Rassegna febbraio – maggio 2020
OSSERVATORIO T.A.R. PIEMONTE E VALLE D’AOSTA
T.A.R. PIEMONTE
AMBIENTE & PAESAGGIO
L’APPOSIZIONE DEL VINCOLO CULTURALE PRESCINDE DALL’AUTENTICAZIONE DELL’OPERA ED
È GIUSTIFICATA DA ULTERIORI PROFILI DI VALUTAZIONE
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 979/2016 – sent del 12 febbraio-3 marzo 2020, 155
Pres. Salamone, Est. Perilli
[Omissis v. Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo e v. Commissione regionale per il patrimonio culturale per il Piemonte; Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Torino e Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la Città metropolitana di Milano]
Il regime della circolazione delle opere di interesse storico artistico è subordinato al rilascio di un’apposita attestazione da parte del territoriale Ufficio esportazione ai sensi dell’art. 68 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. La vicenda da cui trae origine il ricorso ha inizio a partire dal diniego opposto a tale rilascio in virtù del notevole interesse storico artistico per il patrimonio nazionale rivestito da un dipinto ad olio su tela raffigurante la Crocifissione, attribuito ad Andrea de’ Passeris (attivo tra il XV e il XVI secolo) acquistata dal ricorrente presso un Casa d’aste di Torino con la volontà di collocare la stessa presso una pinacoteca situata in Svizzera. Ai sensi del comma 4 dell’art. 68 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.lgs. n.42/2004), nella valutazione circa il rilascio o il rifiuto dell’attestato di libera circolazione gli uffici di esportazione «accertano se le cose presentate, in relazione alla loro natura o al contesto storico-culturale di cui fanno parte, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, bibliografico, documentale o archivistico» tali da poter rientrare nella nozione di bene culturale di cui all’art. 10 del Codice. In caso di diniego, è previsto che con esso prenda avvio il procedimento per la dichiarazione dell’interesse culturale (art. 14 del Codice). L’interesse culturale dell’opera, già prefigurato dalla relazione dell’Ufficio esportazione (che richiamava il parere espresso dalla Soprintendenza belle arti di Milano), è ribadito da ulteriori documenti di carattere tecnico (quali il decreto – successivamente annullato in autotutela – n. 439 del 25 novembre 2015 con cui la Commissione regionale per il patrimonio culturale per il Piemonte ha dichiarato il bene di interesse culturale particolarmente importante e rispetto al quale era stato, così come per il diniego di rilascio dell’attestato di libera circolazione del bene, proposto ricorso gerarchico successivamente respinto), e il successivo decreto n. 221 del 4 luglio 2016, con cui – sulla scorta delle note della Soprintendenza belle arti e paesaggio per il Comune e la Provincia di Torino la Commissione regionale dichiarava il bene in oggetto di interesse storico-artistico particolarmente importante. Contro tale atto (nonché quelli presupposti allegati e richiamati) è proposto ricorso, sulla base di due motivi: il primo, riguardante la violazione dell’articolo 10-bis della legge n. 241 del 1990 (difetto di motivazione sul mancato accoglimento delle osservazioni procedimentali); il secondo, attraverso cui con il quale veniva eccepito il vizio di difetto di istruttoria (con riferimento all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante del bene).
Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso, il TAR rileva come nelle ipotesi (come quella in oggetto) in cui viene in considerazione la discrezionalità tecnico-valutativa, debbano tenersi distinti gli elementi di natura valutativa da quelli di natura fattuale, potendo i primi essere sostituiti dalla semplice riaffermazione, da parte dell’amministrazione, della valutazione iniziale ove adeguatamente sostenuta da relazioni storico-artistiche e pareri tecnici di riconosciuta autorevolezza. L’onere motivazionale in questo caso risulta dunque assolto «dalla sintetica giustificazione delle ragioni che hanno condotto all’apposizione del vincolo culturale, desunte dagli elementi descrittivi e valutativi acquisiti nell’istruttoria procedimentale», non essendo dunque, anche in relazione ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, necessario confutare punto per punto le diverse valutazioni effettuate dall’interessato al riguardo.
Il secondo motivo del ricorso, con cui viene eccepito il difetto di istruttoria si basa, a giudizio del TAR, su di un non congruo rinvio ai criteri di valutazione atti a formulare il giudizio di interesse culturale contenuti nella c.d. Circolare Argan (circolare del Ministero della pubblica istruzione del 13 maggio 1974, ora sostanzialmente trasfusa decreto del MiBACT del 6 dicembre 2017, n. 537). Si tratta di criteri il cui utilizzo è funzionale ad assolvere l’onere motivazionale, ma che tuttavia non vincolano l’amministrazione nell’accertamento delle caratteristiche del bene, anche in relazione all’ampio potere discrezionale ad essa attribuito dall’art. 13 del Codice dei beni culturali e del paesaggio con riferimento alla dichiarazione dell’interesse culturale. In sostanza, ciò che è richiesto all’amministrazione è di non agire con manifesta illogicità nella apposizione del vincolo, corredando tale determinazione delle valutazioni sulla qualità del bene tali da giustificare la compressione della proprietà privata imposta al proprietario del bene ai fini della salvaguardia dell’interesse collettivo superiore rappresentato dall’identità culturale nazionale. Significativa è l’analisi dei profili valutativi individuati dal Collegio come idonei a determinare la correttezza della scelta dell’apposizione del vincolo, che costituiscono una sintesi di quelli contenuti nella Circolare Argan e nei successivi indirizzi di carattere generale per la valutazione del rilascio o del rifiuto dell’attestato di libera circolazione di cui al decreto del MiBACT n. 537 del 2017. Essi attengono: a) all’attribuzione della paternità dell’opera; b) al valore documentario dell’opera; c) alla sua rarità; d) all’importanza della provenienza. Rispetto ad essi, di particolare interesse sono le argomentazioni svolte dal TAR con riferimento al profilo dell’attribuzione della paternità dell’opera: il Collegio infatti osserva che, ai fini dell’accertamento dell’interesse culturale particolarmente importante di un dipinto non è necessario addivenire alla sua piena autenticazione, ma risulta sufficiente che l’originalità dello stesso sia individuabile sulla scorta della «competenza iconografica degli esperti di settore» che possano formulare un’ipotesi di attribuzione. Risulta dunque una chiara scissione tra autenticazione dell’opera e interesse artistico rivestito dalla stessa, potendo quest’ultimo essere integrato dalla non controversa collocazione di quest’ultima «in un periodo storico connotato da una particolare importanza».
Anche il cattivo stato di conservazione dell’opera non costituisce un elemento per determinarne una svalutazione sotto il profilo dell’interesse culturale, così come lo scarso prestigio complessivo della collezione all’interno della quale fosse collocato il dipinto prima del suo acquisto, non integrando queste ultime circostanze fattuali in grado di per sé idonee a mettere in dubbio le valutazioni operate dalla Soprintendenza. Il caso in esame illustra con evidenza il carattere “relazionale” del concetto di interesse culturale e della relativa istruttoria, la quale appare soddisfatta non tanto in relazione a possibili valutazioni di tipo “antiquario” (relative ad autenticità ed originalità dell’opera) quanto piuttosto con riferimento al corretto accertamento, sotto il profilo tecnico, dell’interesse rivestito dall’opera «in relazione al patrimonio culturale nazionale, desumendolo dalla sua rarità e dalla sua significatività» sia con riferimento «ai valori identitari» di un determinato periodo della storia culturale italiana, sia in relazione al grado di «rappresentatività» del suo autore all’interno di una determinata scuola.
[L. Conte]
GIUDIZIO SUL PERMESSO DI COSTRUIRE PER AREA GRAVATA DA VINCOLO PAESAGGISTICO: IL RAPPORTO FRA INEDIFICABILITÀ E PRESCRIZIONI DELLO STRUMENTO URBANISTICO E IPOTESI DI ECCESSO DI POTERE NELL’AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 346/2019 – sent. 11 febbraio 2020, 124
Pres. Testori, Est. Limongelli
[I.T e G.F. c. Comune di Cannero Riviera]
La controversia ha ad oggetto un permesso di costruire, che i ricorrenti, due privati cittadini proprietari di una villetta a due piani con giardino, hanno impugnato e che aveva richiesto un soggetto terzo, altra cittadina, per la realizzazione di un nuovo accesso carraio e di una piazzola di sosta sul terreno di sua proprietà (tale provvedimento aveva già fatto seguito ad uno analogo, oggetto di ricorso ma poi decaduto ex lege con annessa improcedibilità dinanzi al giudice amministrativo).
Il provvedimento amministrativo richiama una serie di atti presupposti e, a tale proposito, si precisa che l’edificio residenziale di proprietà dei ricorrenti confina proprio con il terreno della controinteressata, occupato, al momento della controversia, da un ammasso roccioso ricoperto di alberi e vegetazione arbustiva.
La zona interessata dai lavori oggetto di permesso di costruire si inserisce, all’interno del PRGC fra quelle definite “Fasce di versante potenzialmente soggette a dinamica gravitativa” (art. 4.3.4. NTA) ed è gravato da vincolo paesaggistico.
Strettamente connesso al terreno di proprietà della controinteressata ve ne è un altro, di proprietà della madre della stessa, sulla quale essa intende realizzare un intervento residenziale, preliminarmente dotando il lotto intercluso di un accesso alla pubblica via.
Al fine di intervenire su tale secondo lotto la ricorrente intende realizzare anche un nuovo percorso pedonale lastricato e un muro di sostegno (si noti che è stato affermato che non può essere definito come una costruzione, per tutti Cass. Civ., sez. II, 11 gennaio 1992, n. 243), che i ricorrenti hanno contestato, in ordine alle misure per lo sbancamento della parte rocciosa e, comunque, per opporsi alla realizzazione dei lavori.
Tutti e cinque i motivi di ricorso addotti dai ricorrenti sono da considerare infondati.
Tra il resto, in particolare, il TAR si sofferma ad esaminare la questione relativa alla differenza fra le opere di viabilità pubblica e privata (ex art. 4.3.5. NTA del PRGC). La norma del piano non distingue fra le due categorie di opere, ma ne ammette la realizzazione ad una triplice condizione: che essere possano collegare la viabilità pubblica alle zone residenziali, che non siano altrimenti localizzabili e che, infine, siano concesse sulla base di accertamenti rigorosi (geotecnici, geologici, idrogeologici e idraulici), previa adozione di accorgimenti tecnici per il rischio geomorfologico. Tutte e tre le condizioni sono rispettate nel caso di specie.
La sopracitata norma delle NTA (art. 4.3.5.) non è inoltre illegittima per contrasto con l’art. 13, c. 7, lett. b) della L.R. 56/1977 del Piemonte, la quale dichiara inedificabili tutte le aree che, per incolumità pubblica, presentano caratteristiche negative dei terreni o incombenti potenziali pericoli. Ciò sancirebbe, a parere dei ricorrenti, un vincolo assoluto di inedificabilità.
La norma regionale a carattere generale potrebbe, però, trovare attuazione soltanto in sede di redazione del puntuale strumento urbanistico comunale, cosa che nel caso di specie non accade previo espletamento dei rigorosi accertamenti istruttori.
Posta poi la piena titolarità della controinteressata a chiedere permesso di costruire sui terreni della madre, il collegio ritiene anche che non siano configurabili i presupposti per disporre una valutazione tecnica (richiesta dai ricorrenti) proprio a causa dell’accuratezza delle indagini istruttorie e la ragionevolezza delle verifiche.
Infine, i ricorrenti contestano la motivazione per relationem dell’autorizzazione paesaggistica rilasciata, poiché troppo generica e incompleta. La censura è infondata anche perché la stessa autorizzazione richiama numerosi atti e prescrizioni di tutela che dimostrano un’istruttoria approfondita: l’autorizzazione paesaggistica, infatti, essendo emanata nell’esercizio della discrezionalità tecnica della P.A., è censurabile solo per l’evidenza di profili di macroscopica illogicità, irragionevolezza o travisamento dei fatti. In conclusione, il TAR respinge il ricorso.
