Responsabilità disciplinare della dirigenza pubblica tra sanzioni contrattuali e moralizzazione ex lege
Sergio Foà – Marisa Bioletto1
Sommario: 1. Premessa – Il funzionamento delle pubbliche amministrazioni “problema nazionale antico”. 2. Dirigenza pubblica e procedimento disciplinare tra prospettive consolidate e nuovi scenari. 3. Responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare del dirigente. 4. Le sanzioni applicabili alla dirigenza: il nuovo ruolo delle sanzioni conservative. 5. Le sanzioni disciplinari conservative nei contratti collettivi delle aree della dirigenza del pubblico impiego contrattualizzato. 6. Le fattispecie correlate a sanzioni espulsive nella contrattazione collettiva della dirigenza (quadriennio normativo 2006-2009). 7. Le prospettive di riforma e l’intervento sistemico in materia di prevenzione della corruzione. 8. Il ruolo del dirigente in materia disciplinare, tra ampliamento delle competenze, discrezionalità e obbligatorietà dell’azione disciplinare. 9. Un ufficio per i procedimenti disciplinari anche per i dirigenti. 10. Alla ricerca dell’efficienza dei sistemi disciplinari nelle pubbliche amministrazioni: un processo di “moralizzazione” per legge e di ri-legificazione di fatto.
1. Premessa: il funzionamento delle pubbliche amministrazioni “problema nazionale antico”.
Nella cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014, il Presidente del Consiglio di Stato ha posto ripetutamente l’accento sul “problema nazionale antico” del funzionamento delle pubbliche amministrazioni, più volte affrontato dal legislatore ma ancora “largamente irrisolto”2.
Tra le cause principali sono annoverate la formazione e la motivazione del personale dipendente, l’organizzazione degli apparati e la difficoltà di perseguire obiettivi di efficienza3.
Una particolare censura ha riguardato la separazione tra attività di indirizzo politico-amministrativo di vertice e funzioni dell’area dirigenziale, che non ha ricevuto “adeguata realizzazione”, restando con ciò in buona parte inattuato il precetto costituzionale che vuole i pubblici dipendenti al servizio della Nazione, nell’ottica di assicurare l’imparzialità dell’amministrazione, oltre che il suo buon andamento4.
Invero la disciplina del lavoro pubblico e la materia disciplinare, come tutte le disposizioni dedicate alla tutela e alla valorizzazione dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, sono il precipitato dei principi costituzionali. Già la sussistenza di un regime speciale di responsabilità, prima fra tutte quella amministrativa, il riconoscimento di obblighi di servizio funzionali all’attività amministrativa (si pensi a quanto stabilito dall’art. 6 della Legge n. 241 del 1990 per il responsabile del procedimento) impongono particolare cautela nell’interpretazione e applicazione analogica delle regole del lavoro privato.
I più recenti interventi legislativi in materia di prevenzione della corruzione rafforzano la componente pubblicistica del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, in ragione degli interessi eminentemente pubblici connessi all’organizzazione quale strumento di esercizio della funzione amministrativa5.
Il fenomeno della ripubblicizzazione della materia disciplinare può essere esaminato sotto due profili: le fonti della disciplina e il ruolo della dirigenza pubblica.
Già il testo dell’art. 55 del D.Lgs. n. 165 del 20016, nella formulazione ereditata dal D.Lgs. n. 29/937, prevedeva la devoluzione alla contrattazione collettiva della tipologia delle infrazioni e delle sanzioni disciplinari irrogabili nei confronti dei lavoratori del c.d. pubblico impiego contrattualizzato. Tuttavia, per ciò che concerne la dirigenza pubblica, in materia disciplinare si è atteso a lungo l’intervento dei contratti collettivi delle rispettive aree.
Nel testo dell’art. 21 del T.U. n. 165 del 2001, la novella dell’anno successivo introdusse, infatti, per la prima volta espressamente, la previsione di una distinta ‘responsabilità disciplinare’ per la dirigenza8, pur senza definirla e rinviando alla determinazione contenuta nella contrattazione collettiva, risultando a quel tempo già delegificata la materia.
La novità introdotta nel 2002 non fu peraltro la delegificazione della materia, quanto piuttosto una presa di posizione sulla sussistenza di un’autonoma area di sanzioni disciplinari a carico della dirigenza, derivante dal processo di assimilazione al rapporto di lavoro di tipo privatistico e dalla conseguente applicazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori. L’evoluzione giurisprudenziale aveva distinto il dirigente ‘sostituto dell’imprenditore’ (c.d. dirigente apicale) e il dirigente minore o convenzionale, ritenendo solo il primo sottratto alla disciplina del licenziamento ‘protetto’, secondo le garanzie dell’art. 7 della Legge 300 del 1970, aprendo così la strada al principio dell’atto ‘ontologicamente disciplinare’9.
Per molto tempo, però, la contrattazione collettiva delle aree della dirigenza del pubblico impiego contrattualizzato ha evitato di affrontare compiutamente la materia, limitandosi a prevedere un’unica sanzione disciplinare, quella espulsiva, nelle due accezioni ‘con’ e ‘senza preavviso’.
Solo con la tornata contrattuale successiva all’entrata in vigore del D. lgs. n. 150 del 2009 e con l’inizio di un evidente processo di ri-legificazione della materia, paradossalmente i Contratti Collettivi delle aree della dirigenza10 provano a dare una disciplina compiuta alla responsabilità disciplinare del dirigente, introducendo ulteriori sanzioni conservative sulla scorta di quanto già previsto dalla legge di riforma.
Il D. Lgs. n. 150 del 2009, cit., ha operato un forte ridimensionamento della funzione negoziale, anche in tema di responsabilità e procedimento disciplinare. Se questo aspetto non appare in tutta evidenza dall’esame dei contratti delle aree della dirigenza, a causa della storica reticenza degli stessi ad affrontare il profilo disciplinare, esso appare ben evidente nei contratti collettivi per il personale non dirigenziale.
Con la riforma del 2009, tutta la struttura del procedimento disciplinare, per ciò che concerne i profili procedurali, ritorna nell’alveo da cui aveva avuto origine: quello della legge. Solo per le infrazioni punibili con il rimprovero verbale la disciplina resta completamente affidata alla contrattazione collettiva. Quanto ai profili sostanziali, inoltre, si possono rilevare notevoli “incursioni”, operate dallo stesso Decreto Brunetta, in quella parte della materia ancora formalmente “riservata” alla contrattazione collettiva.
Rimane il rinvio alla contrattazione collettiva per la definizione delle infrazioni e delle relative sanzioni, fatto salvo tuttavia quanto previsto dai nuovi articoli inseriti nel Decreto Legislativo n. 165/2001 dopo l’art. 5511. Ciò vuol dire che le norme introdotte con la riforma, formalmente, non chiudono gli spazi alla disciplina di fonte contrattuale, ma la integrano parzialmente – e tuttavia incisivamente – delineando in modo inderogabile alcune fattispecie sottratte alla disponibilità dei contratti collettivi. E ciò senza possibilità alcuna di recupero ad opera dei contratti stessi12, per gli effetti dell’imperatività13 delle disposizioni della legge.
Dalla lettura congiunta degli articoli 2 e 55 del D.Lgs. n. 165 del 2001, discende che la riforma non determina il ribaltamento dello schema delle competenze delineato dal previgente Testo Unico, e introduce molte deroghe alla definizione contrattuale di illeciti e sanzioni14. La stessa disposizione dell’art. 40, che include la responsabilità disciplinare tra le materie nelle quali la Contrattazione Collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge15, rafforza pienamente l’idea che «in ordine ad illeciti e sanzioni, invece, rimane la regola, ma aumentano le eccezioni. La regola continua a essere quella della definizione contrattuale, ma il decreto legislativo 150 – conformemente alla delega – introduce numerose nuove ipotesi, che si impongono ai contratti collettivi»16.
Tra le ‘eccezioni’ alla regola della previsione contrattuale, si distinguono le numerose ipotesi di licenziamento disciplinare stabilite ex lege. Il Decreto ha, infatti, introdotto nel sistema un vero e proprio catalogo di infrazioni particolarmente gravi assoggettate al licenziamento: catalogo che può essere ampliato, ma non diminuito dalla Contrattazione Collettiva, fermi restando i più generali istituti giuridici del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo17.
Questo è il quadro di riferimento in cui sono venuti alla luce i Contratti Collettivi delle aree della dirigenza pubblica, sottoscritti nel corso del 2010: essi sono intervenuti negli ‘spazi interstiziali’ lasciati liberi dalla legge, ambito nel quale rimane abilitata ad operare dopo la riforma18.
I recenti interventi legislativi, poi, intervenuti a partire dai primi mesi del 2012, proseguiti per tutta la durata del ‘Governo tecnico Monti’ e perfezionatisi con l’approvazione dei decreti attuativi in materia di prevenzione della corruzione, non paiono essersi discostati dal sentiero segnato dai decreti del 2009. Il Decreto Legge n. 5 del 201219 stabilisce che la mancata o tardiva emanazione del provvedimento da parte del dirigente e del funzionario inadempiente integra profili di responsabilità disciplinare, individuando in tal modo nuovamente una distinta fattispecie di illecito disciplinare per via legislativa e non contrattuale. Si pensi inoltre ai profili di rilevanza disciplinare delineati dalla c.d. Legge Anticorruzione20 o correlati alle disposizioni finalizzate alla razionalizzazione della spesa pubblica (c.d. spendig review)21.
2. Dirigenza pubblica e procedimento disciplinare tra prospettive consolidate e nuovi scenari.
Accanto al ridimensionamento della contrattazione collettiva, la riforma del 2009 ha previsto maggiori spazi per la figura del dirigente pubblico, procedendo a un ampliamento delle responsabilità, ma anche a un ridimensionamento della sua autonomia, particolarmente evidente in materia di procedimento disciplinare. Dall’analisi che segue, emerge la figura di un dirigente “schiacciato all’interno di un sistema di regole organizzative e procedurali che ne limitano fortemente l’autonomia e la funzione manageriale”22.
2.1 Dirigenza pubblica ed esercizio dei poteri datoriali.
Il meccanismo sul quale avevano investito le riforme degli anni Novanta per garantire l’efficienza delle relazioni di lavoro e dei sistemi disciplinari in particolare era, in primo luogo, reperire un ‘datore di lavoro’ anche per i rapporti di pubblico impiego e, conseguentemente, trasferire sulla figura del datore di lavoro pubblico i tipici poteri datoriali (direttivo, disciplinare, di controllo). Tale figura è stata identificata nella dirigenza che, avendo la responsabilità per la gestione dei rapporti di lavoro e dell’organizzazione amministrativa23, viene munita dei poteri necessari a garantire, attraverso l’adempimento contrattuale da parte dei dipendenti, il raggiungimento degli obiettivi (secondo performances predeterminate) e la soddisfazione degli interessi che trovano imputazione sull’amministrazione o di cui l’amministrazione si fa istituzionalmente carico24.
