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; Libro verde sui servizi d’interesse generale del 21 maggio 2003), la giurisprudenza desume che la nozione unionista di servizio di interesse economico generale e quella interna di servizio pubblico locale di rilevanza economica, hanno «contenuto omologo» (cfr. Corte costituzionale, 17 novembre 2010, n. 325). Le nozioni, infatti, fanno riferimento a un servizio che è reso mediante attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa quale attività di offerta di beni e servizi sul mercato, e fornisce prestazioni considerate necessarie, dirette cioè a realizzare fini sociali, nei confronti di una generalità indifferenziata di soggetti.
40. Tar Lombardia, sentenza n. 1217/2014, cit.
41. Ibidem.
42. Agcm, Provvedimento 21 dicembre 2011, n. 23184, pubblicato sul Bollettino n. 52/2011 del 16 gennaio 2012.
43. È infatti attesa per il mese di novembre 2014 la pronuncia delle Sezioni unite della Corte di Cassazione sulla questione di giurisdizione concernente il teleriscaldamento.
44. Tar Lombardia, sentenza n. 1217/2014, cit.