[M. Demichelis]
LA VALUTAZIONE DELLE CONSEGUENZE AMBIENTALI DERIVANTI DALLE VARIANTI NECESSITA DI UN’UNICA PROCEDURA CON CUI VENGANO VALUTATI I COMPLESSIVI EFFETTI SULL’AMBIENTE
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 871/2014 – sent. 23 marzo 2020, n. 210
Est. Cattaneo, Pres. Testori
[Giovanni Ruffini et al. c. Comune di Chieri]
Il TAR Piemonte accoglie il ricorso proposto da alcuni cittadini avverso la deliberazione del Consiglio Comunale di Chieri n. 51 del 09.04.2014 avente ad oggetto l’approvazione del progetto definitivo di variante parziale n. 29 al P.R.G.C. vigente; nonché di tutti gli atti preordinati, consequenziali e comunque connessi. In particolare, i ricorrenti hanno contestato l’inserimento di un determinato ambito tra le aree edificabili nonché l’aggiramento delle norme e dei principi che regolano la valutazione ambientale strategica (VAS) mediante una parcellizzazione degli interventi.
Con la deliberazione del Consiglio Comunale n. 18 del 29.1.2014, l’amministrazione dichiarava di volere approvare più varianti parziali allo strumento urbanistico comunale, al fine di attribuire “la capacità edificatoria nella sua attuale disponibilità ad aree già edificate o a lotti interclusi e marginali agli abitati esistenti, nonché su fabbricati preesistenti, nel rispetto dei principi dettati dalla pianificazione territoriale sovraordinata vigente”. Il Collegio ritiene che, a fronte di un tale intento unitario, non poteva che essere unitaria anche la valutazione circa la necessità o meno di sottoporre le varianti, complessivamente considerate, a VAS. La valutazione delle conseguenze ambientali derivanti dalle varianti che l’amministrazione ha intenzione di approvare necessita invero di un’unica procedura con cui vengano valutati i complessivi effetti sull’ambiente. Tale valutazione, prescritta dall’art. 6, d.lgs. n. 152/2006 circa l’utilizzo o meno di “piccole aree a livello locale” e della produzione o meno di “impatti significativi sull’ambiente”, avrebbe dovuto essere condotta prendendo in considerazione tutte le varianti che l’amministrazione voleva approvare; pena, in caso contrario, un aggiramento della norma. Ciò in quanto la previsione di una pluralità di interventi non importa necessariamente un minor impatto ambientale rispetto a un intervento urbanistico concentrato in un’unica area del territorio comunale, basti solo pensare all’incidenza sul consumo di suolo. Pertanto, nel caso di specie trova applicazione un principio analogo a quello che è stato in più occasioni affermato dalla giurisprudenza in materia di valutazione di impatto ambientale, secondo cui, per valutare se occorra o meno la VIA di un determinato intervento, è necessario avere riguardo non solo alle dimensioni del progetto di ampliamento di un’opera già esistente, bensì alle dimensioni dell’opera finale, risultante dalla somma di quella esistente con quella nuova. (Cons. Stato, sent. n. 36/2014; Tar Sardegna, sent. n. 882/2016; n. 91/2012). É dunque l’opera finale nel suo complesso che, incidendo sull’ambiente, deve essere sottoposta a valutazione.
Ne discende che, anche in sede di VAS, l’amministrazione non può effettuare una valutazione “parcellizzata” di interventi connessi sotto il profilo soggettivo, territoriale e ambientale. Deve invece tenere conto della loro reciproca interazione effettuando una valutazione concreta e complessiva di tutte le opere edilizie previste.
[V. Vaira].
È GIUSTIFICATO IL DINIEGO DI AUTORIZZAZIONE PER LA MODIFICA DELLA FONTE DI ALIMENTAZIONE DI UNA CENTRALE SE ESSA NON RISULTA DALL’ELENCO DEI COMBUSTIBILI AUTORIZZATI.
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 756/2017 – sent. 26 febbraio 2020, n. 136
Pres. Testori, Est. Malanetto
[Prato Nevoso Termo Energy s.r.l. c. Provincia di Cuneo]
Il TAR Piemonte ha respinto il ricorso della società Prato Nevoso Termo Energy s.r.l. avverso il diniego di autorizzazione oppostole dalla Provincia di Cuneo alla modifica della fonte di alimentazione della centrale per la produzione di energia termica ed elettrica da essa gestita nel Comune di Frabosa Sottana (CN). Secondo l’A. resistente, infatti, l’olio vegetale che si sarebbe voluto utilizzare in luogo del metano non può essere considerato combustibile, bensì rifiuto. Con ordinanza n. 318/2018 il TAR Piemonte aveva sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea questione pregiudiziale in relazione alla normativa nazionale applicabile, interamente di derivazione UE ed in particolare al coordinamento tra le norme in materia di bioliquidi e quelle in materia ambientale; la questione pregiudiziale veniva risolta con sentenza del 24 ottobre 2019, (C-212/18) e si arrivava pertanto alla definizione del giudizio con la discussione e decisione nel merito.
A quest’ultimo proposito, la Termo Energy s.r.l. aveva rilevato come la richiesta di interpretazione pregiudiziale proposta dal TAR presentasse un errore in fatto, quanto alla precisa identificazione del materiale che la società avrebbe inteso utilizzare come combustibile, errore che avrebbe inficiato l’intera procedura interpretativa innanzi alla CGUE. Secondo il TAR Piemonte, non è la tipologia di olio ex se rilevante ma il fatto, pacifico in entrambi i casi, che esso non figuri nell’allegato X parte II, sezione quarta della parte V del d.lgs. n. 152/2006 e s.m.i.. (cd. Codice dell’ambiente). A tal riguardo l’art. 293 d.lgs. n. 152/2006 permette di utilizzare come prodotti combustibili solo i materiali previsti nell’allegato X alla parte quinta di tale decreto, alle condizioni ivi stabilite. Esso prevede inoltre che la combustione dei materiali non presenti nell’allegato X sia soggetta alle norme vigenti in materia di rifiuti. Requisito di “legalità” dei combustibili, anche a biomassa, sia la riconducibilità degli stessi al riportato elenco. D’altro canto depone in tal senso l’espressa prescrizione dell’art. 293 del d.lgs. n. 152/2006 che, dopo la modifica apportata dall’art. 3 comma 23 del d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, sancisce esplicitamente che possono essere utilizzati come combustibili “esclusivamente” i prodotti indicati in tale elenco, aggiungendo che è invece soggetta alla normativa in tema di rifiuti “la combustione di materiali non conformi all’allegato X.” Nell’interpretazione dell’allegato X si rinvengono posizioni più flessibili, che ne ammettono una lettura in senso “estensivo”, impostazione peraltro seguita nel caso di specie dalla Provincia di Cuneo che ha tentato un confronto tra materiali presenti nell’elenco e quello per cui è causa; tuttavia, nel caso di specie, è pacifico che l’olio vegetale che la società intendeva utilizzare non è riconducibile, neppure in via estensiva, a nessuna delle categorie ivi indicate in quanto, rispetto agli oli di origine vegetale, l’elenco contempla solo materiale prodotto da coltivazioni dedicate o materiale prodotto con trattamenti esclusivamente meccanici; il bioliquido che la ricorrente intende utilizzare deriva da un trattamento chimico di recupero di oli vegetali. La definizione normativa italiana non è coordinata con la definizione di bioliquidi di derivazione euro-unitaria che si rinviene nell’art. 2 lett. h) del d.lgs. n. 28/2011 e che, anche a detta del TAR, sarebbe rispettata dalla ricorrente. Tuttavia, secondo il giudice amministrativo piemontese l’antinomia normativa, che esso derubrica a “mancato coordinamento di discipline”, non consente di individuare una norma speciale prevalente, né di predicare una palese e univoca interpretazione conforme al diritto UE.
La Corte di Giustizia ha ritenuto la soluzione nazionale compatibile con l’ordinamento UE, dal momento che dinanzi a un certo grado di incertezza scientifica uno Stato membro, tenuto conto del principio di precauzione, può decidere di non includere una certa sostanza nell’elenco dei combustibili autorizzati. Allo stesso tempo, la Corte ha anche dovuto prendere atto che, dal fascicolo processuale del presente giudizio, risulta che la sostanza in contestazione presenta le caratteristiche tecniche di un bioliquido e che il bilancio energetico dell’operazione di sostituzione proposta risulta positivo. Siffatte circostanze non sarebbero state, tuttavia, sufficienti a fugare l’incertezza scientifica circa l’eventuale pericolosità della sostanza e dunque la sua possibilità di impiego quale combustibile. La Corte ha però anche demandato al giudice del rinvio l’accertamento in questo senso, ipotesi che il TAR ritiene incompatibile con il giudizio di fronte a sé incardinato, che trova fisiologico limite e perimetro negli atti impugnati. L’unica amministrazione abilitata ad intervenire su tale elenco sarebbe il competente Ministero che non è coinvolto nel procedimento per cui è causa. Peraltro, le modalità con le quali l’aggiornamento dell’elenco dei combustibili sono effettuate comporterebbero anche che, per eventuali vizi di detto atto, operi la sola competenza del TAR Lazio. [G. Boggero].
APPALTI
INTERDITTIVA ANTIMAFIA E MISURE DI SELF CLEANING “FITTIZIE”
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 407/2018 – sent. 17 marzo 2020, n. 197
Pres. Salamone Est. Patelli
[Omissis c. Prefettura di omissis ed altri]
Il TAR Piemonte ha respinto il ricorso presentato dalla società “Omissis” avverso il provvedimento di diniego alla richiesta di aggiornamento dell’informativa antimafia adottato dalla Prefettura.
Dopo aver ripercorso i fatti essenziali di un’articolata vicenda la sentenza in commento evidenzia la natura speciale della verifica antimafia prevista dall’art. 3-quinquies d.l. 25 settembre 2009, n. 135, rispetto alla normativa generale contenuta nel codice antimafia e ribadisce i tratti essenziali di quest’ultima.
Nella fattispecie, la società ricorrente è stata destinataria di un primo provvedimento interdittivo adottato dalla Prefettura compente a norma del citato art. 3-quinquies d.l. 135/2009. A seguito del ricorso presentato dalla società questo primo provvedimento interdittivo è stato annullato ‒ in ragione di una valutazione positiva delle misure di self cleaning adottate dalla società ricorrente ‒ rendendosi così necessaria una sua revisione da parte della Prefettura.
Medio tempore il suddetto art. 3-quinquies d.l. 135/2009 ‒ introdotto per la valutazione delle imprese coinvolte nella realizzazione delle opere previste per l’Expo Milano 2015 ‒ “ha terminato” il suo periodo di efficacia, sicché alle valutazioni antimafia si applica (nuovamente) il procedimento regolato dal codice antimafia.
In esito al riesame del provvedimento ‒ avvenuto applicando le disposizioni del citato codice antimafia ‒ il Prefetto, si è discostato dalla precedente valutazione delle misure di self cleaning ritenendole insufficienti e, per l’effetto, ha emesso una seconda interdittiva antimafia. L’impugnazione di questa seconda interdittiva ha dato origine al giudizio deciso con la sentenza in commento.
Nel respingere la prima delle censure avanzate dalla ricorrente, il TAR Piemonte ha evidenziato che le due interdittive antimafia originano da due distinti procedimenti regolati da norme differenti (l’una speciale rispetto all’altra). Perciò quanto deciso dalla sentenza emessa con riferimento al primo di tali provvedimenti non avrebbe potuto in alcun modo vincolare la seconda decisione della Prefettura.
Quanto poi al merito della valutazione sul rischio di infiltrazioni criminali, il TAR osserva che questa deve essere compiuta tenendo conto in maniera congiunta di tutti gli elementi di cui la Prefettura è a conoscenza.
Richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, i giudici evidenziano che la valutazione del rischio di inquinamento mafioso deve basarsi sul criterio del “più probabile che non” e che gli elementi posti alla base dell’informativa possono anche non essere penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o processi penali (a tal proposito vengono richiamati Cons. Stato, Sez. III, 27.9.2018, n. 5547 e Cons. Stato, Sez. III, 4.5.2018, n. 2655).