L’assimilazione del regime dei dipendenti pubblici e privati ha portato con sé una parallela assimilazione tra datore di lavoro privato e dirigenza pubblica, che tuttavia non è mai stata del tutto esplicitata e chiarita dalla legge: il dirigente pubblico dispone dei poteri del datore di lavoro privato per gestire mezzi, risorse umane ed economiche necessarie al perseguimento dell’interesse pubblico, ma la legge non chiarisce quali dirigenti pubblici siano dotati di questi poteri gestionali, né quali rischi d’impresa si accompagnino all’assunzione dei poteri direttivi25.
Si percepisce, dunque, una prima ineliminabile diversità rispetto al settore privato. In quest’ultimo il rapporto fiduciario, di natura prevalentemente soggettiva, che lega il dirigente alla proprietà aziendale, è fondamentalmente basato sulla stretta e diretta condivisione degli obiettivi di produttività previsti dalla direzione, il che inevitabilmente innalza la soglia di attenzione e di responsabilità del medesimo dirigente verso comportamenti illeciti di rilievo disciplinare, al fine di ristabilire le migliori condizioni di realizzazione degli obiettivi sul mercato. Laddove, invece, come nelle amministrazioni pubbliche, esiste una forte intercambiabilità di soggetti ed obiettivi, data anche dal fisiologico mutamento della responsabilità politica di chi si trova a capo dell’amministrazione, e dove le amministrazioni svolgono attività che le sono riservate per legge, con scarsa o nessuna pretesa di competitività sul mercato, qui, allora, è chiaro che la concentrazione o l’attrazione di interessi da parte della dirigenza pubblica è minore e minimo è «l’interesse a perseguire la devianza disciplinare, tanto quanto minimo è l’interesse che ha la pubblica amministrazione a tenere alto il livello di produttività»26.
Quasi consapevole di questa diversità di fondo e di questo inveterato vulnus, la riforma della dirigenza pubblica operata nel 2002 ha approntato meccanismi di controllo e di responsabilizzazione indiretti, tesi cioè a rendere virtuoso il sistema attraverso un impulso esterno sull’operato del dirigente, chiamato a sua volta a rispondere dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dell’ufficio – e quindi (anche) dell’adempimento da parte delle risorse umane ivi impiegate – attraverso una propria responsabilità di gestione, onnicomprensiva e valutata sul risultato da parte dell’organo politico o politico-amministrativo27.
Non hanno tuttavia funzionato, fino ad oggi, quei «circuiti di responsabilità», considerati il vero e proprio volano della riforma che, in una visione un po’ illuministica, avrebbero dovuto produrre efficienza attraverso il confronto dialettico e conflittuale fra esigenza dell’utenza, assunzioni di obiettivi e responsabilità da parte della politica, conseguente attribuzione di poteri e responsabilizzazione della dirigenza, traduzione di poteri e responsabilità nei confronti del personale nel filtro di garanzia costituito dalla contrattazione collettiva. In particolare non ha funzionato il circuito di responsabilità che avrebbe dovuto «vedere la dirigenza impegnata a rispondere, a cascata, per il raggiungimento degli obiettivi prefissatigli», sul presupposto, però, per cui l’adozione del modulo privatistico, con il conferimento di autonomia e flessibilità di gestione, creasse «condizioni idonee ad agevolare la dirigenza nel raggiungimento degli obiettivi che le sono stati prefissati e quindi consentirle di rispondere del proprio operato»28.
2.2 Il dirigente pubblico come soggetto e oggetto dell’azione disciplinare.
La presa d’atto che in questo risieda la vera falla strutturale della dirigenza pubblica e che essa determini, tra l’altro, l’ineffettività del sistema di controllo delle responsabilità dei dipendenti pubblici, emerge con tutta evidenza dalla riforma del 2009, che mira a restituire centralità al sistema di responsabilizzazione della dirigenza, anche (e naturalmente) sul versante dell’accertamento degli illeciti e dell’attivazione delle procedure disciplinari nei confronti dei dipendenti.
Sotto questo profilo emergono dalla riforma almeno quattro elementi –in parte evidenziati in letteratura – che spingono nella direzione di un forzato ma rinnovato ruolo del dirigente pubblico nell’esercizio della piena titolarità dei poteri datoriali, che tuttavia tradiscono una chiara sfiducia nella capacità/volontà del dirigente stesso di farsi carico, in piena autonomia, di tali poteri:
1. il primo concerne la limitazione della responsabilità civile, eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione a profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare, ai soli casi di dolo o colpa grave (art. 55-sexies, comma 4, del D.Lgs. n. 165/2001). In disparte la formulazione tecnica, che avrebbe più correttamente dovuto fare riferimento alla responsabilità amministrativo-contabile oltre che a quella civile29, è certo che un provvedimento di tal genere è teso ad allentare le possibili riserve del dirigente nell’accedere in particolare alle più gravi sanzioni disciplinari, in quanto limita le possibilità di rivalsa dell’amministrazione nei confronti dello stesso per una illegittimità formale o sostanziale della sanzione, eventualmente fatta valere in giudizio dal dipendente interessato;
2. un secondo elemento riguarda la previsione della segnalazione alle amministrazioni da parte di un qualunque soggetto pubblico o privato dei fatti dai quali può sorgere una responsabilità disciplinare dei dipendenti. E’ chiaro che la previsione, ampliando il novero delle ‘fonti’30 attraverso le quali il titolare dell’azione disciplinare riceve la notizia criminis, può sortire l’effetto di una estensione del controllo sui dipendenti, obbligando così il dirigente o l’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari a prendere in considerazione l’illecito segnalato al di là dell’azione effettiva del «capo struttura in cui il dipendente lavora»31. E’ altrettanto chiaro, però, il segnale di sfiducia e delegittimazione nei confronti della dirigenza pubblica, la quale, fatta «datore di lavoro», dovrebbe fruire di una comprensione piena dei poteri di controllo, direttivo e disciplinare32.
3. In direzione opposta si muove il terzo elemento, che fa trasparire un comportamento contraddittorio del legislatore: a fronte di una constatata inerzia della dirigenza e a fonte del chiaro segnale di sfiducia sopra descritto, per tutta risposta, il Decreto Legislativo n. 150 del 2009, cit. modifica l’assetto della titolarità allo svolgimento dell’azione disciplinare con l’ampliamento della competenza del dirigente capo-struttura ad infliggere sanzioni disciplinari fino alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni33.
4. Da ultimo, a parziale ridimensionamento del rilievo sopra evidenziato, per evitare lassismo e tolleranza ingiustificati, l’art. 55-sexies terzo comma del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. prevede la rilevanza disciplinare del comportamento dei dirigenti che, a fronte di fatti che appaiono rilevanti sul piano disciplinare, non esercitino o facciano decadere l’azione disciplinare34.
In sostanza, il dirigente pubblico, nel suo insieme costituito di dirigenti apicali ma anche e soprattutto di dirigenti ‘convenzionali’, diventa un soggetto bifronte, che unisce i connotati della testa manageriale a quelli del lavoratore subordinato. Il che comporta che il dirigente pubblico diventa controllore e controllato, soggetto e oggetto dell’azione disciplinare35.
3. Responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare del dirigente.
Nella prassi, anche per effetto di posizioni non sempre concordi della Corte di Cassazione e di parte della dottrina, si è alimentata la confusione tra responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare. Occorre fare chiarezza in merito alla distinzione.
3.1 La responsabilità disciplinare: l’‘araba fenice’ dell’art. 21 del D.Lgs. n. 165/2001 ante riforma.
Sin dall’originaria formulazione dell’art. 21 D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. è stato, in particolare, discusso il profilo della natura della responsabilità e il rapporto tra responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare del dirigente (ipotesi entrambe espressamente richiamate dalla norma sopra ricordata). La richiamata disposizione normativa, prima dei mutamenti sistemici operati nel 2009, non qualificava né individuava e tantomeno regolava la responsabilità disciplinare, ma rinviava ai contratti collettivi. Questi si limitavano, per loro conto, a prevedere soltanto la fattispecie del licenziamento del dirigente36.
In questo quadro di incertezza sulla qualificazione, da subito le posizioni sono state influenzate dalla corrispondente incertezza sulla configurazione giuridica del legame tra potere politico ed alta dirigenza, nodo collocato a monte rispetto all’istituto in esame. Così si è oscillato tra ricostruzioni unitarie delle due responsabilità e ipotesi indirizzate a una loro netta separazione; tra opinioni volte a dare rilevanza alla dimensione oggettiva, ed essenzialmente pubblicistica, della responsabilità dirigenziale e posizioni assestate sulla matrice contrattuale comune ad entrambe le figure37.
Gli sforzi interpretativi hanno trovato qualche eco in giurisprudenza, dove però si sono prospettate soluzioni non sempre lineari. Per la Corte di Cassazione, le due responsabilità possono in parte coincidere, in parte essere divergenti. La responsabilità dirigenziale «può prescindere da ogni rilevanza dell’elemento soggettivo (dolo o negligenza del lavoratore) per quanto riguarda il mancato raggiungimento degli obiettivi (ad esempio per difficoltà oggettive o economiche) talché può configurarsi piuttosto come una sorta di responsabilità oggettiva». Inoltre, secondo questa giurisprudenza di legittimità, «la responsabilità dirigenziale è cosa del tutto distinta da una responsabilità disciplinare o per mancanze, che presuppone sempre, quanto meno, la negligenza colpevole del lavoratore». Peraltro, «quante volte il mancato raggiungimento degli obiettivi dipende da negligenza o inerzia del dirigente, la responsabilità dirigenziale sarà del tutto uno con quella disciplinare o per mancanze […] nondimeno se il dirigente assume posizioni in contrasto con le direttive dell’assessore o del sindaco, ovvero se conduce il servizio in modo da disorganizzarlo, la responsabilità dirigenziale sarà coincidente con quella disciplinare»38.
3.2 Responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare dopo il D.Lgs. n. 150 del 2009.
Il D. lgs. n. 150 del 2009, cit. ha chiarito almeno in parte la distinzione tra i due titoli di responsabilità, cercando di delimitare il confine che le separa. Tale operazione è stata condotta attraverso la revisione dell’art. 21 del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. e attraverso la completa rivisitazione dell’art. 55 sulla responsabilità e il procedimento disciplinare.
Il decreto è tuttavia intervenuto con scarsa organicità, lasciando frammentaria la disciplina39.
A seguito delle modifiche normative del 2009, la responsabilità disciplinare del dirigente assume, anche grazie all’effetto catalizzatore sull’intervento della contrattazione collettiva, contorni molto più definiti e regolati: ciò nella misura in cui i contratti di ultima tornata si adeguano al nuovo quadro normativo, regolando compiutamente la responsabilità disciplinare della dirigenza finanche con la previsione di sanzioni conservative40.
Pertanto, la responsabilità disciplinare del dirigente, così come emerge dalla combinazione delle norme legislative e contrattuali che originano dal Decreto Brunetta, si traduce prettamente in un inadempimento contrattuale, ovverosia in una violazione del codice disciplinare rinvenibile nel contratto collettivo richiamato dal contratto individuale o nella violazione dei precetti fissati dagli artt. 55 e seguenti del D.Lgs. n. 165 del 2001 o dal codice di comportamento41. Essa è dunque correlata al corretto adempimento della prestazione nei confronti del datore di lavoro.
La responsabilità dirigenziale, invece, secondo la previsione dell’art. 21, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. in questa parte rimasto identico alla vecchia formulazione, è integrata da «il mancato raggiungimento degli obiettivi» e «l’inosservanza delle direttive», in quanto «imputabili» al dirigente. A queste ipotesi corrispondono poi diverse ’conseguenze negative’ che incidono sulla valutazione del dirigente (e che – si ritiene – non sia corretto definire con il termine di ‘sanzioni’), graduate in rapporto alla gravità dei casi.
Il testo unico non lo dice espressamente – né invero lo esplicitava in passato – ma questa responsabilità è corrispondente in via diretta all’incarico attribuito, in funzione del perseguimento degli obiettivi dell’organizzazione e dell’azione amministrativa. Del resto, il vincolo di scopo degli atti organizzativi della pubblica amministrazione «trova […] la sua strumentazione nel momento della valutazione dei risultati dell’attività» e si concretizza quindi nella responsabilità dirigenziale42. Non vi possono essere e non vi sono differenze di natura qualitativa tra “obiettivi” da raggiungere e “direttive” ricevute: entrambi gli aspetti, infatti, insistono sull’incarico dirigenziale, cioè sul risultato oggettivamente atteso dall’organo politico, in rapporto all’organizzazione dell’azione amministrativa, espressione dei valori costituzionali di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost.43.
Nel prevedere la responsabilità dirigenziale, l’art. 21 mantiene espressamente ferma “l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo”. Secondo la lettura largamente dominante, l’inciso che quella dirigenziale è una responsabilità specifica ed aggiuntiva, riferibile solo ai dirigenti della pubblica amministrazione e destinata ad affiancarsi alle altre forme di responsabilità riconducibili a tutti i pubblici dipendenti (penale, civile, disciplinare, amministrativo-contabile). La responsabilità dirigenziale, diversamente dalle altre forme di responsabilità, non tende all’applicazione di ‘sanzioni’ propriamente intese, o comunque a conseguenze di tipo afflittivo o risarcitorio per il dipendente, quanto piuttosto a consentire all’Amministrazione di ovviare a eventuali malfunzionamenti attraverso la tempestiva rimozione del dirigente che si sia dimostrato inidoneo alla funzione, in quanto non in grado di raggiungere risultati prefissati; proprio questo aspetto ha indotto talora la giurisprudenza a qualificare quella in discorso come una sorta di responsabilità oggettiva, essendo essa svincolata non solo dalla colpa del dipendente, ma anche dall’accertamento della causazione di un danno44.
Con il comma 1-bis dell’art. 21, cit. è stata aggiunta un’altra ipotesi di responsabilità, finora non tipizzata, di dubbia natura secondo alcuni45 (ma con ogni probabilità riconducibile alla responsabilità dirigenziale), consistente nella colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione.
Alle due differenti responsabilità corrispondono differenti procedure di accertamento. Diversi sono, inoltre, i soggetti legittimati ad esperire tale accertamento. La titolarità ad accertare la responsabilità disciplinare risiede in capo al dirigente di struttura o all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, mentre è l’amministrazione, mediante i meccanismi ed i sistemi di valutazione del personale dirigente, che ha titolo a verificare la responsabilità dirigenziale, attraverso gli organismi a questo deputati. Anche la procedura per l’accertamento, pur fondandosi sul medesimo principio della contestazione e del contraddittorio, segue un iter diverso quanto ai termini e quanto agli obblighi di legge che ricadono in capo al soggetto titolare dell’azione. Basti ricordare che, in caso di accertamento di una responsabilità dirigenziale che comporti la sanzione del licenziamento, l’iter procedurale prevede una tutela ulteriore in capo al dirigente che consiste nella richiesta obbligatoria del parere al Comitato dei Garanti. Tale incombenza non è invece prevista per i procedimenti disciplinari che accertino responsabilità del dirigente tali da prevedere la sanzione del licenziamento, così come più volte ribadito dalla Corte Suprema di Cassazione46.
Il risultato della revisione normativa del 2009 ha condotto ad una maggiore differenziazione delle due responsabilità, anche grazie all’individuazione di specifiche fattispecie disciplinari, tuttavia è doveroso rimarcare come la responsabilità disciplinare e la responsabilità dirigenziale, sul piano della prassi, non siano sempre distinte o chiaramente distinguibili: in uno stesso comportamento del dirigente è infatti possibile che abbiano rilievo entrambe47 e dunque la medesima condotta può essere fonte di responsabilità disciplinare e di responsabilità dirigenziale. Entrambe sono legate al genus della responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.)48, di cui costituiscono due species distinte, l’una (la responsabilità dirigenziale) legata ad un inadempimento consistente nel mancato raggiungimento dei ‘risultati’ e nella inosservanza delle ‘direttive’, l’altra (la responsabilità disciplinare) connessa alla violazione del dovere di ‘diligenza’ o dell’obbligo di ‘fedeltà’ di cui agli articoli 2104 e 2105 del Codice Civile49.
Se si riprende la metafora della doppia natura del dirigente pubblico, la responsabilità dirigenziale è riferita al ruolo manageriale e la responsabilità disciplinare è legata soprattutto al ruolo di lavoratore subordinato tout court, finalizzata a colpire esclusivamente comportamenti illeciti: due responsabilità distinte, sebbene difficilmente distinguibili per la sovrapposizione dei ruoli di cui è investito il dirigente pubblico e per la sua peculiare prestazione lavorativa.
Si tratta, in conclusione, di un “doppio binario” messo a disposizione dell’amministrazione da parte del legislatore e della contrattazione collettiva50, legato a responsabilità differenti, in molti casi rilevabili entrambe nel medesimo comportamento del dirigente.
4. Le sanzioni applicabili alla dirigenza: il nuovo ruolo delle sanzioni conservative.
Il sistema legislativo e contrattuale del 2001 si era conformato all’orientamento giurisprudenziale seguito dalla Corte di Cassazione51 in materia di responsabilità disciplinare del dirigente nel settore privato, prevedendo, quale sanzione in caso di inadempienze contrattuali del dirigente, soltanto il recesso del datore di lavoro, con esclusione, appunto, delle sanzioni conservative del rapporto di lavoro (quali censura, sanzione pecuniaria, sospensione dal servizio).
Fino all’ultima tornata contrattuale per la dirigenza (2006-2009), infatti, non si rinveniva nella contrattazione collettiva una dettagliata indicazione degli obblighi del dirigente, la cui inosservanza assurgesse a rilevanza disciplinare, né tantomeno il ventaglio punitivo prevedeva sanzioni di tipo conservativo. Anche i profili procedimentali erano alquanto scarni, con conseguente applicazione analogica, ma non generalmente condivisa, delle regole puntualmente statuite per il personale non dirigenziale52. L’assenza di sanzioni conservative, peraltro, ha comportato, di fatto, l’impunità per molti dirigenti pubblici autori di diffuse micro-illegalità non sanzionabili (per difetto di proporzionalità) con il licenziamento, ma che per altri dipendenti non dirigenti sarebbero state punite con sanzioni conservative53.
Occorre quindi realisticamente ammettere che il procedimento disciplinare soffriva di alcune evidenti patologie, alcune delle quali contenute originariamente presenti nel D.Lgs. n. 29 del 1993 e ereditate dal D.Lgs. n. 165 del 2001; altre rinvenibili nella contrattualistica specifica delle aree della dirigenza del pubblico impiego che, nella sua totalità, pur essendo investita della competenza a disciplinare la materia, ha evitato per lungo tempo di affrontare compiutamente l’argomento, fino alla tornata contrattuale conclusasi successivamente al decreto del 2009. Per questa categoria di dipendenti pubblici l’impatto del procedimento disciplinare causato dal Decreto Brunetta del 2009 è stato ritenuto – in maniera del tutto condivisibile – ‘da anno zero’54, dato atto che da quel momento partono in parallelo la normativa legislativa e quella contrattuale, segnando un’inversione di rotta sotto il profilo della tipologia sanzionatoria.
Infatti, nelle disposizioni del 2009 l’accentuazione della configurazione di lavoratore subordinato del dirigente non apicale (c.d. dirigenza convenzionale o pseudo-dirigenza) si spinge fino al punto di inserire, nel corpo del decreto, alcune ipotesi55 di infrazioni tipizzate cui conseguono sanzioni sicuramente disciplinari di tipo conservativo a misura della dirigenza pubblica: viene così infranto, in primis per via legislativa, il dogma della non ipotizzabilità di sanzioni conservative per i dirigenti56.
Che un dirigente possa essere, infatti, sanzionato con sanzioni disciplinari conservative è un elemento di discontinuità con il precedente assetto della dirigenza pubblica e con l’assetto della dirigenza privata, nei confronti della quale la giurisprudenza ha tendenzialmente escluso che il datore di lavoro possa comminare sanzioni conservative in ragione della posizione del dirigente quale alter ego dell’imprenditore.
La giurisprudenza amministrativa, nei confronti di una tipica dirigenza convenzionale professionale (la dirigenza sanitaria medica), riconosceva l’inapplicabilità delle sanzioni conservative, ritenendo che il contratto collettivo di lavoro del personale del S.S.N. allora vigente avesse fortemente accentuato i caratteri distintivi del rapporto di lavoro della dirigenza rispetto alle rimanenti categorie di lavoratori di quel comparto, assimilando la disciplina del personale dirigente sanitario medico e non alle caratteristiche del rapporto di lavoro privato dei dirigenti d’azienda. Ai dirigenti medici e non medici riteneva pertanto comminabile la sanzione del recesso dal rapporto di lavoro, atteso che a costoro non si applicano le misure disciplinari che comunque consentano la conservazione del posto di lavoro, non rilevando per la categoria dirigenziale, inoltre, la mancata pubblicazione di un codice disciplinare che preveda comportamenti punibili con sanzioni conservative graduate a seconda della gravità del comportamento57.
In relazione a questo aspetto la revisione del procedimento disciplinare del 2009 opera una torsione del sistema consolidatosi a seguito della contrattualizzazione, concordemente orientato a prevedere esclusivamente sanzioni di tipo espulsivo. Sulla scorta della previsione legislativa sono di seguito (quasi contemporaneamente) intervenuti tutti i Contratti collettivi della dirigenza, in fase di negoziazione proprio nel periodo di gestazione del Decreto Legislativo in menzione.
Un primo passo, in fondo, era già stato mosso in questa direzione per la dirigenza delle Autonomie Locali nel 2006, dove la contrattazione collettiva, pienamente in linea con l’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, stava restringendo sempre di più la figura del dirigente pienamente immedesimato nell’imprenditore e stava adeguando la figura dello pseudo-dirigente al lavoratore subordinato tout court58.