Inoltre, il TAR Piemonte sottolinea che per l’adozione dell’interdittiva antimafia non è necessario provare l’attualità delle infiltrazioni mafiose, bensì è sufficiente dimostrare l’esistenza di elementi dai quali si possa dedurre ‒ secondo il citato principio del “più probabile che non” ‒ un tentativo di ingerenza mafiosa.
Quanto poi alle misure di self cleaning adottate dalla società ricorrente, i giudici ritengono ragionevole la valutazione data dalla Prefettura che le ha qualificate come “fittizie”, considerandole così non idonee ad escludere una possibile infiltrazione criminale.
In conclusione, il provvedimento interdittivo risponde ad una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e costituisce una misura, non punitiva, di natura cautelare e preventiva, volta ad impedire l’infiltrazione del crimine organizzato nel settore degli appalti pubblici, in un’ottica di bilanciamento tra la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost. (in tal senso viene richiamato Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 6.4.2018, n. 3).
[G. Odino]
GRAVI ILLECITI PROFESSIONALI: LA REVOCA DI UNA PRECEDENTE AGGIUDICAZIONE DEVE ESSERE DICHIARATA?
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 628/2019 – sent. 19 marzo 2020, n. 202
Pres. Salamone, Est. Picone
[Progest S.r.l. c. Comune di Torino]
La sentenza in oggetto decide la controversia sorta tra il Comune di Torino e la Progest s.r.l in merito all’esclusione di quest’ultima dalla procedura aperta n. 26/2019 indetta dal Comune per l’aggiudicazione dei servizi di accoglienza ed inclusione sociale di persone destinatarie del sistema SIPROIMI.
In data 3.6.2019 la società ricorrente è stata esclusa dalla citata procedura di gara in quanto nei documenti di partecipazione non aveva dichiarato di essere stata destinataria di un provvedimento di revoca dell’affidamento nel corso di una precedente gara (provvedimento, peraltro, emesso dal medesimo Comune di Torino). Il Comune ha ritenuto che la suddetta revoca integri (al pari della risoluzione contrattuale) un grave illecito professionale e, in quanto tale, ricada nell’obbligo dichiarativo previsto dall’art. 80 comma 5 del d.lgs. 50/2016.
Nel respingere il ricorso presentato dalla Progest il TAR ‒ oltre a evidenziare che solo le stazioni appaltanti possono valutare la rilevanza delle pregresse vicende professionali di un operatore economico ‒ riprende la tesi esposta dal Comune equiparando (seppur solo in maniera implicita) la revoca alla risoluzione contrattuale che il citato articolo 80 comma 5 del d.lgs. 50/2016 qualifica come grave illecito professionale. A tal proposito i giudici affermano che “la mancata dichiarazione della pregressa risoluzione contrattuale giustifica l’adozione, da parte della stazione appaltante, del provvedimento di esclusione”. Prosegue il TAR “la giurisprudenza ha ripetutamente riconosciuto la legittimità dell’esclusione dalla gara pubblica di un’impresa che abbia omesso di dichiarare di essere stata destinataria, in passato, di provvedimenti di risoluzione contrattuale, in quanto l’obbligo dichiarativo attiene ai principi di lealtà ed affidabilità professionale”.
La sentenza in commento risulta particolarmente interessante in quanto si inserisce nell’articolato e complesso quadro giurisprudenziale in materia di gravi illeciti professionali oggetto dell’obbligo dichiarativo gravante sugli operatori economici che partecipano alle procedure ad evidenza pubblica.
In ordine all’estensione di tale obbligo si contrappongono due orientamenti.
Il primo interpreta l’ultimo periodo dell’art. 80 comma 5 come una norma di chiusura, che impone agli operatori economici di portare a conoscenza della stazione appaltante tutte le informazioni relative alle proprie vicende professionali, anche non costituenti cause tipizzate di esclusione ritiene che gli operatori economici debbano dichiarare qualsiasi vicenda professionale pregressa.
Il secondo ritiene invece che un generalizzato obbligo dichiarativo, senza la individuazione di un generale limite di operatività, potrebbe rilevarsi eccessivamente oneroso per gli operatori economici, imponendo loro di ripercorrere a beneficio della stazione appaltante vicende professionali ampiamente datate o, comunque, del tutto insignificanti nel contesto della vita professionale di una impresa.
Recentissimamente la questione della corretta (e definitiva) perimetrazione degli obblighi dichiarativi è stata demandata all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (con l’ordinanza del medesimo Cons. Stato, sez. V, 9 aprile 2020, n. 2332). L’ordinanza di rimessione ha sottolineato che questo problema si pone, in modo particolare, per le omissioni dichiarative (ovvero per le dichiarazioni reticenti): per le quali occorre distinguere il mero (e non rilevante) nihil dicere (che, al più, legittima la stazione appaltante a dimostrare, con mezzi adeguati, “che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali”, diversi dalla carenza dichiarativa, idonei “a rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”) dal non dicere quod debetur (che, postulando la violazione di un dovere giuridicodi parlare, giustifica di per sé – cioè in quanto illecito professionale in sé considerato – l’operatività in chiave sanzionatoria, della misura espulsiva).
Occorre quindi attendere la pronuncia dell’Adunanza Plenaria per avere un’interpretazione definitiva dell’obbligo imposto dall’art. 80 comma 5 del d.lgs. 50/2016.
[G. Odino]
NON SUSSISTE UN INTERESSE DIRETTO, CONCRETO ED ATTUALE PER L’ACCESSO AI DOCUMENTI DELLA FASE ESECUTIVA DEL CONTRATTO DA PARTE DELL’IMPRESA CHE VI È RIMASTA ESTRANEA E NON HA INTERESSE AL SUBENTRO
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 745/2019 – sent. 11 marzo 2020, n. 186
Est. Picone, Pres. Salamone, Ref. Risso
[Auto Parts Italia s.r.l. c. SEAB – Società Ecologica Area Biellese s.p.a.]
Il TAR Piemonte respinge il ricorso per l’annullamento della nota con la quale la Società Ecologica Area Biellese s.p.a. (SEAB) – società a capitale pubblico affidataria del servizio di igiene urbana, raccolta e trasporto dei rifiuti del Biellese – respingeva l’istanza di accesso civico presentata dalla ricorrente Auto Parts Italia s.r.l., avente ad oggetto documenti, dati ed informazioni per l’appalto annuale del servizio di manutenzione di automezzi aziendali e di fornitura di ricambi originali, aggiudicato nel corso dell’anno 2017 alla Borgo Agnello s.p.a.
Il Consorzio Parts & Services, concorrente in quella gara, dopo aver presentato istanza di accesso ai sensi del d.lgs. n. 33 del 2013, otteneva copia del contratto d’appalto, con parziale diniego circa l’accesso alle fatture relative al servizio, in quanto ritenute afferenti ad interessi economici e commerciali della società affidataria, tutelati dalla lettera c) dell’art. 5-bis, comma 2, del d.lgs. n. 33 del 2013. A distanza di un anno, pur non avendo partecipato alla gara, la Auto Parts Italia s.r.l. presentava richiesta di accesso alla documentazione riguardante la medesima gara d’appalto “con particolare riferimento ai preventivi e alle fatture dei singoli interventi effettuati dall’aggiudicataria”, rispetto alla quale la SEAB dava diniego per le medesime motivazioni esposte al Consorzio Parts & Services.
A fronte del diniego, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 5 e 5-bis del d.lgs. n. 33 del 2013, la violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016 ed il difetto di motivazione del provvedimento di diniego, chiedendo l’accertamento del proprio diritto alla consegna della documentazione contabile (preventivi e fatture) emessa dalla controinteressata Borgo Agnello s.p.a. nell’esecuzione dell’appalto di manutenzione e di fornitura ricambi.
Il Collegio puntualizza che anche in materia di contratti dell’Amministrazione l’accesso è regolato da tre diversi sistemi, ciascuno caratterizzato da propri presupposti, limiti ed eccezioni. Tali sistemi si articolano in tre diversi tipi di accesso: 1) l’accesso documentale ordinario degli artt. 22-ss. della legge n. 241 del 1990; 2) l’accesso civico generico ai documenti oggetto di pubblicazione, regolato dal d.lgs. n. 33 del 2013; 3) l’accesso civico universale, disciplinato dal d.lgs. n. 97 del 2016 (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1817 del 2019).
Secondo l’orientamento preferibile, la coesistenza di tre istituti sul piano della portata generale comporta, in via di principio, che ciascun tipo di accesso vada considerato a sé e pari ordinato all’altro. Pertanto, la disciplina vigente, anche ai sensi dell’art. 53 del d.lgs. n. 50 del 2016, induce ad escludere l’applicabilità assoluta dell’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, dovendo negarsi la sussistenza di un interesse diretto, concreto ed attuale, con riferimento agli atti ed ai documenti della fase esecutiva del rapporto contrattuale, rispetto all’impresa che vi è rimasta estranea e che, in mancanza di un provvedimento di risoluzione adottato dalla stazione appaltante, neppure possa vantare un ipotetico interesse al subentro (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5503 del 2019).
Secondo il TAR Piemonte, dacché Auto Parts Italia s.r.l. non ha partecipato alla gara per l’affidamento dell’appalto cui si riferisce la documentazione richiesta, non è ravvisabile in capo alla ricorrente un interesse giuridicamente apprezzabile. Tuttavia, sul tema si segnala l’importante pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 2020 che accoglie l’applicabilità dell’accesso civico generalizzato agli atti delle procedure di appalto anche con riferimento alla fase esecutiva del contratto.
[V. Vaira]
DISCREZIONALITÀ AMMINISTRATIVA E VALUTAZIONE SULL’IDONEITÀ DELL’OFFERTA
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 950/2019 – sent. 26 febbraio 2020 n. 146
Pres. Salamone, Est. Cerroni
[Cooperativa Sociale “Quadrifoglio Tre Handicap ed Emarginazione S.C. Onlus”c. Comune di Torino]
Con sentenza n. 146 del 2020, il TAR Piemonte si è pronunciato sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto dalla Cooperativa Sociale “Quadrifoglio Tre Handicap ed Emarginazione S.C. Onlus”, contro il Comune di Torino.
In particolare, con bando di gara, il Comune di Torino indiceva una procedura aperta per l’affidamento dei “servizi integrati necessari al funzionamento del centro educativo specializzato municipale, delle scuole e dei nidi d’infanzia gestiti dal Comune”. L’oggetto dell’appalto, nello specifico, era suddiviso in quattro lotti differenziati in base alla ubicazione, sul territorio comunale, delle strutture educative interessate dall’erogazione dei servizi.
L’amministrazione provvedeva a comunicare alla parte ricorrente la mancata ammissione alla fase di apertura delle offerte economiche, ritenendo l’offerta tecnica formulata “non idonea in riferimento all’oggetto del contratto al conseguimento dell’aggiudicazione, ai sensi dell’art. 95, comma 12, del D.lgs. 50/2016”, nonostante il conseguimento del massimo punteggio disponibile.
Successivamente, il Comune dichiarava la diserzione del medesimo lotto di gara, per indire una procedura negoziata per l’affidamento del medesimo servizio.
Nell’esaminare le censure avanzate dalla ricorrente e nel rigettare il relativo ricorso per motivi aggiunti, il giudice amministrativo richiama il potere accordato dall’ordinamento alla stazione appaltante di non addivenire all’aggiudicazione del contratto nel caso in cui nessuna offerta risulti conveniente o idonea rispetto all’oggetto del contratto, come previsto dall’art. 95, comma 12, del d.lgs. 50/2016, sottolineando la diversità dei piani di apprezzamento tra la valutazione dell’offerta tecnica ed economica compiuta dalla commissione – che si sostanzia nell’attribuzione di un punteggio – e il giudizio discrezionale dell’amministrazione in merito all’idoneità dell’offerta a soddisfare in modo adeguato l’interesse per cui è stata indetta la procedura.
Se l’organo di gara è infatti vincolato ai criteri stabiliti nel bando, che ne predeterminano la sfera di discrezionalità tecnica, l’amministrazione partendo dalla valutazione svolta in gara può viceversa apprezzare l’offerta dal punto di vista dei profili della convenienza e dell’idoneità(così, Cons. Stato, n. 8091/2019).