In letteratura è sottolineata la difficoltà di giustificare sul piano sistematico, per i dirigenti, la sanzione della sospensione dal rapporto di lavoro e dalla retribuzione, in quanto tale sanzione pare incompatibile con la regola della temporaneità dell’incarico e la valutazione del dirigente in ragione dei risultati ottenuti nel corso del singolo incarico59. Secondo tale lettura l’unica sanzione conservativa possibile nei confronti del dirigente sarebbe di natura economica, non certamente incidente sul trattamento economico fondamentale, ma solo su quello accessorio, da graduarsi necessariamente in ragione della gravità dell’inadempimento. La sospensione dal servizio è ritenuta altresì incompatibile e poco convincente in quanto il legislatore non prevede chi sia chiamato a svolgere le funzioni amministrative e datoriali del dirigente sospeso60.
5. Le sanzioni disciplinari conservative nei contratti collettivi delle aree della dirigenza del pubblico impiego contrattualizzato.
A parziale compensazione di questo segnalato difetto della disposizione legislativa sono intervenute alcune previsioni contrattuali ‘correttive’. In particolare, il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro dell’area della Dirigenza Medico-Veterinaria sottoscritto il 6 maggio 2010 prevede la possibilità di differire l’applicazione della sanzione della sospensione ovvero di convertire la stessa in una sanzione pecuniaria61. Data l’inderogabilità della norma di legge, tale clausola è applicabile solo per quelle fattispecie aggiuntive, individuate dal Contratto Collettivo, che prevedano la sanzione della sospensione dal servizio e non si applica nei casi di sospensione di cui agli articoli 55-bis e 55-sexies del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit.
Tale soluzione, pur risolvendo il problema gestionale dell’assenza della figura dirigenziale a seguito di sospensione, pone tuttavia almeno due ordini di incognite.
In primo luogo, ci si domanda quale ripercussione possa avere la sanzione pecuniaria sullo stato giuridico ed economico del dipendente, poiché, continuando a svolgere la sua prestazione lavorativa, non si può certo pensare che si possa procedere fittiziamente a una interruzione della carriera e dell’anzianità di servizio del dirigente (ad esempio ai fini previdenziali), al pari di quanto avverrebbe con l’applicazione della sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione. Per questo motivo non pare che la sanzione pecuniaria possa essere in tutto analoga ed equivalente, sotto il profilo afflittivo, alla sospensione dal servizio: la contrattazione ha previsto una coincidenza negli effetti economici di breve periodo, ma non si è interrogata sugli effetti nel lungo periodo. Nel concreto, infatti, la conversione della sanzione nei termini previsti dal contratto, se da un lato procura certamente un vantaggio per l’Azienda, dall’altro si configura come uno ‘sconto di pena’ se rapportata al dirigente, il quale non è così soggetto alle ripercussioni negative sulla continuità della carriera derivanti da una sospensione dal servizio.
In secondo luogo, suscita qualche perplessità il fatto che il soggetto che ‘converte’ la sanzione non sia lo stesso soggetto che la infligge: la titolarità ad infliggere la sanzione, infatti, sussiste in capo al dirigente della struttura in cui il dipendente lavora o all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, mentre è l’Azienda (il direttore generale, dunque) che, con provvedimento motivato e previo consenso del dirigente, può trasformare la sospensione in sanzione pecuniaria. Premesso che non vi è perfetta coincidenza tra le due sanzioni, come si è visto, tale azione di conversione assume caratteri molto simili a quelli di una vera e propria procedura conciliativa, avviata però su iniziativa dell’amministrazione a procedimento disciplinare ormai concluso (l’irrogazione della sanzione è già avvenuta ad opera dei soggetti titolari dell’azione disciplinare, anche se non vi è stata esecuzione della sanzione), e quindi da un soggetto diverso da quello che è stato investito, in via legislativa, del potere di decidere. Sorgono dunque dubbi in merito alla legittimità di tale soluzione contrattuale.
La bontà della soluzione può essere recuperata sotto un differente profilo. Questo ‘rimedio’ alla sospensione dal servizio introdotto dai Contratti Collettivi delle Aree della Dirigenza del S.S.N. è comprensibile e condivisibile se osservato con pragmatismo: in un momento storico caratterizzato da ristrettezze economiche delle Pubbliche Amministrazioni, riduzione degli organici e forti limitazioni alle assunzioni, una sanzione disciplinare nei confronti di un dirigente che ne comporti l’assenza dal servizio – sebbene comminata per validi motivi disciplinari – finirebbe per trasformarsi in una ‘sanzione’ ancor più gravosa a carico della Pubblica Amministrazione di appartenenza e, in via mediata, nei confronti degli amministrati/utenti. In questi casi il vero soggetto sanzionato sarebbe l’amministrazione pubblica, che verrebbe a trovarsi nella condizione di dover comunque garantire un servizio ai propri amministrati, privata degli strumenti necessari a consentirne l’adeguatezza.
Se si volge lo sguardo ai Contratti Collettivi delle altre Aree della Dirigenza del pubblico impiego contrattualizzato, si nota che il rimedio della conversione della sospensione dal servizio in sanzione pecuniaria è una soluzione isolata, circoscritta ai soli Contratti del Servizio Sanitario Nazionale, che si distinguono per originalità, smentendo il pregiudizio del c.d. ‘effetto fotocopia’ delle materie trasversali in tutti i contratti collettivi..
La contrattazione collettiva deve ‘calare’ nella realtà dei singoli comparti le disposizioni che il legislatore continua a disciplinare unitariamente in maniera indifferenziata, pensando che «il lavoro pubblico rimane unitario [per il legislatore], mentre nella realtà è plurale»62.
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I Contratti Collettivi delle Aree della Dirigenza del Servizio Sanitario Nazionale si differenziano dai contratti delle altre aree dirigenziali per ulteriori aspetti del sistema disciplinare. Mantenendo ferma la focalizzazione sulla tipologia delle sanzioni conservative, sono gli unici contratti di area dirigenziale che prevedono la censura scritta tra le sanzioni irrogabili.63 Per contro, tutti i CCNL delle altre aree dirigenziali contemplano come sanzione minima irrogabile esclusivamente la sanzione pecuniaria (generalmente compresa tra un minimo di € 200,00 ed un massimo di € 500,00, con l’unica eccezione del CCNL della dirigenza del comparto Scuola in cui la sanzione pecuniaria varia da un minimo di € 150,00 ad un massimo di € 350,00)64.
Pare difficile comprendere le ragioni di tale scelta: la censura (anche denominata ‘rimprovero scritto’ nei CCNL del personale non dirigenziale) è la tipica sanzione irrogabile a un profilo professionale con limitata autonomia decisionale, per infrazioni disciplinari lievi o lievissime, che poco e male si addice ad essere applicata ad una figura dirigenziale, per la quale si auspica l’adesione ad un codice di comportamento e ad obblighi di profilo corrispondente al ruolo ricoperto e, in caso di infrazioni, l’irrogazione di sanzioni proporzionate alla violazione perpetrata e soprattutto commisurate alle responsabilità affidate.
La posizione assunta dai Contratti del S.S.N. conferma ed anzi enfatizza l’ampliamento del campo della figura dello “pseudo-dirigente”, sempre più accostato al lavoratore subordinato, secondo la linea recentemente segnata dalla Corte di Cassazione.
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Una certa differenziazione tra aree contrattuali, operata attraverso la valorizzazione delle specificità professionali emerge anche nella definizione delle fattispecie correlate alla sanzione della sospensione dal servizio, laddove i Contratti delle Aree della Dirigenza tentano opportunamente di diversificare le previsioni degli illeciti adeguandole ai profili dirigenziali oggetto di regolazione.
Degna di menzione è la previsione di una distinta fattispecie disciplinare integrata dall’inosservanza grave e ripetuta dell’obbligo di rispettare i termini per la conclusione del procedimento65, alla quale è associata la sanzione della sospensione dal servizio e della retribuzione da tre giorni a tre mesi. Tale fattispecie è riportata nei contratti di tutte le aree della dirigenza ad eccezione di quella del Servizio Sanitario Nazionale, dove evidentemente sono in minoranza qualifiche dirigenziali con competenze di tipologia prettamente amministrativa (sebbene la responsabilità della gestione dei procedimenti amministrativi faccia capo anche ai profili professionali degli ingegneri ed architetti, ivi presenti ma comunque minoritari)66.
Assume rilevanza il richiamo agli obblighi connessi al rispetto dei termini del procedimento, di cui all’art. 7, comma 2 della Legge n. 69 del 2009, soprattutto perché i contratti collettivi in questo caso hanno anticipato la legge nel classificare la violazione delle norme sul procedimento come illecito disciplinare (e non solo come elemento di valutazione connesso alla responsabilità dirigenziale)67.
L’anticipazione in questa direzione operata dai Contratti Collettivi è particolarmente interessante anche perché pare suggerire – attraverso lo strumento negoziale – la direzione legislativa da seguire per perseguire i principi di efficienza ed efficacia, in coerenza con i più generali intenti di incremento della produttività della pubblica amministrazione: la diretta responsabilizzazione della dirigenza pubblica68. Sotto diversa prospettiva, è spia di una sostanziale consonanza verso il ‘nuovo’ orientamento normativo che riafferma modelli autoritativi-burocratici a cui anche il dirigente deve soggiacere.
In direzione opposta, in termini di mero recepimento di previsioni normative nel tempo intervenute, si muove invece la previsione di una specifica fattispecie disciplinare correlata al mancato rispetto degli obblighi connessi alla cosiddetta ‘trasparenza’ dell’attività delle pubbliche amministrazioni, in particolare alla violazione degli obblighi in merito all’uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro69. La fattispecie disciplinare, che si rinviene in tutti i Contratti Collettivi delle Aree della dirigenza70 con la sola eccezione dei Contratti del Servizio Sanitario Nazionale e nel Contratto del Personale Dirigente dell’Area VIII (Presidenza del Consiglio dei Ministri), specifica ed esplicita quanto era nelle intenzioni del legislatore della riforma. Peraltro, il Dipartimento della Funzione Pubblica aveva chiarito che: «[…] L’attuazione della norma e l’inosservanza della prescrizione. La disposizione si riferisce direttamente ai pubblici dipendenti. Pur essendo questi i soggetti direttamente tenuti all’osservanza dell’obbligo, è chiaro che le amministrazioni di appartenenza debbono da un lato diramare istruzioni operative, dall’altro fornire gli strumenti per l’identificazione ai dipendenti interessati, in modo che la norma venga attuata in maniera uniforme nell’ambito della stessa amministrazione. L’inosservanza della prescrizione verrà valutata secondo i criteri ordinari della responsabilità disciplinare con l’irrogazione delle sanzioni in relazione alle violazioni accertate.» [corsivo nostro] 71.
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Anche sulla scorta dell’analisi appena condotta, l’introduzione delle sanzioni conservative anche per la dirigenza può essere compresa se letta all’interno della visione complessiva in cui la terza riforma del pubblico impiego colloca il procedimento disciplinare: il potere disciplinare costituisce la via maestra per il raggiungimento di maggiori livelli di efficienza del lavoro pubblico72. Le critiche ritengono tale innovazione discutibile e ideologica, e censurano l’opinabile passaggio dall’eccesso del mancato utilizzo dello strumento disciplinare (che ha caratterizzato fino a ieri il pubblico impiego) all’eccesso opposto che conduce all’uso obbligatorio e pervasivo dell’azione disciplinare73.