La circostanza che la valutazione spettante all’amministrazione non sia vincolata a quella della commissione risponde alla funzione di tutela dell’interesse pubblico che si intende realizzare tramite l’affidamento del contratto (in tal senso, Cons. Stato, V, 27 novembre 2018, n. 6725).
Pertanto, conclude il TAR, anche un’offerta che sia stata giudicata in modo positivo dalla commissione di gara, in quanto rispondente ai criteri fissati dal bando, può essere considerata dall’amministrazione non conveniente o inidonea rispetto alle esigenze perseguite attraverso l’affidamento del contratto.
Dalla natura discrezionale del potere previsto dall’art. 95, comma 12, del codice degli appalti discendono limiti al sindacato del giudice amministrativo, che resta circoscritto agli aspetti estrinseci di logicità, non abnormità o ingiustizia manifesta delle valutazioni effettuate dall’amministrazione, non essendo ammesso un sindacato di tipo sostitutorio.
[S. Matarazzo]
RECESSO DEL CURATORE FALLIMENTARE DAL CONTRATTO DI AFFITTO DI AZIENDA E REQUISITI DI GARA
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 725/2019 – sent. 26 febbraio 2020, n. 147
Pres. Salamone, Est. Perilli
[Fucina Italia s.r.l. c. So.g.i.n. s.p.a.]
Il TAR Piemonte, con sentenza 147 del 2020, accoglieva il ricorso per l’annullamento del provvedimento di esclusione adottato nei confronti di Fucina Italia s.r.l. dalla procedura negoziata indetta da So.g.i.n. s.p.a., per l’affidamento del servizio di manutenzione programmata delle attrezzature di sollevamento a portata fissa per il sito di Trino, Bosco Marengo e Casaccia.
L’esclusione della società ricorrente da tutti i lotti di gara veniva motivata per la perdita dei requisiti soggettivi richiesti, in conseguenza al recesso, esercitato dal curatore fallimentare della Sider Piombino s.p.a., dal contratto di affitto di azienda stipulato da quest’ultima con parte ricorrente, nonché per l’omessa produzione delle dichiarazioni attestanti il possesso dei requisiti morali degli amministratori della società di cui era stato dichiarato il fallimento.
Ad avviso del giudice amministrativo, riguardo il primo motivo di ricorso, l’esclusione dalla gara appare illegittima, poiché la stazione appaltante avrebbe dovuto verificare, al di là della manifestazione da parte del curatore fallimentare della volontà di recedere dal contratto di affitto di azienda, se la società ricorrente stesse continuando a detenere il compendio aziendale e a svolgere attività di impresa, così da dimostrare continuità nel possesso dei criteri soggettivi economici previsti dal bando.
Il recesso dal contratto di affitto di azienda esercitato dal curatore speciale della Sider Piombino s.p.a., in applicazione dell’art. 79 della legge fallimentare, va interpretato in senso sostanziale. Invero, l’istituto del recesso anticipato dal contratto di affitto di azienda, da esercitare entro il termine perentorio di sessanta giorni decorrenti dalla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, trova la sua ragion d’essere nel circoscrivere temporalmente il regime di incertezza del rapporto, a seguito della declaratoria di fallimento, così da garantire sia la conservazione del patrimonio aziendale a tutela delle ragioni dei creditori, sia la posizione di ciascuna parte del contratto.
Pertanto, l’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del curatore fallimentare non esclude, secondo il Collegio, che le parti possano concordare la detenzione del compendio aziendale ad altro titolo, considerato il regime di derogabilità del menzionato art. 79.
In proposito, nel caso esaminato, si era avuto inizialmente lo slittamento della consegna del compendio aziendale e, successivamente, il curatore fallimentare aveva acconsentito alla posticipazione degli effetti del recesso e al mantenimento del compendio aziendale da parte della società ricorrente, fino alla definitiva valutazione dell’offerta irrevocabile di acquisto avanzata dalla stessa.
Alla data del provvedimento di esclusione, Fucina Italia s.r.l. deteneva dunque il compendio aziendale e la stazione appaltante aveva omesso la doverosa verifica circa il mantenimento dei requisiti speciali occorrenti per tutto il tempo di svolgimento della gara.
Con il secondo motivo di ricorso, invece, parte ricorrente contestava l’omessa produzione delle dichiarazioni di cui all’articolo 80 del d.lgs. n. 50 del 2016 relative agli amministratori dell’impresa poi fallita, dal momento che nella lettera di invito tale dichiarazione era stata richiesta solo per i soggetti coinvolti nelle operazioni poste in essere nell’anno antecedente alla ricezione della stessa, mentre il contratto di affitto di azienda era stato stipulato più di un anno prima.
Parte ricorrente non aveva quindi l’obbligo di presentare anche le dichiarazioni degli amministratori della Sider Piombino s.r.l., altrimenti, la previsione del bando con cui veniva fissato un limite temporale agli oneri informativi – nell’intento di individuare un lasso di tempo ragionevole e strettamente antecedente alla determinazione a contrarre – avrebbe perso efficacia.
Al riguardo, un onere informativo che avesse superato i termini ragionevoli, in riferimento all’oggetto della gara ed al contesto del mercato, sarebbe stato secondo il TAR Piemonte un “intollerabile aggravamento del procedimento, che non risulta proporzionato rispetto alle esigenze di prevenzione della criminalità economica, sottese alla predetta attività informativa”.
Per tali argomentazioni, il Collegio accoglie integralmente il ricorso e, per conseguenza, annulla il provvedimento di esclusione adottato nei confronti di Fucina Italia s.r.l., in relazione alla procedura negoziata indetta da So.g.i.n. s.p.a., con la riammissione alla gara della società ricorrente.
[S. Matarazzo]
ANOMALIA DELL’OFFERTA E R.U.P.
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 697/2019 – sent. 17 febbraio 2020, n. 130,
Pres. Testori, Est. Cattaneo
[Cifolelli Edilizia s.r.l c. Consorzio di Bonifica della Baraggia Biellese e Vercellese e CS Costruzioni s.r.l.]
Nel caso esaminato, Cifolelli Edilizia s.r.l. presentava ricorso contro il Consorzio di Bonifica della Baraggia Biellese e Vercellese e CS Costruzioni s.r.l., per l’annullamento della nota con cui il direttore del Consorzio comunicava alla società ricorrente l’esclusione per non congruità dell’offerta presentata nella gara di appalto per l’affidamento dei “Lavori residui delle opere per l’incremento per l’efficienza del sistema di derivazione irrigua in destra Sesia per le rogge Comunale e Marchionale di Gattinara, 1° lotto”, nonché di tutti gli atti antecedenti, consequenziali e, comunque, connessi.
Con ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente impugnava inoltre il provvedimento con cui il Consorzio aggiudicava la gara alla ditta CS Costruzioni s.r.l., lamentandone l’illegittimità derivata dai vizi dedotti con ricorso introduttivo.
Tra le censure sollevate, la ricorrente aveva contestato la legittimità del provvedimento di esclusione e del bando di gara, poiché la verifica di congruità dell’offerta non era stata effettuata dalla commissione, ma da due tecnici ritenuti non esperti nello specifico settore di valutazione delle opere idrauliche (un geometra e un architetto), così violando l’art. 77 del d.lgs. n. 50/2016.
La censura, secondo il Collegio, appare infondata, poiché l’art. 97 del d.lgs. n. 50/2016 attribuisce la competenza ad effettuare la verifica dell’anomalia dell’offerta alla stazione appaltante, senza ulteriormente specificare a quale organo della stessa competa il giudizio.
L’art. 31 del d.lgs. n. 50/2016, oltre a indicare alcuni specifici compiti del R.U.P., ne delinea la competenza in termini residuali, precisando che “quest’ultimo svolge tutti i compiti relativi alle procedure di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione previste dal presente codice, che non siano specificatamente attribuiti ad altri organi o soggetti”. A ciò bisogna aggiungere la considerazione che tra i compiti espressamente attribuiti alla commissione all’art. 77 del d.lgs. n. 50/2016 non figura la verifica dell’anomalia dell’offerta, elemento che conferma l’attribuzione di tale attività nella competenza del R.U.P. (Tar Campania, Napoli, sez. I, 11/03/2019, n.1382; Cons. Stato, sez. V, 19.11.2018, n. 6522).
Nel caso di specie, la valutazione di anomalia era stata appunto effettuata dal R.U.P., con il supporto dei due dipendenti del Consorzio, situazione che non viziava il provvedimento impugnato.
Né sussiste alcun divieto per geometri e architetti di svolgere attività professionale implicante valutazioni su opere idrauliche, in relazione ad un giudizio avente ad oggetto la congruità dell’offerta, che è attribuito dalla legge alla competenza del responsabile unico del procedimento.
Infine ricorda il TAR come, in base alla giurisprudenza consolidata, il giudizio in merito all’anomalia o all’incongruità dell’offerta è tipica espressione di discrezionalità tecnica, sindacabile dal giudice amministrativo solo in caso di macroscopica illogicità o di erroneità fattuale (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 17 maggio 2018, n. 2953; 24 agosto 2018, n. 5047; sez. III, 18 settembre 2018, n. 5444). Pertanto, il Collegio dichiarava le domande di annullamento che erano state proposte con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti infondate, rigettando la conseguente istanza risarcitoria.
[S. Matarazzo]
EDILIZIA & URBANISTICA
RAPPORTI TRA GIUDIZIO PENALE E AMMINISTRATIVO
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 742/2019 – sent. 29 aprile 2020, n. 245
Pres. Testori, Est. Cattaneo
[Cast s.p.a. c. Comune di Casalgrasso, Regione Piemonte, Unione Terre Dai Mille Colori]
Cast s.p.a. presentava ricorso contro il Comune di Casalgrasso, la Regione Piemonte e l’Unione Terre Dai Mille Colori, per l’annullamento del provvedimento del responsabile dello sportello unico per le attività produttive del Comune di Casalgrasso, avente ad oggetto il diniego di un permesso di costruire.
La società aveva presentato, in proposito, istanza al Comune di Casalgrasso, per l’ottenimento del rilascio del titolo edilizio, al fine di procedere alla demolizione di una cascina, una stalla agricola, gli accessori e le recinzioni. Con apposito provvedimento, l’amministrazione comunale negava il rilascio del permesso di costruire, limitatamente alla cascina, per mancanza delle integrazioni documentali richieste con apposita nota e per le risultanze della perizia tecnica.
Parte ricorrente impugnava quindi il provvedimento di diniego, unitamente al piano regolatore di Casalgrasso, invocando la sentenza del Tribunale Penale di Cuneo, di assoluzione ai sensi dell’art. 530, c. 2 c.p.p. per il reato di cui all’art. 44, lett. b, del d.P.R. n. 380/2001 e ai sensi dell’art. 530, c. 1 c.p.p. per il reato di cui all’art. 44, lett. c, del d.P.R. n. 380/2001.
Nell’esaminare la controversia, il giudice amministrativo richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale sui rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo, secondo cui tra gli stessi sussiste una relazione di autonomia e separazione (ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 24 ottobre 2019, n. 7245).
Ricorda il Collegio come, sotto il profilo soggettivo, il giudicato sia vincolante soltanto nei confronti dell’imputato, della parte civile e del responsabile civile costituito o intervenuto nel processo penale e non invece nei confronti di soggetti rimasti estranei al processo penale, nonostante collegati alla vicenda (Cons. Stato Sez. VI, 2 dicembre 2016, n. 5069; id. 31 gennaio 2017, n. 407).
Per quanto concerne il profilo oggettivo, il vincolo del giudicato copre solo l’accertamento dei “fatti materiali” e non la loro qualificazione o valutazione giuridica, che si ritiene circoscritta al processo penale e non idonea, quindi, a condizionare l’autonoma valutazione del giudice amministrativo o civile (Cons. Stato Sez. VI, 11 gennaio 2018, n. 145; id. 16 luglio 2015, n. 3556).
Nel caso di specie, in particolare, in assenza della costituzione di parte civile dell’amministrazione interessata, la sentenza di assoluzione invocata non risultava vincolante per il giudizio. In più, la pronuncia non avrebbe potuto comunque esplicare effetti, stante la diversità di oggetto dei due giudizi, essendo venuta in rilievo, in sede penale, la questione della porzione di cascina demolita e non la porzione residua.