6. Le fattispecie correlate a sanzioni espulsive nella contrattazione collettiva della dirigenza (quadriennio normativo 2006-2009).
Il D.Lgs. n. 150 del 2009, cit. ha suscitato ampia eco mediatica per la diffusa trattazione della materia disciplinare contenuta nel Capo V e, in particolare, per l’attenzione riservata alle ipotesi di licenziamento disciplinare. La discussa norma dell’art. 55-quater del Testo Unico («Licenziamento disciplinare»), pur mantenendo ferme le fattispecie di recesso per motivi disciplinari già previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva, descrive, infatti, una serie di infrazioni per le quali è contemplata l’applicazione del licenziamento, nella duplice versione con e senza preavviso. La dottrina è concorde nel ritenere la disposizione di interesse non tanto per la tipizzazione delle fattispecie – che di certo non necessitavano di una rappresentazione legale ai fini di una considerazione in termini di gravità delle condotte – quanto per l’indicazione di legge (inderogabile da parte della contrattazione collettiva) per cui tali condotte debbano essere obbligatoriamente perseguite con la massima sanzione espulsiva («si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi»)74.
L’eloquente utilizzo del termine comunque nel preambolo al catalogo delle condotte che determinano l’applicabilità della massima sanzione, tende a rimarcare la sovranità dimezzata dell’autonomia collettiva nella determinazione della tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni, pur nel rispetto dei criteri di proporzionalità e del divieto di automatismi espulsivi.
Peraltro, i Contratti Collettivi delle Aree della dirigenza che erano a quell’epoca in fase di negoziazione, nel definire le ulteriori ipotesi di licenziamento attraverso la tipizzazione di ulteriori fattispecie, non si distinguono per originalità nella trattazione. La maggior parte dei Contratti si limita a richiamare, accanto alle ipotesi considerate nell’art. 55-quater del D.Lgs. n. 165 del 200175, le fattispecie correlate a delitti contro la pubblica amministrazione già previsti o richiamati da specifiche norme di legge quali il D. Lgs. n. 267 del 2000 e la Legge n. 97 del 2001. Oltre a tali ipotesi ricorre il riferimento alla recidiva plurima nelle mancanze che integrano le fattispecie disciplinari per cui sono previste sanzioni minori o comunque le mancanze, non meglio definite, che siano caratterizzate da particolare gravità o ancora il richiamo alle cosiddette ‘fattispecie aperte’76. In tutti i Contratti sono invece ben delineate fattispecie che richiamano i comportamenti ricadenti nel c.d. mobbing ed i comportamenti che delineano forme di violenza sessuale o le condotte contro la dignità della persona. Solo nei Contratti Collettivi della dirigenza del Servizio Sanitario è definita una fattispecie aperta che richiama chiaramente anche la rilevanza del comportamento “fuori servizio” di gravità tale da legittimare il ricorso al licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.)77. Parimenti, nel corpo del Codice Disciplinare dei medesimi è da segnalare il riferimento alle violazioni in merito all’attività libero professionale che si configuri come grave conflitto di interessi o concorrenza sleale nei confronti dell’azienda di appartenenza.78
7. Le prospettive di riforma e l’intervento sistemico in materia di prevenzione della corruzione.
Se la Riforma del 2009 si è contraddistinta per il messaggio di un maggior rigore da perseguire per legge, in una prospettiva di «moralizzazione» della pubblica amministrazione, contro alcune manifestazioni di «fannullonismo»79, assenteismo80, o di vera e propria illegalità all’interno della pubblica amministrazione, mutatis mutandis non pare totalmente differente la direzione verso cui si è mosso il successivo intervento riformatore che è sfociato nel complesso delle disposizioni normative e regolamentari in materia di prevenzione della corruzione.
L’Intesa sul Lavoro Pubblico del 3 maggio 2012 tra Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, le Regioni, le Province e i Comuni, le Organizzazioni Sindacali, salutata da queste ultime come un rinnovato riconoscimento del ruolo della contrattazione collettiva, auspicava un intervento regolativo atto a «riordinare la disciplina dei licenziamenti per motivi disciplinari fermo restando le competenze attribuite alla contrattazione collettiva nazionale» ed a «rafforzare i doveri disciplinari dei dipendenti prevedendo al contempo garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo» (presumibilmente anche dei dirigenti), nell’ambito delle misure da adottare per disciplinare il mercato del lavoro.
L’Intesa pareva inaugurare una nuova stagione di produzione legislativa.
E’ infatti rimasto per un certo tempo in via di definizione uno schema di disegno di legge recante delega in materia di riforma del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni e di trasparenza81 che prevedeva l’adozione di uno o più decreti legislativi volti a riformare, anche mediante modifiche al Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165, la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni. Tra gli obiettivi e gli ambiti di intervento si prefigurava una «revisione della disciplina della dirigenza pubblica in relazione ai profili del reclutamento, del conferimento degli incarichi nel rispetto del principio di pari opportunità di genere, dei poteri e delle responsabilità» (Art. 1, comma 1, al punto 5) – [corsivo nostro]), oltre al riordino della «disciplina dei licenziamenti per motivi disciplinari, correlandola, mediante tipizzazione delle relative ipotesi legali e delle tutele, al rafforzamento dei doveri disciplinari dei dipendenti e dei dirigenti secondo le rispettive competenze, attribuzioni e responsabilità» (art. 2, comma 2, lettera l) – [corsivo nostro]). L’intervento intendeva inserirsi nel riordino della disciplina dei licenziamenti e delle relative tutele, a seguito della prevista riforma dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, poi scaturito nella c.d. Riforma Fornero (recentemente modificato dalla Legge 10 dicembre 2014, n. 183, c.d. Jobs Act per il settore privato) 82. Il testo dello schema del disegno di legge, specifico per il pubblico impiego ricalcava per molti aspetti i principi e l’impostazione della Legge Delega 4 marzo 2009, n. 15, sebbene lasciasse intravvedere maggiori aperture in materia di contrattazione collettiva e relazioni sindacali. Non emergeva invece un mutamento di rotta sulla rilegificazione della materia disciplinare.
In armonizzazione con l’intervento riformatore allora in corso sull’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per l’impiego privato, si intendeva delineare in via legislativa la casistica di reintegra del lavoratore licenziato e quella riferita al solo risarcimento, a partire dalle fattispecie sostanziali per cui tale sanzione è stata irrogata, riducendo di fatto la discrezionalità del giudice in caso di impugnazione del licenziamento disciplinare viziato.
Il contesto politico ed economico ha evidentemente posto un freno alla prevista revisione unitaria della materia del pubblico impiego, che tuttavia si è sostanziata in una numerosa serie di disposizioni, frammentate all’interno di interventi normativi di revisione della spesa pubblica, che hanno perseguito l’obiettivo di rafforzamento del ruolo, delle funzioni e delle responsabilità della dirigenza pubblica, anche al fine di garantirne effettiva autonomia rispetto all’organo di indirizzo politico83. Frequenti sono stati i richiami alla rilevanza disciplinare dei comportamenti omissivi dei dirigenti e funzionari inottemperanti alle disposizioni in materia di trasparenza, di prevenzione della corruzione, di rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti. Il richiamo alla responsabilità disciplinare pare costituire un leit-motiv, tema di fondo ricorrente della legislazione più recente: una nutrita produzione normativa che ha favorito il proliferare di fattispecie disciplinari, con il rischio di ineffettività correlato alla disorganica trattazione della materia.
Tra le misure legislative attraverso le quali si rileva una particolare attenzione alla responsabilità disciplinare, occorre ricordare la recente normativa “anticorruzione”, ove la responsabilità disciplinare è costantemente evocata come strumento di correzione per il mancato adempimento degli obblighi normativi, accanto alla responsabilità amministrativa e dirigenziale84.
Degna di nota è in particolare la riformulazione della disciplina sul Codice di comportamento del settore pubblico85.
Storicamente il Codice di comportamento, valido per tutti i dipendenti pubblici, è stato inteso quale fonte di principi e di definizione dei criteri che debbono guidare la condotta lavorativa quotidiana dei dipendenti pubblici, sui quali i Contratti collettivi puntualizzavano gli specifici obblighi comportamentali. L’efficacia disciplinare del Codice di comportamento era giuridicamente mediata dal recepimento dello stesso all’interno del contratto collettivo di comparto e dal coordinamento tra i principi enunciati dal codice e le previsioni contrattuali in materia disciplinare86. Ora, con la novella introdotta dalla c.d. Legge Anticorruzione, si profilano rilevanti novità, alcune delle quali ancora in fase di perfezionamento.
In primo luogo il Codice di comportamento diventa un atto del Governo: non è più emanato con provvedimento del Ministro della Funzione Pubblica, ma con Decreto del Presidente della Repubblica87. In secondo luogo ciascuna amministrazione pubblica ha l’obbligo (non più la facoltà) di adottare un proprio codice di comportamento, sulla base delle linee guida elaborate dalla CIVIT (ora ANAC), quale Autorità nazionale anticorruzione88.
In terzo luogo la legge stabilisce ora che la violazione dei doveri enunciati nei Codici di comportamento «è fonte di responsabilità disciplinare». Si tratta di una disposizione affatto diversa dalla precedente, che si limitava a prevedere indirizzi affinché i principi del codice venissero coordinati con le previsioni dei contratti collettivi in materia di responsabilità disciplinare. La novella, pur mantenendo ferma la competenza dei contratti collettivi nella definizione degli illeciti e delle sanzioni89, impone loro l’ulteriore vincolo di considerare illecita ogni violazione dei codici di comportamento. Se una certa violazione non è sanzionata dai Contratti, prevarrà la legge ed il procedimento disciplinare dovrà essere comunque avviato alla sua commissione. In pratica occorrerà ricondurre la violazione, non espressamente prevista, ad una delle generiche previsioni normalmente contenute nei Contratti Collettivi90.
Appare del tutto evidente la continuità del processo di rilegificazione, nel solco della riforma del 2009, riconducendo la d’interesse materia nell’alveo pubblicistico. Esemplare il continuum normativo di rilegificazione delle fattispecie comportamentali per le quali è previsto il licenziamento disciplinare, contenuto nel Codice di Comportamento generale di cui al d.P.R. n. 62 del 201391.
Le stesse tipologie di infrazioni per le quali il Codice di Comportamento prevede l’applicazione della massima sanzione si riferiscono a comportamenti direttamente correlati all’esercizio delle funzioni e dei poteri tipici della P.A., a salvaguardia e cura dell’interesse pubblico e dell’immagine dell’Amministrazione (v. art. 4, comma 6: in materia di incarichi di collaborazione accettati dal pubblico dipendente da soggetti privati che abbiano, o abbiano avuto nel biennio precedente, un interesse economico significativo in decisioni o attività inerenti all’ufficio di appartenenza; art. 6, comma 2: in materia di decisioni assunte in conflitto di interesse; art. 13, comma 9: sulla diffusione di notizie false sull’amministrazione; e soprattutto l’art. 4 in riferimento alle regalie; l’art. 5, comma 2, sulle pressioni esercitate su terzi; l’art. 14, comma 2, in materia di contratti di appalti, servizi, forniture stipulati dal dipendente pubblico in conflitto di interesse in senso lato).
Il potere disciplinare nel lavoro pubblico privatizzato non costituisce semplice espressione di autotutela del datore, con esclusiva finalità di assicurare la regolare attività lavorativa. Esso rappresenta, a differenza del settore privato, lo strumento utile a salvaguardare la funzione di cura dell’interesse pubblico, esterno al rapporto di lavoro che intercorre tra la Pubblica Amministrazione ed i propri dipendenti.
Sotto altro profilo, la stessa previsione della diretta efficacia disciplinare del Codice di Comportamento determina una diretta funzionalizzazione degli obblighi in esso previsti al diretto perseguimento delle finalità della Pubblica Amministrazione e delimita ulteriormente gli spazi riservati alla Contrattazione Collettiva in relazione alla definizione della tipologia delle infrazioni.
8. Il ruolo del dirigente in materia disciplinare, tra ampliamento delle competenze, discrezionalità e obbligatorietà dell’azione disciplinare.
Le ultime riforme hanno accresciuto le funzioni del dirigente ‘controllore’, soggetto dell’azione disciplinare, sebbene tale ampliamento – di notevole rilievo in rapporto alle competenze attribuitegli in passato in materia disciplinare – sia fortemente limitato da alcune ‘contromisure’ normative intese a ridurne l’autonomia e, per certi versi, vanificare l’investitura conferitagli in termini di ampliamento di poteri datoriali.
8.1 Il dirigente come soggetto attivo dell’azione disciplinare.
La riforma ha voluto, in generale, valorizzare il ruolo del dirigente sottolineando i suoi poteri, tra cui anche quelli di valutazione, riconoscimento dei meriti e comminazione di sanzioni nei confronti del personale. In questo contesto, l’art. 55-bis, d. lgs. n. 165 del 2001, cit., ha ampliato la competenza del dirigente della struttura in cui il dipendente lavora nella gestione del procedimento disciplinare, attribuendogliene la titolarità in riferimento ad ipotesi ulteriori rispetto a quella del rimprovero verbale e della censura, uniche situazioni in cui l’azione poteva essere esercitata da questo soggetto. Quando il responsabile della struttura è un dirigente, questi procede alla contestazione dell’addebito ed all’irrogazione della sanzione, previo espletamento del relativo procedimento, per tutte le infrazioni “di minor gravità”. Secondo norma, rientrano nelle infrazioni di minor gravità quelle per le quali è prevista l’irrogazione di sanzioni inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione sino a dieci giorni92.
Il riconoscimento in capo al dirigente pubblico del potere di irrogare sanzioni disciplinari ai dipendenti, assumendo la titolarità e responsabilità del relativo procedimento, costituisce una delle più importanti novità introdotte nel 2009. Essa corrisponde, del resto, ad una delle direttrici fondamentali dell’intervento di riforma del biennio 2008/2009, teso ad assegnare al dirigente il compito «di vigilare sull’effettiva produttività dei collaboratori che gli sono assegnati, considerando quest’ultimo responsabile delle violazioni disciplinari che non segnalerà tempestivamente» e a realizzare un’azione «per combattere la scarsa produttività e l’assenteismo» attraverso la modifica della «disciplina delle sanzioni e delle responsabilità nell’ambito del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici», in particolare semplificando ed accelerando «le fasi dei procedimenti disciplinari, con particolare riferimento a quelli per le infrazioni di minore gravità»93.
Obiettivo primario è configurare la dirigenza come centro di imputazione dei più tipici poteri datoriali (direttivo, di controllo e disciplinare), ma anche come destinataria indefettibile di sanzioni laddove tali poteri vengano male esercitati. La riforma ha poi investito sugli esiti di riscrittura tecnica delle regole disciplinari, nell’ottica di una maggiore efficienza/efficacia/speditezza dell’azione datoriale in questi ambiti94.
Atteso che la revisione del sistema disciplinare è stato obiettivo primario e diretto della c.d. riforma Brunetta, strumentale ai fondamentali paradigmi di efficienza, produttività e di lotta all’assenteismo che hanno ispirato e trascinato l’intervento del legislatore, risulta comprensibile che il punto di partenza di tale azione debba essere riferito al dirigente pubblico, pur nella consapevolezza della debolezza del suo ruolo datoriale. Per dare credibilità alle affermazioni di principio contenute nella norma, il legislatore investe il dirigente di un ruolo di protagonista all’interno dell’azione di riforma, anche attraverso l’ampliamento del suo ruolo attivo nell’azione disciplinare. Nell’impossibilità, infatti, di intervenire sui fattori (di ordine politico, sindacale ed, in definitiva, culturale) che hanno ostacolato l’efficienza del sistema disciplinare delle pubbliche amministrazioni, la soluzione individuata dal legislatore non poteva che essere di tipo tecnico, secondo una sequenza di fondo piuttosto elementare, come puntualmente evidenziato dalla dottrina:
a) rendere impermeabile il dirigente da influenze politico-sindacali, per quanto ciò sia possibile unicamente attraverso una discussa norma sull’incompatibilità tra incarichi di direzione del personale e recenti appartenenze (o vicinanze) a sindacati o partiti politici (cfr. art. 52 D.Lgs. n. 150/2009);
b) aumentare e rafforzare, questa volta declinandoli espressamente, i poteri datoriali del dirigente (di direzione/valutazione, di controllo e disciplinare);
c) guidare l’operato del dirigente in chiave procedimentale, con una puntuale indicazione di legge degli adempimenti circa la gestione del personale, la quale tuttavia svuota nella sostanza l’enunciata autonomia manageriale che si vorrebbe consegnata alla dirigenza pubblica;95
d) evocare, nel contempo, seppure mai espressamente – come evidenzieremo tra breve – una qual sorta di “obbligatorietà” dell’azione disciplinare da parte del dirigente;
e) approntare un inedito sistema di responsabilità del dirigente pubblico, ulteriore rispetto a quello derivato dalle riforme del 1998, che individua precise sanzioni per il mancato o scorretto utilizzo dei poteri datoriali espressamente previsti dalla legge96.
8.2 Discrezionalità ed obbligatorietà dell’azione disciplinare.
Proprio in merito all’obbligatorietà dell’azione disciplinare si gioca uno dei principali elementi di differenziazione ed allontanamento tra potere datoriale pubblico e privato, che muove nella direzione di una rinnovata spinta verso la pubblicizzazione della disciplina.
Nel settore del lavoro privato si è sempre affermata la lata discrezionalità del datore di lavoro in merito all’esercizio dell’azione disciplinare, considerando che la relativa iniziativa è rimessa all’apprezzamento dell’imprenditore, con i soli limiti del divieto di discriminazioni e del rispetto della parità di trattamento. La scelta datoriale di sanzionare o meno il lavoratore, infatti, nel settore privato è espressiva di prerogative manageriali ex art. 2106 c.c. (c.d. valutazione costi-benefici) e trova fondamento nel più ampio potere di direzione dell’impresa attribuitogli dall’art. 2086 c.c., a sua volta compreso nella libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost.97.
Nel settore pubblico, invece, fino al recente passato si è riscontrata una diversità di opinioni. Da una parte vi era chi riteneva che, anche a seguito della privatizzazione del rapporto, in presenza di una segnalazione si determinasse un obbligo di esercitare l’azione disciplinare da parte del dirigente. Tale posizione poggiava in parte sulla necessità di giustificare in termini obiettivi la propria condotta ai fini della responsabilità dirigenziale sulla gestione; in parte poggiava altresì sul doveroso ossequio dei principi costituzionali di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa. Dall’altra parte vi era chi sosteneva che, al pari di quanto avviene nel settore privato, il datore di lavoro pubblico godesse di discrezionalità nell’esercizio dell’azione disciplinare, poiché l’amministrazione, nella gestione del personale, utilizza strumenti privatistici diretti al conseguimento di un risultato di efficienza che può essere raggiunto anche attraverso l’utilizzo di criteri di opportunità negli atti di gestione98.
La riforma Brunetta si era mossa in senso contrario a quest’ultima ipotesi, propendendo per l’obbligatorietà dell’azione disciplinare: «il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate, in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comporta, per i soggetti responsabili aventi qualifica dirigenziale, l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in proporzione alla gravità dell’infrazione non perseguita […]»99.
Il legislatore ha cioè inteso tipizzare quali altrettante ipotesi di illecito disciplinare gli inadempimenti del titolare dell’azione dell’esercizio del potere, immaginando tale soluzione quale passo decisivo verso una maggiore effettività del sistema disciplinare. Ciò conforta una linea interpretativa di sostanziale obbligatorietà/doverosità dell’azione disciplinare da parte del dirigente, quanto meno nella dimensione dell’obbligo dell’avvio del procedimento, in presenza di un fumus di illecito commesso dal dipendente.
Che questa fosse l’idea del legislatore non sembra potersi dubitare, anche solo a mente del lessico utilizzato: si parla, in alcuni luoghi, di «autorità disciplinare procedente» (art. 55-bis, comma 7), probabilmente assimilando la natura del potere esercitato, anche in termini di obbligatorietà, a modelli più vicini al diritto pubblico che al diritto privato100. Tutto ciò contribuisce con forza a suffragare l’ipotesi di un ritorno, almeno parziale, alla «logica pubblicistica del perseguimento degli interessi generali», in quanto il potere disciplinare tornerebbe così ad essere «espressione della pretesa punitiva dell’autorità pubblica più che dell’interesse privato del datore di lavoro», preso atto – tra l’altro – «che esso viene esercitato non nell’autonomia organizzativa, tipica dell’imprenditore, ma nel rispetto di competenze definite dalla legge e attraverso un procedimento che la legge disciplina come un procedimento amministrativo, caratterizzato dalle garanzie tipiche del diritto amministrativo. […]Per molti aspetti, dunque, il diritto che regola la responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici si presenta come diritto pubblico, e non come diritto privato speciale»101.
La diversa proiezione del potere, verso interessi ultronei rispetto a quelli dell’amministrazione colpita da illecito (a difesa dell’interesse contrattuale in senso ampio del datore di lavoro), senz’altro riecheggia anche in altre disposizioni del D.Lgs. n. 150 del 2009, cit.: così la necessità di concludere il procedimento disciplinare anche in caso di dimissioni del dipendente (c.d. ultrattività del procedimento disciplinare), ai fini «degli effetti giuridici non preclusi dalla cessazione del rapporto» (art. 55-bis, comma 9), ma probabilmente per lasciare traccia di sanzioni disciplinari espulsive irrogate a mente di un futuro tentativo dell’interessato di partecipare a concorsi pubblici per l’assunzione nelle Pubbliche Amministrazioni102.
Ancora è il caso dell’obbligatorio avvio, prosecuzione o conclusione del procedimento disciplinare presso l’amministrazione di destinazione, nel caso in cui, a qualunque titolo, il dipendente venga trasferito ad amministrazione diversa da quella che ha subito l’inadempimento rilevante ai fini disciplinari.