Il TAR Piemonte afferma poi l’infondatezza del motivo di ricorso secondo cui sarebbe venuto meno il vincolo previsto dallo strumento urbanistico, a causa dei crolli intervenuti che avrebbero reso il bene vincolato un insieme di ruderi. Sul punto, il Collegio sostiene che le disposizioni dettate dal piano regolatore, per essere modificate, necessitano di un procedimento che porti all’approvazione di un nuovo strumento urbanistico o di una sua variante, con cui l’amministrazione è tenuta a valutare il persistere o meno di un interesse pubblico alla tutela del bene, in relazione anche alle sue condizioni.
Parimenti, risulta infondata la deduzione secondo cui la demolizione sarebbe stata indispensabile per rimuovere una situazione di pericolo. A tal riguardo, osserva il Consesso, l’art. 54 del regolamento edilizio comunale, nel porre l’obbligo in capo al privato di rimuovere situazioni di pericolo degli immobili di sua proprietà ammette un’unica deroga in merito alla necessità dell’ottenimento di un titolo edilizio, deroga che deve essere tuttavia contemperata con le disposizioni dello strumento urbanistico.
Dinanzi la pluralità degli interventi di messa in sicurezza realizzabili devono, quindi, ritenersi consentiti solo quelli che – sebbene più dispendiosi – rispettino le previsioni del piano regolatore, come la manutenzione straordinaria, il restauro e il risanamento conservativo e non l’intervento radicale della demolizione, in contrasto con la disciplina urbanistica dell’area, prevista a tutela del pubblico interesse alla conservazione del bene.
Il ricorso è invece inammissibile laddove la Cast s.p.a. lamenta il vizio di eccesso di potere in riferimento alle previsioni del PRG riguardanti la cascina. Per orientamento consolidato della giurisprudenza, nell’ambito delle disposizioni volte a regolamentare l’uso del territorio contenute nel piano regolatore, vanno distinte le prescrizioni che, in via immediata, incidono sulle potenzialità edificatorie della porzione di territorio da quelle che disciplinano l’esercizio dell’attività edificatoria. Mentre nel primo caso, in considerazione dell’immediato effetto conformativo dello ius aedificandi, si impone un onere di impugnativa a partire dalla pubblicazione dello strumento pianificatorio, nel secondo caso, si hanno prescrizioni di dettaglio destinate a regolare la futura attività edilizia, che esplicano effetto lesivo soltanto nel momento in cui si adotta l’atto applicativo, pertanto, le stesse possono essere contestate anche in occasione dell’impugnazione di quest’ultimo. Nel caso oggetto di esame, trattandosi di disposizione con effetti immediati sullo ius aedificandi della cascina, il TAR conclude nel senso che la relativa legittimità non poteva più essere messa in discussione.
[S. Matarazzo]
ONERE PROBATORIO NEL PROCESSO AMMINISTRATIVO
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 72/2016 – sent. 9 marzo 2020, n. 177
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Edilchimica S.r.l. c. Comune di La Loggia]
Con sentenza n. 177 del 2020, il TAR Piemonte si pronunciava sul ricorso di Edilchimica S.r.l., contro il Comune di La Loggia, per l’annullamento del provvedimento del responsabile del servizio pianificazione e gestione del territorio del Comune, avente ad oggetto il diniego dell’istanza di rideterminazione del contributo di costruzione e di ogni provvedimento antecedente, oltreché con motivi aggiunti, per l’annullamento del provvedimento di diniego dell’istanza di accertamento di conformità.
Con il primo motivo del ricorso introduttivo, la ricorrente contestava la legittimità degli atti impugnati sotto distinti profili, sostenendo, tra l’altro, che la modifica di destinazione d’uso dei sottotetti costituiva intervento di risanamento conservativo o di ristrutturazione edilizia su un immobile preesistente, così censurando la mancata applicazione del contributo in misura ridotta previsto, in questi casi, dalle tabelle parametriche regionali e dallo stesso Comune di La Loggia.
A ciò si aggiungeva la manifesta ingiustizia ravvisata nei provvedimenti impugnati che, dinanzi mere difformità dell’edificio, non comportanti modifiche di superfici o volumi, avrebbero più che quadruplicato l’importo degli oneri di urbanizzazione.
Osserva il TAR Piemonte come le censure avanzate risultino prive di fondamento, in quanto la ratio dei criteri riduttivi e agevolativi stabiliti per gli interventi di ristrutturazione edilizia dalla D.C.R. 21 giugno 1994 n. 817-8294 e dalle delibere applicative del Comune di La Loggia, per interventi di risanamento conservativo e di ristrutturazione di immobili, si rinviene nella volontà di promuovere la realizzazione di azioni di recupero sull’edificato esistente.
Nel caso di specie, invece, si trattava di interventi abusivi eseguiti su un edificio di nuova costruzione.
Anche la tesi di parte ricorrente secondo cui gli interventi abusivi sarebbero stati effettuati in fase più recente rispetto all’ultimazione del complesso immobiliare e, pertanto, sarebbero stati eseguiti su un immobile preesistente, non risulta per il Collegio provata.
A tal riguardo, sostiene il giudice amministrativo, l’onere della prova sul momento di realizzazione dell’abuso edilizio grava sulla ricorrente e non sull’amministrazione, tenuto conto che nel processo amministrativo trova “integrale applicazione la disciplina contenuta nell’art. 2697 c.c. (corrispondente, ora, all’art. 64, comma 1, d.lgs. n. 104/2010) secondo la quale spetta a chi agisce in giudizio indicare e provare i fatti (cfr. Consiglio Stato, sez. IV, 11 febbraio 2011, n. 924; Consiglio Stato, sez. IV, 27 gennaio 2011, n. 618). Ciò implica che chi agisce in giudizio debba comunque fornire gli elementi probatori a favore delle proprie tesi” (in questo senso, ex multis, Cons. Stato, IV, 14 febbraio 2012, n. 703).
Inoltre, la circostanza che l’applicazione dei parametri usati dal Comune avrebbe “più che quadruplicato” l’importo degli oneri corrisposti non costituisce profilo di manifesta ingiustizia, venendo in rilievo l’applicazione di criteri determinati per le ipotesi di abusi realizzati nella nuova costruzione, essendo il computo di parte ricorrente fondato sul presupposto errato (la natura di ristrutturazione edilizia, anziché di nuova costruzione, dell’intervento).
Con i motivi aggiunti, la ricorrente lamentava che l’amministrazione, in pendenza del giudizio, avesse concluso il procedimento di sanatoria con un diniego definitivo, con la motivazione del mancato pagamento delle somme dovute a titolo di oblazione, senza attendere l’esito della controversia volta ad accertare la correttezza della determinazione del comune.
Il mancato pagamento da parte della ricorrente – ad avviso del TAR Piemonte – non poteva qualificarsi come inadempimento posto fondamento di un provvedimento di reiezione della sanatoria, essendo ancora pendente il giudizio.
In conclusione, il TAR respingeva il ricorso introduttivo e accoglieva i motivi aggiunti, invitando l’amministrazione comunale a notificare alla ricorrente una nuova intimazione di pagamento e, soltanto in caso di ulteriore mancato adempimento, disporre il diniego della sanatoria.
[S. Matarazzo]
LA SOSPENSIONE DELLA SCIA PER INCOMPATIBILITÀ DELLA DESTINAZIONE D’USO CON LE NORME DI ATTUAZIONE DEL PRGC: MANUTENZIONE STRAORDINARIA O RISTRUTTURAZIONE EDILIZIA
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 353/2019 – sent. 10 febbraio 2020, 120
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Immobiliare Giovanni XXIII S.a.s. c. Comune di Domodossola]
Nel caso di specie, la ricorrente S.a.s. immobiliare è proprietaria di un immobile che, previa presentazione di SCIA, doveva essere sottoposto a lavori di manutenzione straordinaria poiché la ricorrente lo aveva ceduto in locazione commerciale ad una società e, conseguentemente, doveva procedere ad adattare i locali alle esigenze del conduttore (abbattimento di barriere architettoniche, incremento delle uscite di sicurezza, ampliamento dell’area parcheggio).
L’immobile in questione ha una destinazione di tipo misto, residenziale, commerciale e artigianale, caratterizzata anche dall’uso continuativo e protratto nel tempo dell’immobile quale “officina di riparazione di autoveicoli”.
Per ciò che attiene alle destinazioni d’uso, occorre sottolineare che l’immobile è inserito nelle “Aree sature di consolidamento” secondo l’art. 3.2.4. delle NTA del PRGC della Città di Domodossola e ciò comporta il fatto che le destinazioni d’uso identificabili siano “proprie” (residenze e pertinenze, servizi sociali e attrezzature pubbliche e private di interesse collettivo), “ammesse” (attività culturali e commercio al dettaglio, esercizi pubblici e uffici o, comunque, artigianato di servizio non nocivo né molesto) e “in contrasto” (artigianato di produzione nocivo e molesto).
La destinazione d’uso principale dell’area è dunque quella residenziale, mentre quella commerciale e quella artigianale sono compatibili limitatamente al piccolo commercio al dettaglio.
Fatta tale premessa, il fatto si articola nella sospensione, da parte del Comune con ordinanza dirigenziale, della predetta SCIA, con sospensione della sua efficacia e dei lavori di manutenzione.
La S.a.s ricorrente ha impugnato tale ordinanza dirigenziale adducendo quattro motivi di ricorso (in sintesi tutti per vizio di violazione di legge ed eccesso di potere).
Il ricorso, però, è parso infondato al giudice amministrativo ed è stato respinto.
In particolare, si tratta la questione per la quale la destinazione d’uso dell’immobile oggetto del ricorso è, sulla base dei predetti titoli edilizi, “mista”. Il fatto che la SCIA abbia previsto il mantenimento dell’unità abitativa al primo piano non rileva poiché emerge la contestuale trasformazione completa del piano terra, eliminando la destinazione artigianale in favore di una esclusivamente commerciale.
Tale cambiamento, sia pure parziale, alla destinazione d’uso impedisce di qualificare i lavori come manutenzione straordinaria, trattandosi, invece, di ristrutturazione edilizia (ex art. 3, c. 1, lett. b), d.P.R. 380/2001, T.U. Edilizia).
La SCIA del caso di specie era, quindi, illegittima (ex art 19, c. 3, l. 241/1990) poiché è stata rilevata la mancanza dei presupposti di legge sui quali qualificare l’intervento come manutenzione straordinaria, nonché l’impossibilità di adeguare la SCIA alla vigente strumentazione urbanistica comunale: la trasformazione della destinazione d’uso del complesso immobiliare in senso quasi integralmente commerciale non pare compatibile con le previsioni di piano, che assegnano all’area destinazione “propria” residenziale, e solo in misura compatibile rispetto a quest’ultima destinazione commerciale o artigianale.
Il giudice amministrativo afferma anche che per la P.A. sussiste solo la facoltà (e non anche l’obbligo) di provvedere alla regolarizzazione della SCIA ogni volta che sia possibile, cosa che, nel caso di specie, non si configura proprio per l’incompatibilità di una destinazione quasi esclusivamente commerciale con la destinazione residenziale prioritaria dell’area.
Nonostante, infatti, non vi siano indicati precisi parametri dimensionali e numerici nelle NUEA, il rapporto di prevalenza funzionale della destinazione residenziale rispetto a quella commerciale appare implicita nella ratio della disposizione di PRG e nel caso di specie.
L’atto amministrativo impugnato, nella parte conclusiva, afferma poi che il futuro riutilizzo dell’immobile (a seguito della cessazione delle attività esistenti) impone una riqualificazione generale dell’immobile sotto il profilo igienico-sanitario, impiantistico e di sicurezza statica. Tale capo di motivazione risulta pleonastico, poiché relativa ad un’attività futura, ma comunque l’attività commerciale risulta, per la P.A., incompatibile con la destinazione urbanistica dell’area interessata.