In tale prospettiva non può non venire in rilievo che il dominus continui ad essere il perseguimento dell’interesse pubblico, che risiede nella garanzia di avere tra i ranghi della P.A. funzionari e dipendenti con caratteristiche di integrità. Ciò che rileva non è dunque l’interesse della singola Amministrazione, datrice di lavoro e ‘impresa’ pubblica, ma l’interesse generale: il potere disciplinare mira ad essere direttamente funzionalizzato al perseguimento di finalità pubbliche. Accanto alla ri-legificazione del rapporto di lavoro pubblico, in materia di responsabilità e procedimento disciplinare si assiste a una ri-pubblicizzazione sostanziale.
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In ragione dell’art. 55-sexies si può parlare di una obbligatorietà di fatto, come effetto determinato dal timore del dirigente di incorrere in sanzioni: per non sbagliare, si procederà comunque103.
Tuttavia, in nessun luogo, il legislatore prescrive l’obbligatorietà ‘giuridica’ dell’azione disciplinare, concentrandosi piuttosto verso l’individuazione di parametri che consentano una più efficace rilevazione delle responsabilità dei dirigenti in questo particolare e delicato ambito di gestione: è il caso dell’«oggettiva e palese rilevanza disciplinare» o delle «valutazioni irragionevoli o manifestamente infondate» che nell’art. 55-sexies, comma 3, determinano responsabilità del dirigente o funzionario per mancato esercizio dell’azione. La norma certamente riduce il margine di discrezionalità del dirigente verso l’avvio del procedimento disciplinare; ma, allo stesso tempo, riconosce al titolare dell’azione uno spazio di autonoma valutazione che, se adeguatamente supportato, contribuisce ad escludere una configurazione del procedimento disciplinare in termini di generale ed assoluta obbligatorietà104.
La contrazione dell’area della discrezionalità del dirigente a favore della obbligatorietà dell’azione disciplinare conferma che l’esercizio del potere disciplinare nel pubblico impiego non risponde solo ad interessi aziendalistici, ma anche (e soprattutto) ad interessi generali, di natura pubblica, riconducibili al concetto di buon andamento della pubblica amministrazione (cfr. art. 97 Cost.)105.
9. Un ufficio per i procedimenti disciplinari anche per i dirigenti.
La riflessione condotta sull’ampliamento del ruolo del dirigente, attribuito dalla Terza riforma del pubblico impiego, reca necessariamente con sé alcune considerazioni sui rapporti tra dirigente ed Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (UPD), l’altro soggetto cui è conferita la titolarità dell’azione disciplinare.
L’ampliamento delle competenze disciplinari del dirigente pone quest’ultimo in un ruolo precedentemente ‘riservato’ ad un organismo che, nella prassi consolidata, è collegiale, tecnico e, per molti aspetti, ‘terzo’ rispetto all’incolpato: lo fa diventare “giudice domestico”106, dominus del procedimento, dalla contestazione alla gestione del contradditorio, sino alla decisione di comminare (o meno) la sanzione107, il tutto in funzione di una riconquistata tempestività del procedimento disciplinare, nel nome del rispetto del diritto di difesa del lavoratore e dell’efficacia dell’azione disciplinare.
Per quanto concerne l’UPD, il comma 4 dell’art. 55-bis, cit. con una previsione analoga a quella precedente la riforma, dispone che “ciascuna amministrazione secondo il proprio ordinamento, individua l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari ai sensi del comma 1, secondo periodo”. Il legislatore ha, pertanto, lasciato a ciascuna amministrazione la strutturazione dell’UPD, in via di prassi generalmente inserito nell’ambito del servizio personale108. La normativa nulla dice, inoltre, su come debbano coordinarsi il responsabile della struttura e l’UPD quando entrambi ravvisino la propria incompetenza109, sicché anche tale aspetto è affidato all’organizzazione interna di ciascuna amministrazione, mediante il suo potere regolamentare o attraverso atti amministrativi generali.
Mentre l’istituzione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari per il personale non dirigenziale era garantita da una consolidata prassi applicativa di ogni amministrazione, non così è accaduto per la dirigenza. La definizione legislativa poco chiara della responsabilità disciplinare del dirigente, la sua frequente sovrapposizione nel concreto con la responsabilità dirigenziale, la rilevata latitanza dei contratti collettivi delle aree dirigenziali nella esplicitazione della responsabilità disciplinare attraverso l’individuazione di specifiche sanzioni e nella definizione del relativo procedimento, non hanno giovato a sollevare le amministrazioni dal dubbio relativo alla opportunità e doverosità dell’individuazione di un ufficio disciplinare anche per la dirigenza, anche solo come estensione delle competenze del già esistente Ufficio per i Procedimenti Disciplinari per il personale del cosiddetto comparto.
Tuttavia, a partire dall’anno 2004, una copiosa giurisprudenza della Cassazione ha ribadito la doverosità per ciascuna pubblica amministrazione di individuare ed istituire un Ufficio per i Procedimenti Disciplinari anche per la dirigenza, fugando buona parte dei dubbi sorti in proposito110.
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Uno degli elementi essenziali della “privatizzazione” degli istituti disciplinari è senz’altro ascrivibile al soggetto cui è stata attribuita la titolarità del potere disciplinare, dalla contestazione fino alla irrogazione della sanzione. Con la riforma degli anni Novanta scompare la presenza di un soggetto giuridicamente terzo e neutrale rispetto alla vicenda disciplinare (le commissioni di disciplina previste dal Testo unico degli impiegati civili dello Stato di cui al d.P.R. n. 3 del 1957, a composizione anche sindacale) e la pubblica amministrazione-datore di lavoro, attraverso una sua articolazione necessariamente “di parte” sul piano contrattuale (l’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari) assume l’intero esercizio e la responsabilità dell’azione disciplinare nei confronti del dipendente, senza più nessuna mediazione ab externo.
Con l’introduzione di un «ufficio» dell’amministrazione competente per i procedimenti disciplinari, scompare la caratteristica del pubblico impiego per cui il procedimento e la proposizione della sanzione erano attribuite ad un soggetto terzo e neutrale (la commissione di disciplina), “ontologicamente” predisposto all’imparzialità di giudizio attraverso la composizione mista dell’organo, formato anche da rappresentanti dell’amministrazione e dei lavoratori. Dalla riforma degli anni Novanta, l’«ufficio competente per i procedimenti disciplinari» è e rappresenta l’amministrazione-datore di lavoro nel rapporto disciplinare111, cumulando, come avviene nel privato e coerentemente con l’esigenza di creare un giudice ‘domestico’, tutte le funzioni di accusatore, di istruttore, di giudice nei confronti dei dipendenti sottoposti a procedimento112.
Sulla natura dell’UPD, soggetto attivo, è intervenuta la Corte di Cassazione113, la quale, pur rilevando la mancanza di “terzietà” dell’ufficio, opportunamente ne sottolinea la “specializzazione” professionale ed il “distacco formale” dal capo struttura in cui opera il dipendente incolpato, derivandone, pertanto, una sostanziale «imparzialità del momento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato».
Poiché è la legge ad imputare direttamente a soggetti determinati la titolarità di esercizio del potere disciplinare (il responsabile con qualifica dirigenziale della struttura in cui il dipendente lavora per le sanzioni di minor gravità; l’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari per le sanzioni maggiori), non si è in presenza di una delega di funzioni da parte dei soggetti cui lo stesso legislatore ha attribuito il più generale potere di gestione del personale.
Il riferimento all’individuazione di un Ufficio per i Procedimenti Disciplinari potrebbe apparire in contrasto con il ruolo di datore di lavoro di cui è stato investito il dirigente a seguito della privatizzazione del pubblico impiego, al quale è stata affidata l’attività di organizzazione e gestione del personale ed al quale competerebbe, in linea teorica ed in analogia con il settore privato, la piena attribuzione di ogni potere (e di ogni responsabilità) relativo alla gestione del personale e quindi anche la titolarità dell’esercizio del potere disciplinare per tutte le sanzioni114.
Questa individuazione originaria dell’UPD, tuttavia, si ritiene debba essere letta come l’istituzionalizzazione di un organismo di garanzia, che per specializzazione, preparazione professionale e maggiore imparzialità, consenta di subentrare al dirigente nella gestione dei procedimenti disciplinari per illeciti di maggiore gravità ed esercitare il suo potere (il solo potere disciplinare) in via originaria e non derivata. La norma peraltro non prevede che tale ufficio si sostituisca al dirigente nella gestione del personale, anche se non si può escludere a priori che la titolarità dell’ufficio possa essere attribuita a chi già detiene quella di esercizio del potere direttivo nei confronti del personale.
Pertanto, in ragione della previsione legislativa, la mancata e preventiva (rispetto all’illecito) costituzione dell’ufficio e, in ogni caso, lo svolgimento del procedimento da parte di soggetti diversi da quelli indicati, inficia inevitabilmente la validità della sanzione disciplinare adottata per violazione di norma inderogabile di legge sulla competenza «espressione non solo di tecnica organizzativa, ma anche di una esigenza di giustizia (o almeno di garanzia della giustizia degli atti considerati»115.
E’ da escludere, inoltre, che la pubblica amministrazione abbia l’obbligo di costituire un apposito ufficio, la cui attività sia esclusivamente quella relativa ai procedimenti disciplinari: l’individuazione deve avvenire in ciascuna amministrazione «secondo il proprio ordinamento»116, e nulla viene escluso se recepito in via regolamentare. La norma ha infatti intento meramente organizzativo ed invita le pubbliche amministrazioni a considerare, rispetto alle proprie dimensioni e articolazioni interne, l’organizzazione più idonea per l’UPD.
Né la legge impone prescrizioni circa la natura monocratica o collegiale dell’Ufficio, essendo anche qui rimessa la scelta all’autonomia organizzativa dei singoli enti.
Tra le novità che conseguono alla recente Legge ‘anticorruzione’, soprattutto dall’esame del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, che definisce il nuovo Codice di Comportamento dei dipendenti pubblici117, appare peraltro sempre più chiara l’istituzionalizzazione del ruolo dell’UPD quale organismo dalle ampie responsabilità, deputato non solo alle funzioni disciplinari di cui all’art. 55-bis e seguenti del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit., ma posto altresì a garanzia della effettività delle disposizioni, del monitoraggio e verifica dei codici di comportamento, in coordinamento con il responsabile della prevenzione della corruzione. Il nuovo ruolo dell’UPD in materia di prevenzione della corruzione si sostanzia, infatti, in una collaborazione attiva nel fornire il supporto necessario per porre in campo interventi calibrati sulle singole P.A., mirati al contrasto dei fenomeni corruttivi a partire dalle fattispecie disciplinari trattate. In ragione del ruolo di cui dovrà essere investito, pare essere confermata la necessità dell’individuazione di un Ufficio avente sempre più competenza tecnica e specialistica adeguate Prima di trattare specificatamente dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari per il personale dirigente ed individuarne le peculiarità, pare opportuno ripercorrere i caratteri generali di tale soggetto attivo del procedimento disciplinare con attribuzione dei poteri datoriali, anche al fine di meglio comprendere l’esatta portata delle nuove competenze attribuite a seguito dell’entrata in vigore delle norme ‘anticorruzione’[118].