[M. Demichelis]
VARIANTE AL PRGC E OSSERVAZIONI: L’ERRORE MATERIALE DELLA P.A. NON SUSSISTE SE, IN SEDE DI CONTRODEDUZIONE ALLE OSSERVAZIONI DEI PRIVATI, L’AMMINISTRAZIONE ESPLICITA LA PROPRIA REALE VOLONTÀ SENZA MARGINI DI INCERTEZZA
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 326/2014 – sent. 26 febbraio 2020, 139
Pres. Testori, Est. Cattaneo
[Società Aurora Multiservices S.r.l. c. Comune di Strambino]
La s.r.l. ricorrente ha impugnato la deliberazione del Consiglio Comunale di approvazione della terza variante generale al PRGC (con particolare riferimento a due tavole cartografiche), sollevando l’illegittimità della stessa sotto il profilo dell’eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria, illogicità gravi e manifeste e perplessità nel procedimento.
Punto nodale della vicenda concerne la mancata correzione, da parte dell’amministrazione dell’errore materiale presente nelle Tavole di piano, mentre in delibera era prevista la suddivisone di un compendio in due sub-comparti.
In particolare, attraverso il deposito di osservazioni nella fase di elaborazione della variante, era stata fatta richiesta da ulteriori due ricorrenti che si univano alla s.r.l., per i quali in via preliminare è stata poi dichiarata la mancanza di interesse a ricorrere, dell’inserimento di alcuni terrenti in un’area normativa diversa da quella prevista, per consentire che venissero svolti lavori per la realizzazione di un intervento residenziale.
Dalla deliberazione, però, è emerso che la P.A. non è incorsa in un errore materiale, né pertanto può essere sollevata l’eccezione (come fatto dalla s.r.l. ricorrente) di contraddittorietà della deliberazione del Consiglio, proprio perché, in sede di controdeduzione alle osservazioni, veniva esplicitata dal Consiglio Comunale stesso la volontà di attribuire la destinazione richiesta solo a specifici lotti e non a tutte le aree menzionate dai privati.
Il giudice amministrativo specifica in punto che, pur se le osservazioni avrebbero dovuto essere inserite fra quelle parzialmente accolte e non fra quelle accolte, l’irregolarità non è vizio dei provvedimenti impugnati, proprio perché, nella risposta alle osservazioni, viene esplicitato dalla P.A. quale fosse la reale volontà dell’amministrazione, senza margini di incertezza.
Inoltre, in riferimento alla contestazione per la quale la scelta pianificatoria compiuta non è logica, il TAR precisa che una generica affermazione di illogicità della perimetrazione da parte della P.A., effettuata dalla ricorrente senza la formulazione di specifici motivi o la deduzione di elementi concreti, non può essere accolta come censura, in mancanza di prove.
Il giudice amministrativo respinge quindi il ricorso.
[M. Demichelis]
L’INTERESSE RESIDUO ALLA PRONUNCIA E LA CARENZA DI INTERESSE A RICORRERE NEL CASO DI COMMESSE PER LA REALIZZAZIONE DI OPERE CIMITERIALI: IL LAVORO DELLA COMMISSIONE DI GARANZIA DEL COMUNE E LA NON VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI LEGALITÀ E TRASPARENZA DEL REGOLAMENTO COMUNALE
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 473/2016 – sent. 13 maggio 2020, 280
Pres. Testori, Est. Faviere
[Torchio S.r.l. c. Comune di Torino]
Ricorrente di tale giudizio è una s.r.l. che svolge attività di lavorazione di marmi e fornitura di articoli funerari e che gestisce servizi di progettazione e ambientazione di opere cimiteriali.
Tale s.r.l. nel corso del 2015 ha ricevuto cinque commesse per la realizzazione di cinque edicole, per le quali i committenti, privati cittadini, hanno formulato correttamente istanza per la concessione delle aree cimiteriali corrispondenti.
Tali istanze, però, sebbene attestate come conformi da parte dell’ufficio tecnico della S.p.a torinese competente, non hanno trovato il favore della Commissione di Garanzia per la Qualità delle Opere Cimiteriali e, pertanto, i destinatari hanno presentato ricorso al TAR per motivi di violazione di legge ed eccesso di potere nei pareri negativi emessi dalla Commissione, domandando anche l’annullamento di alcuni articoli (artt. 26bis, c. 1 e 4 e 66, c. 3) del Regolamento Comunale per il servizio mortuario e dei cimiteri (n. 264).
In sostanza, gli aspetti determinanti della questione concernono il rito processuale; in particolare il giudice amministrativo considera la questione dell’eccezione di improcedibilità, sollevata dalle parti resistenti e condivisa dalla ricorrente, per sopravvenuta carenza di interesse.
Infatti, tutti i pareri negativi che sono stati formulati dalla Commissione sono stati poi riformati dalla stessa a seguito degli adeguamenti progettuali presentati, cui hanno fatto seguito le relative autorizzazioni. Parte ricorrente, ha sostenuto poi che, comunque, una pronuncia nel merito “non sarebbe del tutto inutile”, in relazione alla richiesta di annullamento delle disposizioni del Regolamento comunale.
Viene sottolineato che proprio il disciplinato procedimento per l’approvazione dei progetti rappresenterebbe il presupposto genetico delle illegittimità censurate nel ricorso: a parere della parte ricorrente, il regolamento risulterebbe privo di criteri oggettivi e predefiniti per la progettazione architettonica delle opere funerarie, lasciando quindi alla P.A. un potere arbitrario e, di conseguenza, lesivo dei principi di trasparenza e legalità.
Il giudice amministrativo rileva che l’interesse a ricorrere è una condizione dell’azione che deve permanere per tutta la durata del giudizio [ex multis Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2010, n. 6549], ma nel caso di specie non si è verificato tale presupposto proprio perché le censure alla normativa comunale non resistono alla prova dei fatti: in primis, i richiedenti hanno avuto la possibilità di variare i loro progetti per ottenere valutazione positiva e il procedimento disciplinato assolve, quindi, alla sua funzione di offerta di sede per la conoscenza e la ponderazione degli interessi in gioco.
Viene precisato, inoltre, che l’interesse residuo alla pronuncia può essere rinvenibile solo se permangono lesioni concrete ed attuali della sfera giuridica degli interessati, che siano direttamente e materialmente connesse con il merito delle censure [cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11 dicembre 2017, n. 5786].
Dopo aver ricordato che, nonostante la Commissione si avvalga di una Concessionaria quale organo consultivo, il ruolo di indirizzo permane in capo all’Amministrazione, il giudice amministrativo sottolinea che la presentata richiesta di risarcimento del danno presentata dalla ricorrente, per il protrarsi dei termini e il conseguente danno da perdita delle committenze, non è supportata da termini specifici e non è stata coltivata.
Il TAR dichiara improcedibile il ricorso e respinge la richiesta di risarcimento del danno.
[M. Demichelis]
ENTI LOCALI
PER IRROGARE UN “DASPO” È NECESSARIO ACCERTARE UNA CONDOTTA ATTIVA IN CAPO AL DESTINATARIO
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 432/2019 – sent. 20 maggio 2020, n. 303
Pres. Salamone, Est. Cerroni
[Omissis ed altro c. Ministero dell’Interno]
Con la sentenza in oggetto il TAR annulla due provvedimenti di interdizione all’accesso a luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (c.d. DASPO), emessi dal Questore di Torino nei confronti di due tifosi in seguito ad una partita di calcio disputatasi nel gennaio del 2019 in uno degli stadi della Città. A margine di tale incontro – si evince dalle annotazioni di Polizia Giudiziaria richiamate dalla sentenza – vi era stato uno scontro, prima verbale e poi fisico, tra gruppi di tifoserie avversarie; i due ricorrenti erano stati identificati (da un fotogramma estratto da un filmato della Polizia) come presenti sul posto, ma solo nell’atto di “camminare insieme ad altri tifosi”, tanto che la DIGOS ne aveva escluso comportamenti di rilevanza penale. Il Questore, pur prendendo atto di questa circostanza, aveva emanato il DASPO – della durata di cinque anni – affermando che i due tifosi, con la loro “presenza” sul posto insieme ad altri, avevano “rafforzato lacapacità degli autori materiali degli scontri di commettere i fatti illeciti … descritti, essendosi questi ultimi potuti avvalere della forza dell’intero gruppo, contribuendo ad innalzare l’animosità tra le due tifoserie opposte”.
Entrambi i DASPO non sono stati convalidati dal G.I.P. nella parte che imponeva ai tifosi l’obbligo di firma, presso il Comando di Polizia competente, mezz’ora prima dell’inizio di ogni partita della loro squadra. Il TAR successivamente – pur ricordando il principio di autonomia dei giudizi penale ed amministrativo – li dichiara illegittimi nella parte riguardante il divieto di accedere alle manifestazioni sportive, per travisamento dei fatti e carenza dei presupposti stabiliti dalla legge.
La sentenza indicata suscita interesse sia per l’interpretazione della disciplina di rango primario pertinente (art. 6 comma 1 della legge 401/1989), sia perché si discosta dalle valutazioni dell’Autorità di Pubblica Sicurezza evidenziandone la natura eccessivamente “preventiva”.
Quanto all’interpretazione della disciplina di legge, il TAR osserva che il legislatore ha inteso “anticipare la soglia della prevenzione – finalità alla quale è preordinato il DASPO – alle fattispecie di pericolo concreto …prodromiche” alle condotte violente, intimidatorie o minatorie. Tali condotte “prodromiche”, tuttavia, devono essere connotate da un “nesso di evidente finalizzazione alla partecipazione attiva” dell’agente agli episodi di violenza; sono perciò escluse dal raggio applicativo della disposizione le “condotte estrinsecantesi in omissioni o inerzie, che non esprimono un dinamismo commissivo riconducibile alla nozione di condotta attiva”.
Applicando questi criteri ermeneutici al caso di specie, il TAR nega che i comportamenti accertati in capo ai ricorrenti integrino i presupposti del DASPO. “Difettano nel caso di specie – motiva la sentenza – sia il connotato del finalismo evidente”, dal momento che i due tifosi sono stati colti solo nell’atto di “camminare insieme ad altri tifosi” e la DIGOS ne ha rilevato “una generica presenza in loco escludendo esplicitamente comportamenti di evidente rilevanza penale”; sia “il contrassegno della partecipazione attiva” allo scontro tra le due tifoserie. Sul punto il TAR evidenzia che la semplice “presenza fisica” sul posto non può portare a formulare alcuna “prognosi di una compartecipazione attiva [dei ricorrenti: n.d.A.] ai fatti violenti cui han dato causa altri sodali della compagine tifosa”. Né è ammissibile “qualsivoglia figura di responsabilità collettiva tout court, la quale – ricorda il Tribunale – deve pur sempre essere ricostruita come somma di responsabilità individuali omogenee, ancorché comprovabili secondo la logica del più probabile che non, qualora queste siano supportate da elementi diretti o presuntivi che consentano di affermare la inequivoca e consapevole partecipazione dei singoli alla condotta del gruppo”.
[G. Sobrino]
LA DISTINZIONE TRA ATTIVITÀ DI SOMMINISTRAZIONE DI ALIMENTI E BEVANDE E DI VENDITA AL DETTAGLIO DI PRODOTTI ALIMENTARI, IN FUNZIONE ANTIELUSIVA
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 766/2019 – sent. 16 marzo 2020, n. 196
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Sveko s.n.c. c. Comune di Torino]
La sentenza indicata ha ad oggetto un’ordinanza dirigenziale del Comune di Torino con cui è stata disposta, a carico di una società gerente un esercizio commerciale, la cessazione immediata dell’attività di “somministrazione di alimenti e bevande” – ai sensi degli artt. 9 comma 1 della l.r. Piemonte n. 38/2006 e 17-ter comma 3 del TULPS – per mancanza di titolo autorizzativo. Tale provvedimento – si evince dalla pronuncia – deriva da un’ispezione eseguita dalla Polizia Municipale presso i locali della ricorrente, nel corso della quale era stata accertata la presenza di “arredi … nella sala di vendita” quali sei “mensole d’appoggio”, ventitre sedie ed un tavolino.
La società ricorrente ha sostenuto, nel giudizio davanti al TAR, di svolgere non l’attività di “somministrazione di alimenti e bevande” contestatale dal Comune, bensì quella artigianale di “laboratorio di gastronomia – panineria”, insieme alla vendita al dettaglio dei relativi prodotti. Il TAR respinge questa tesi (e quindi il ricorso), all’esito di una precisa ricostruzione della disciplina in materia e – in particolare – della distinzione tra le attività di “somministrazione di alimenti e bevande” e di “vendita al dettaglio di prodotti di gastronomia”, corredata dal ragionato confronto delle posizioni assunte al riguardo dalla giurisprudenza, dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dal Ministero dello Sviluppo economico.
La sentenza osserva, in primo luogo, che la distinzione tra le due citate tipologie di attività commerciali è rilevante perché la legge sottopone l’esercizio della prima (“somministrazione di alimenti e bevande”) a requisiti più rigorosi rispetto alla seconda (“vendita al dettaglio di prodotti di gastronomia”), dal punto di vista dei requisiti di onorabilità; della dotazione di servizi igienici e dell’eliminazione delle cc.dd. barriere architettoniche; dei “requisiti di sorvegliabilità interna ed esterna dei locali”; e – non ultimo – della possibilità di limitarla in zone caratterizzate da vincoli di natura artistica, storica, architettonica, archeologica, acustica ed ambientale in genere. “A fronte di requisiti così rigorosi – afferma il TAR –, si pone l’esigenza di delimitare con esattezza la fattispecie del consumo sul posto di prodotti alimentari presso rivendite di generi alimentari, al fine di prevenire fenomeni elusivi che utilizzino lo schermo dell’“esercizio di vicinato” per esercitare, nella sostanza, un “esercizio di somministrazione””.
Con riferimento ai criteri per la distinzione delle due attività, la pronuncia – in secondo luogo – ricava dalla disciplina vigente principalmente quello dell’esistenza o meno di un “apposito servizio assistito finalizzato alla somministrazione”degli alimenti/bevande. Tuttavia rileva che tale criterio viene interpretato in modo diverso dalla giurisprudenza di primo e di secondo grado, dall’A.G.C.M. e dal M.I.S.E.
Più precisamente, secondo il Consiglio di Stato (viene citata la sent. 8 aprile 2019, n. 2280, della V Sezione) e l’A.G.C.M., per “servizio assistito” deve intendersi l’esistenza di un vero e proprio “servizio al tavolo”. Secondo il Ministero, invece, “l’attività di vendita al dettaglio di prodotti di gastronomia sarebbe soggetta – a differenza di quella di somministrazione – al “divieto di abbinamento” tra arredi, tavoli e sedie … che risponderebbe alla ratio di far sì che il consumo in loco dei prodotti gastronomici negli esercizi di vicinato avvenga secondo caratteristiche organizzative nettamente diverse, e in definitiva meno comode, di quelle presenti negli esercizi di somministrazione”. Infine, secondo il TAR Lazio (vengono citate le sentt. nn. 1116/2020, 9789/2019, 5195/2019 e 5231/2019), il concetto di “servizio assistito” dovrebbe essere interpretato in modo ““funzionale” …, attraverso un accertamento “caso per caso”, secondo regole di comune esperienza”.
Tra queste diverse posizioni il TAR Piemonte aderisce a quella del TAR Lazio. Essa – a differenza di quella del Consiglio di Stato, definita “formalista” – viene condivisa, significativamente, in quanto “dichiaratamente aliena da affermazioni di principio (spesso di difficile adattamento alle peculiari fattispecie)” e perché assume “come unico parametro di riferimento il convincimento del giudice desunto caso per caso, secondo regole di comune esperienza, dal complessivo contesto organizzativo dell’esercizio come descritto nei verbali degli organi accertatori, in particolare valutando se, in concreto, “l’assetto dell’organizzazione dell’offerta, da accertarsi caso per caso, (sia) rivolto a mantenere il consumo sul posto come una semplice facoltà della clientela”.
Applicando questo criterio al caso di specie, la sentenza indicata conclude che l’esercizio commerciale di cui trattasi – in base alle fotografie scattate dalla Polizia Municipale – consiste effettivamente in un’attività abusiva di somministrazione: il locale infatti non si differenzia sotto alcun aspetto da quelli di “altre, note catene di fast food o self service ben conosciute in ambito nazionale e internazionale”.
[G. Sobrino]
ILLEGITTIMO PROCEDERE ALLA MODIFICA DEI PARAMETRI TARI SENZA UN’ADEGUATA ISTRUTTORIA
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 530/2017 – sent. 4 febbraio 2020, n. 101
Pres. Salamoneed Est. Patelli
[Rialto s.r.l. c. Comune di Nizza Monferrato]
Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso presentato dalla società Rialto s.r.l. per l’annullamento della delibera del Consiglio comunale di Nizza Monferrato 30.3.2017, n. 4, avente ad oggetto “Approvazione del Piano Finanziario e Tariffe TARI 2017” ‒ e i successivi motivi aggiunti proposti per l’annullamento della delibera del medesimo Consiglio comunale 25.3.2019, n. 2, avente ad oggetto “Approvazione del Piano Finanziario e Tariffe TARI 2019”.
Quanto alla prima impugnazione la società ricorrente deduce l’illegittimità del provvedimento che individua le tariffe TARI per l’anno 2017, poiché il Comune avrebbe maggiorato del 64,7% (rispetto al 2016) il tributo senza che le ragioni questo aumento emergano da un’istruttoria o siano da ricercare in un aumento dei costi del servizio.
Partendo dalla ricostruzione normativa il TAR Piemonte evidenzia che la legge n. 147/2013 istitutiva della TARI, al fine di determinare le tariffe, consente ai Comuni di individuare i relativi coefficienti a norma del d.P.R. 27.4.1998, n. 158 (art. 1 comma 651). In particolare quest’ultima norma prevede che la tariffa di riferimento per la gestione dei rifiuti urbani è composta da una parte fissa (determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio) e da una parte variabile (rapportata alla quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione). Nella fattispecie oggetto del giudizio nonostante una diminuzione del costo complessivo del servizio il Comune di Nizza Monferrato ha aumentato la tariffa per le utenze non domestiche (segnatamente per gli ipermercati) di oltre il 50%. Tuttavia – come evidenziato dalla ricorrente – le ragioni di questo incremento non risultano da alcun atto istruttorio dell’amministrazione comunale. Non è quindi possibile comprendere la motivazione posta alla base della scelta effettuata dal Comune.
Con i motivi aggiunti la ricorrente ha mosso censure di identico tenore anche avverso il Piano tariffario per l’anno 2019.
Il TAR Piemonte accoglie il ricorso limitatamente ai vizi di istruttoria e motivazione e a tal proposito afferma che “i provvedimenti che istituiscono e disciplinano la tariffa per la gestione dei rifiuti, pur avendo natura di atti generali, nella parte in cui costituiscono applicazione concreta anche delle disposizioni contenute nel d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158, hanno un contenuto composito, in parte regolamentare ed in parte provvedimentale (con particolare riferimento a quella parte in cui stabiliscono il costo del servizio e la determinazione della tariffa, le modalità di applicazione della tariffa, le agevolazioni e le riduzioni tariffarie, le modalità di riscossione della tariffa, i coefficienti per l’attribuzione della parte fissa e della parte variabile della tariffa), che non può intuitivamente sfuggire a qualsiasi forma di controllo e non può pertanto essere sottratto all’obbligo della motivazione, se non al costo di rinnegare i principi fondamentali di legalità, imparzialità e buon andamento i quali, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzione, devono caratterizzare l’azione amministrativa”.
[G. Odino]
SUL POTERE DEL SINDACO DI EMANARE ORDINANZE CONTINGIBILI E URGENTI
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 470/2019 – sent. 4 febbraio 2020, n. 102
Est. Patelli, Pres. Salamone, Ref. Perilli
[Omissis c. Comune di Omissis]
Il TAR Piemonte accoglie il ricorso per l’annullamento dell’ordinanza adottata dal Sindaco di OMISSIS-, avente ad oggetto lo sgombero e il contenimento del numero animali da affezione detenuti in abitazione privata.
L’ordinanza impugnata, adottata sulla scorta del potere extra ordinem di cui agli artt. 50 e 54 del d.lgs. n. 267/2000, dava atto della presenza di 21 cani detenuti in box per cavalli e ne ordinava la riduzione a 5 unità. L’atto veniva motivato con riferimento alle condizioni igienico-sanitarie dell’abitazione e delle sue pertinenze, spazi definiti “estremamente angusti e bui, che provocano negli animali comportamenti stereotipati con conseguente solitudine e difficile interazione con le persone”.
La ricorrente contesta la sussistenza dei requisiti di contingibilità e urgenza necessari per l’adozione di ordinanze extra ordinem da parte del Sindaco. Ai fini della corretta interpretazione del potere di emanare tali ordinanze, la contingibilità della situazione va intesa quale accadimento di un evento eccezionale e imprevedibile che devia dalla catena regolare degli avvenimenti e richiede dunque l’esercizio di un potere atipico e residuale per farvi fronte (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. V, 20 febbraio 2012, n. 904); mentre il carattere dell’urgenza va ricondotto ad una situazione di pericolo attuale non fronteggiabile con gli ordinari strumenti.
Poiché lo stesso ordine di riduzione graduale del numero di animali e l’assenza di un termine per provvedere all’ordine si pongono in contrasto con l’ipotetica esistenza di una situazione di urgenza, il Collegio ha ritenuto fondato e assorbente tale motivo di ricorso. Ciò in quanto, dalla motivazione dell’ordinanza, non è possibile evincere la sussistenza dei presupposti fondamentali e imprescindibili per l’adozione del provvedimento de quo.
[V. Vaira].
ISTRUZIONE&UNIVERSITÀ
È IMPROCEDIBILE PER SOPPRAVENUTA CARENZA DI INTERESSE IL RICORSO AVVERSO IL PROVVEDIMENTO DI NON AMMISSIONE DELLO STUDENTE ALLA CLASSE SUCCESSIVA QUALORA NON SIA STATA IMPUGNATA ANCHE LA NUOVA VALUTAZIONE DEL CONSIGLIO DI CLASSE INTEGRATIVA DEL PROVVEDIMENTO INIZIALMENTE IMPUGNATO
T.A.R. Piemonte, Sez. II – R.G. 893/2019 – sent. 3 febbraio 2020, n. 96
Pres. Testori, Est. Limongelli
[Omissis c.Ministero dell’istruzione dell’università e della ricerca]
All’esito dell’anno scolastico 2018/2019, l’ammissione dello studente omissis alla classe successiva veniva sospesa, con atto del consiglio di classe del giugno 2019, data la valutazione insufficiente riportata in due materie. A esito delle prove di recupero sostenute nel successivo mese di agosto, il consiglio di classe decide, in via definitiva, la non ammissione dello studente omissis alla classe successiva, non avendo questi riportato una valutazione sufficiente nelle due materie suddette. Nell’ottobre 2019, genitori dello studente impugnano, chiedendone l’annullamento, i verbali del consiglio di classe con i quali era stata disposta, in un primo momento, la sospensione dell’ammissione alla classe successiva e, in seguito, la conferma della non ammissione. I genitori lamentano che nonostante lo studente fosse affetto da disturbi specifici dell’apprendimento, il consiglio di classe non avesse applicato le misure compensative e dispensative nel piano didattico personalizzato (PDP), adottato sulla base delle indicazioni dell’amministrazione sanitaria, né nel corso dell’anno scolastico e né durante le prove di recupero.
Pronunciandosi sulla domanda cautelare proposta dai genitori, il Tar dispone, con ordinanza del novembre 2019, la ripetizione delle prove di recupero entro il termine del 30 novembre 2019. Secondo l’argomentazione dei giudici amministrativi, dalla documentazione depositata non è possibile stabilire se allo studente fossero state effettivamente garantite, durante le prove di recupero dell’agosto 2019, le misure di sostegno prescritte nel PDP. I giudici sottolineano, inoltre, che rimane impregiudicata «l’ampia discrezionalità tecnica» della commissione d’esame «nel valutare il raggiungimento da parte dello studente dei livelli di apprendimento richiesti per l’accesso alla classe successiva», commissione che dovrà peraltro essere integrata da un ispettore nominato dall’Ufficio scolastico regionale.
A esito della ripetizione delle prove di recupero, il consiglio di classe conferma la non ammissione dello studente alla classe successiva. Con memoria difensiva, i genitori contestano la legittimità della nuova valutazione del consiglio di classe adottata a esito dell’ordinanza cautelare per, inter alia, mancata applicazione di alcune misure previste nel PDP.
I giudici dichiarano l’improcedibilità per sopravvenuta carenza del ricorso poiché i genitori non hanno impugnato, con motivi aggiunti o con autonomo ricorso, il provvedimento del consiglio di classe adottato a esito della ripetizione delle prove di recupero, effettuata in applicazione all’ordinanza cautelare del Tar. Anche qualora il ricorso venisse accolto e i provvedimenti impugnati venissero annullati, affermano i giudici, il provvedimento di non ammissione alla classe successiva adottato nel novembre 2019 rimarrebbe valido ed efficace, in quanto costituisce una nuova e autonoma espressione della discrezionalità tecnica del consiglio di classe che avrebbe dovuto essere oggetto di un’autonoma impugnazione.
[R. Medda]
NON APPLICABILE AI CONTRATTI PER LO SVOLGIMENTO DI INCARICHI DI INSEGNAMENTO UNIVERSITARIO LA DISCIPLINA GIUSLAVORISTICA ORDINARIA
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 336/2019 – sent. 12 maggio 2020, n. 274
Pres. Salamoni, Est. Cerroni
[Ghisleni c. Politecnico di Torino]
Con ricorso presentato nell’ottobre 2018 davanti al Tribunale di Torino, la prof.ssa Ghisleni chiedeva di condannare l’amministrazione universitaria al pagamento di un risarcimento derivante da preesistenti rapporti contrattuali tra le parti. Nello specifico, la ricorrente aveva sottoscritto con il Politecnico di Torino, tra l’anno accademico 2003/2004 e l’anno accademico 2016/2017, con la sola eccezione dell’anno accademico 2009/2010, dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa per lo svolgimento di incarichi annuali di insegnamento nei corsi universitari. La ricorrente lamenta che i contratti dissimulassero, in realtà, un rapporto di lavoro subordinato per assenza di uno specifico progetto e chiede, quindi, al giudice di riconoscere la natura subordinata della prestazione lavorativa in qualità di docente universitaria e, inoltre, di condannare l’amministrazione a pagare un risarcimento in base a quanto stabilito dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, co. 5. In subordine, la prof.ssa Ghisleni asserisce l’illegittimo utilizzo del Politecnico di Torino di una successione di contratti di docenza a tempo determinato, in violazione della direttiva 1999/70/CE così come interpretata dalla giurisprudenza europea e italiana.
Dopo che il Tribunale di Torino dichiara il proprio difetto di giurisdizione, la causa è riproposta davanti al Tar Piemonte: poiché la questione verte sull’esistenza di un rapporto di lavoro non privatizzato (qual è la figura del docente universitario), questa rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63, co. 4.
In primo luogo, nello stabilire l’infondatezza del ricorso, i giudici amministrativi dichiarano assorbita l’eccezione di prescrizione, sollevata dall’amministrazione resistente, «in aderenza al canone decisorio della “ragion più liquida”». Passando all’esame del ricorso, il Tar afferma che i rapporti contrattuali esistenti tra la prof.ssa Ghisleri e il Politecnico di Torino non rientravano nel campo di applicazione né della disciplina generale giuslavoristica, né tantomeno della disciplina dell’ordinamento scolastico, così come invece asseriva la ricorrente, ma della disciplina dell’ordinamento universitario. Ne consegue che i contratti di attribuzione di incarichi di insegnamento universitario rappresentano delle «specifiche figure contrattuali per venire incontro alle esigenze degli ordinamenti accademici […] decontestualizzati radicalmente dalle comuni fattispecie giuslavoristiche, la cui disciplina applicabile è rimessa all’autonomia negoziale delle parti nei limiti dei contenuti già fissati dal diritto positivo». Dato che i contratti di insegnamento sono stati stipulati nel rispetto della disciplina di settore, che trova applicazione in quanto lex specialis, la domanda di risarcimento viene rigettata «per la dimostrata inconferenza dei parametri normativi invocati rispetto alla fattispecie concretamente scrutinata».
[R. Medda]
NON SINDACABILI DA PARTE DEL GIUDICE AMMINISTRATIVO LE VALUTAZIONI TECNICO-DISCREZIONALI DELLA COMMISSIONE GIUDICATRICE DI UN CONCORSO PER LA SELEZIONE DI UN RICERCATORE UNIVERSITARIO
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 1044/2019 – sent. 21 maggio 2020, n. 312
Pres. Salamoni, Est. Cerroni
[Omissis c. Omissis]
La dott.ssa omissis ha impugnato gli atti di una procedura concorsuale indetta dall’amministrazione universitaria omissis per la selezione di un ricercatore universitario a tempo determinato, nonché gli ulteriori atti adottati all’esito del riesame successivo all’istanza di autotutela presentata dalla stessa ricorrente, con i quali era stato confermato l’esito iniziale della procedura.
In primo luogo, con motivi aggiunti, la ricorrente contesta la legittimità della composizione della commissione alla quale è stato demandato l’esame dell’istanza di autotutela, poiché presentava la medesima composizione della commissione giudicatrice del concorso in questione. Secondo la ricorrente, infatti, il regolamento d’ateneo per il reclutamento dei ricercatori a tempo determinato imporrebbe la nomina di una commissione con una differente composizione nel caso sia stata accertata la sussistenza di vizi di manifesta infondatezza, incongruità o illogicità negli atti della procedura. Secondo il TAR, invece, la disposizione regolamentare si riferisce alla fase procedimentale prodromica rispetto all’approvazione finale degli atti della procedura, non trovando quindi applicazione nel caso di specie. Inoltre, si riconosce la legittimità della scelta di riconvocare la medesima commissione per l’esame dell’istanza di autotutela, in quanto il potere di autotutela decisoria è sottoposto al generale principio del contrarius actus.
Il TAR prosegue nel trattare il motivo di ricorso principale con il quale la ricorrente lamenta l’illegittimità del processo decisionale seguito dalla commissione sotto una pluralità di profili. Inter alia, la ricorrente censura le modalità e gli esiti del giudizio comparativo della commissione con riguardo alla valutazione del titolo di dottore di ricerca, dell’attività didattica, dell’attività di formazione, dell’attività progettuale, e delle pubblicazioni dei candidati. Ad avviso dei giudici amministrativi, gli argomenti dedotti dalla ricorrente colgono nel segno: non si ravvisa, nella valutazione della commissione, la presenza di «vizi logici o argomentativi di rilievo tali da inficiare l’attendibilità del giudizio».
Nonostante nella giurisprudenza si registri una tendenza che vede l’espansione del sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica dell’amministrazione, ormai «approdat[o] sui lidi della censurabilità delle valutazioni amministrative ove viziate da inattendibilità alla stregua dell’applicazione di regole tecnico-valutative dall’esito opinabile», nel caso di specie « il Collegio non può non rilevare l’ardua ammissibilità della propria cognizione […] sulle doglianze svolte dalla ricorrente in quanto esse impingono pressoché nella loro totalità il merito della valutazione tecnico-discrezionale di stretta pertinenza dell’Amministrazione e, nella specie, della Commissione giudicatrice». Alla luce di tale argomentazione, il ricorso viene respinto in quanto infondato sotto alcuni profili e inammissibile con riguardo ai profili di legittimità che evocano l’esercizio di una giurisdizione di merito da parte del TAR.
[R. Medda]
SANITÀ
CRITERI DI RIMBORSO DELLE PRESTAZIONI SANITARIE SVOLTE DA STRUTTURE PRIVATE ACCREDITATE PRIMA E DOPO IL 2017
T.A.R. Piemonte, Sez. I – R.G. 887/2018 – sent. 19 marzo 2020, n. 200
Pres. Salamone, Est. Picone
[Casa di Cura Privata Città di Bra s.p.a. c. Regione Piemonte ed altri]
Con questa sentenza il TAR accoglie il ricorso di una Casa di cura privata, accreditata dalla Regione Piemonte, contro i provvedimenti regionali di assegnazione delle somme a titolo di remunerazione delle prestazioni sanitarie “di acuzie, post acuzie e attività ambulatoriale” da essa svolte nell’anno 2017.
La pronuncia espone che fino al 2017 la Regione ha previsto – nell’ambito delle prestazioni sanitarie erogate dalle strutture private accreditate ai pazienti ricoverati – un “budget” indifferenziato per le attività relative all’“acuzie” e al “post acuzie”. In coerenza con questa previsione, la Casa di cura ricorrente e l’A.S.L. CN 2 hanno stipulato un contratto, per gli anni 2014-2016, che stabiliva un “budget” suddiviso tra prestazioni ambulatoriali e di ricovero e – nell’ambito delle seconde – una somma unitaria destinata alle prestazioni per “acuzie” e “post acuzie”. Con Delibera del 3 agosto 2017 la Giunta regionale, da un lato, ha cambiato le regole per l’acquisto di prestazioni sanitarie “di ricovero e di specialistica ambulatoriale da erogatori privati accreditati”; dall’altro lato (e al contempo) – espone sempre la sentenza –, “ha stabilito la salvaguardia delle strutture accreditate che avessero raggiunto con l’Amministrazione specifiche intese, incidenti sulla determinazione e suddivisione del proprio budget produttivo, anche alla luce della disposta riorganizzazione della rete ospedaliera pubblica e quindi dei nuovi assetti organizzativi del servizio sanitario regionale, con la conseguente riparametrazione dei budget massimi di produzione per le singole aree di ricovero ed ambulatoriale”. In particolare, è stata prevista una “clausola di salvaguardia” del seguente contenuto: “con riguardo alle strutture private accreditate che, nel corso della fase di negoziazione per le annualità 2014 – 2016, avevano concluso con l’Amministrazione regionale una specifica intesa anche con riguardo all’annualità 2017, … le A.S.L., salvo esplicita richiesta di piena adesione alle nuove regole regionali da parte delle strutture interessate, provvederanno alla definizione del contratto per l’annualità 2017 in conformità ai tetti di spesa ed ai posti letto contrattati sulla base delle predette intese …”.
Il TAR, condividendo la tesi della ricorrente, ritiene tale “clausola di salvaguardia” applicabile alla sua situazione. Il contratto sottoscritto il 30 settembre 2017 tra la Casa di cura e l’A.S.L. – osserva la sentenza – riproduce lo “schema previsto dalla normativa regionale, introducendo la suddivisione tra prestazioni di acuzie e post acuzie, in luogo del criterio distintivo delle prestazioni di ricovero”. Con un ulteriore (e precedente) accordo tra la stessa ricorrente e la Regione è stato disposto il trasferimento dell’intera area psichiatrica (relativa al “post acuzie”) dalla struttura di Bra alla nuova Casa di Cura Sant’Anna di Casale Monferrato e, al contempo, il trasferimento da Casale Monferrato a Bra dell’area per “acuzie”, e sono state concordate “idonee modalità di adeguamento del budget per la struttura”. E’ perciò verosimile – secondo il TAR – che “il volume di prestazioni svolte [dalla ricorrente: n.d.A.] per l’area post acuzie abbia subito una compressione nell’anno 2017 e che il relativo aumento del volume di prestazioni per l’area di acuzie sia dovuto al nuovo assetto organizzativo”. Tale aspetto non è stato considerato in alcun modo dai provvedimenti regionali di assegnazione delle somme oggetto di ricorso; inoltre la Regione, non applicando la “clausola di salvaguardia” sopra ricordata – relativa ai contratti dell’anno 2017 –, ha trascurato “il processo di riorganizzazione aziendale ed il connesso accordo stipulato con la ricorrente”.
Per queste ragioni il TAR annulla i provvedimenti impugnati e ordina alla Regione Piemonte e all’A.S.L. CN 2 di rideterminare le somme dovute alla ricorrente a titolo di rimborso delle prestazioni sanitarie da essa svolte nell’anno 2017, in base ai criteri della sentenza.
[G. Sobrino]