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Dopo i chiarimenti giurisprudenziali offerti dalla Cassazione, che ha costruito intorno alla norma il principio della esclusività dell’azione disciplinare in capo all’UPD, in ragione della competenza originaria prevista dalla legge e della posizione di imparzialità di fatto, data dalla specializzazione dell’organo119, ha preso campo il tema della supposta (necessaria) sovraordinazione gerarchica del dirigente o dei componenti dell’UPD rispetto ai dipendenti interessati al procedimento disciplinare. La stessa Corte ha sostenuto in merito che, per ogni azione o provvedimento disciplinare, compresi quelli azionabili nei confronti dei dirigenti pubblici, sia competente l’UPD senza alcuna necessità che il titolare dell’Ufficio derivi tale competenza esclusiva dalla propria sovra ordinazione gerarchica (poiché il potere gli è stato attribuito direttamente dalla legge)120.
Se questa posizione esalta il carattere di indipendenza dell’Ufficio, nondimeno l’applicazione pratica del principio potrebbe risultare difficoltosa per i casi, appunto, in cui l’UPD debba attivarsi contro i vertici burocratici dell’Ente121.
Nulla esclude che l’amministrazione, specie di medio-grandi dimensioni, possa dotarsi, individuandolo e precostituendolo, di un Ufficio per i Procedimenti Disciplinari (solo) per i dirigenti, attribuendone la titolarità di incarico (o la presidenza, in caso di ufficio di natura collegiale) a soggetto che non soffra tali condizionamenti di fatto nell’azione verso colleghi di area dirigenziale122.
10. Alla ricerca dell’efficienza dei sistemi disciplinari nelle pubbliche amministrazioni: un processo di “moralizzazione” per legge e di ri-legificazione di fatto
Secondo quanto fino ad ora rilevato, la responsabilità disciplinare è quella forma di responsabilità, aggiuntiva e differenziata rispetto a quella penale, civile, amministrativo-contabile (e dirigenziale) in cui incorre il lavoratore, pubblico o privato, che non osserva gli obblighi contrattualmente assunti, fissati nel contratto collettivo nazionale e recepiti nel contratto individuale. Tale responsabilità comporta l’applicazione da parte del datore di lavoro di sanzioni conservative o espulsive.
La natura giuridica del relativo procedimento punitivo e delle sanzioni inflitte è oggi, in un sistema contrattualizzato anche per gran parte del pubblico impiego, di natura privatistica: quello disciplinare non è più, dunque, «un “procedimento amministrativo” espressivo di “supremazia speciale” dell’amministrazione nei confronti dei suoi dipendenti, ma una reazione sinallagmatica, pattiziamente concordata tra datore e lavoratore, a fronte di inadempimenti contrattuali del dipendente».123
Nell’ambito delle leggi e degli atti organizzativi di definizione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici, le determinazioni per l’organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro. Il legislatore ha conservato nell’area pubblicistico-provvedimentale solo gli atti che definiscono le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, individuano gli uffici di maggiore rilevanza ed i modi di conferimento della titolarità dei medesimi, determinano le dotazioni organiche complessive124. Resta affidata alla legge e alla potestà amministrativa l’organizzazione nel suo nucleo essenziale, mentre il rapporto di lavoro dei dipendenti viene attratto nell’orbita della disciplina civilistica per i profili non connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa125.
Giurisprudenza126 e letteratura127 hanno da tempo escluso che gli atti di gestione del personale adottati dalle amministrazioni pubbliche siano qualificabili come provvedimenti amministrativi, definendoli atti privatistici connessi con l’esercizio del potere datoriale. Ne consegue la natura privatistica del potere disciplinare del datore di lavoro pubblico e delle sanzioni irrogate al termine dei procedimenti disciplinari128.
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Il sistema disciplinare esaminato risulta tuttavia fortemente connotato da componenti e finalità pubblicistiche, le quali indeboliscono l’ambito operativo degli attori collettivi e determinano un forte squilibrio rispetto alla disciplina stabilita per il settore privato. La ricerca dell’efficienza e della funzionalità dell’organizzazione degli apparati pubblici non opera attraverso una forzata parificazione tra settore pubblico e settore privato, ma attraverso la costruzione legislativa di un sistema di regole che rafforzano la figura del funzionario-manager senza però poter percorrere le stesse strade del settore privato (basti pensare alla obbligatorietà dell’azione disciplinare). Quanto più ci si allontana dall’orizzonte del diritto comune, tendenzialmente paritario e negoziale, tanto più ci si avvicina all’area del diritto speciale, tendenzialmente diseguale e unilaterale129.
Ogni operazione di sovrapposizione di norme destinate all’impresa privata ai rapporti di lavoro pubblico (nel nostro caso il sistema disciplinare di matrice privatistica) sconta un ostacolo insormontabile: le risorse impiegate dagli attori delle relazioni sono provenienti dalla fiscalità e sono assistite dalla necessaria funzionalizzazione a scopi pubblici, vincolate al rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento.
Tale considerazione costituisce l’elemento fondante di tutta la normazione in materia: tutte le disposizioni dedicate alla tutela ed alla valorizzazione dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni sono direttamente il portato dei principi costituzionali, compresa la regolazione del lavoro pubblico e la materia disciplinare.
Già la sussistenza di un regime speciale di responsabilità, prima fra tutte quella amministrativa, il riconoscimento di obblighi di servizio funzionali all’attività amministrativa (si pensi a quanto stabilito dall’art. 6 della Legge 241/1990 per il responsabile del procedimento) impone maggiore cautela nella interpretazione analogica delle regole del lavoro privato. Gli interventi legislativi in materia di prevenzione della corruzione rafforzano la componente pubblicistica del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, in ragione degli interessi eminentemente pubblici connessi all’organizzazione quale strumento di esercizio della funzione amministrativa130.
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Sono differenti i significati che vengono attribuiti al processo di ri-legificazione ed, in particolare, ai suoi effetti sull’intero impianto che fonda il lavoro alle dipendenze delle Pubbliche Amministrazioni. Per alcuni il ritorno alla regolamentazione di legge del potere disciplinare esercitato dai dirigenti non comporta una ri-pubblicizzazione dei rapporti di lavoro pubblico, i quali mantengono la loro natura privatistica. Ciò perché non ha subito modifiche in tal senso l’art. 5 del D.Lgs. n. 165 del 2001, cit., sì che il regime giuridico degli atti, delle azioni organizzative e dei procedimenti di gestione dell’area c.d. micro-organizzativa resta invariato e ascritto al diritto privato, a conferma del fondamento contrattuale dei rapporti di lavoro pubblico. La conferma per il potere disciplinare risiederebbe nella conferma della giurisdizione del giudice ordinario per le controversie relative al procedimento e alle sanzioni disciplinari ai sensi dell’art. 63 D.Lgs. n. 165 del 2001, cit. 131.
Vero è che una ri-legificazione del procedimento disciplinare insinua non pochi dubbi in merito al fatto che la Pubblica Amministrazione possa ‘liberamente’ autodeterminarsi come il privato datore di lavoro, tenuto conto dei ristretti ambiti di autonomia che il datore di lavoro pubblico presenta nell’ambito dell’azione disciplinare, fin dall’avvio del procedimento stesso, la cui natura obbligatoria è stata sottolineata e ribadita dal D.Lgs. n. 150 del 2009, cit. anche prevedendo specifici profili di responsabilità in caso mancato esercizio o decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni irragionevoli o manifestamente infondate132.
La configurazione del mancato esercizio o della decadenza dell’azione disciplinare come condotte sanzionabili sul piano disciplinare non consente, infatti, alcuno spazio a valutazioni di opportunità nell’esercizio del potere disciplinare133.
Una simile previsione è indubbio che non possa mai essere immaginata per il ‘privato’ datore di lavoro, in capo al quale l’avvio del procedimento disciplinare riveste pur sempre una natura facoltativa e discrezionale, in quanto fortemente correlata al potere direttivo dello stesso nello specifico interesse dell’impresa.
Nel rapporto di lavoro del settore privato, infatti, la scelta datoriale di sanzionare o meno il lavoratore inadempiente è sempre stata considerata discrezionale in quanto espressiva di prerogative manageriali (c.d. valutazione costi-benefici) trovanti il fondamento nel più ampio potere di direzione dell’impresa, di cui all’art. 2086 c.c.134.
Altri ha ravvisato una vera e propria ri-pubblicizzazione del rapporto, in luogo di una semplice ri-legificazione135, per la naturale constatazione degli effetti di un processo inesorabile che sta progressivamente richiudendo gli spazi aperti – pur tra numerose difficoltà – dalla prima privatizzazione del pubblico impiego ed ancor più dalla seconda privatizzazione. Tale processo di controriforma136 è confermato dalla recente produzione normativa, che prosegue il processo di moralizzazione “per legge” del pubblico impiego..
Il pubblico impiego contrattualizzato racchiude in sé i caratteri di una privatizzazione sempre più formale, ravvisabile quasi esclusivamente nelle espressioni codificate dal legislatore, ma rilevabile in misura sempre minore nelle disposizioni normative, da un punto di vista sostanziale.
Il superamento della supremazia speciale dell’amministrazione, distinta rispetto alla situazione del datore di lavoro privato non appare del tutto convincente: come autorevolmente rilevato già in occasione della prima privatizzazione, infatti, l’elenco di materie riservate alla disciplina posta con legge comprendeva infatti le responsabilità giuridiche attinenti ai singoli operatori nell’espletamento delle procedure amministrative, nonché la disciplina delle responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico e le altre attività, e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici. Il legislatore delegato, in forza di tali principi, non avrebbe potuto escludere la responsabilità disciplinare dall’ambito delle materie coperte da riserva di legge, posto che “la responsabilità, in quanto non diversamente stabilito, è anche responsabilità disciplinare e che la definizione dell’illecito e la tipizzazione delle sanzioni sono strettamente collegate alla responsabilità, visto che quest’ultima consiste nella soggezione alla sanzione dell’autore dell’illecito»137.
Sorge spontaneo, pertanto, chiedersi se, in relazione al nuovo ordinamento della materia ed al rinnovato spazio riservato alla legge, sia ancora vera l’affermazione secondo cui, nel sistema del lavoro pubblico “privatizzato”, quello disciplinare «non è un procedimento amministrativo espressivo della supremazia speciale dell’amministrazione nei confronti dei suoi dipendenti, ma una reazione sinallagmatica, pattiziamente concordata tra datore e lavoratore, a fronte di inadempimenti contrattuali del dipendente» (che – secondo una recente proposta che non ha avuto seguito -avrebbe dovuto anche prestare giuramento di fedeltà, come già previsto prima della contrattualizzazione) 138.
Certamente si può annotare la ri-pubblicizzazione della materia all’ombra di un processo di ‘moralizzazione’ per legge e di ri-legificazione di fatto.
Le ricadute sia in termini qualitativi che quantitativi sul piano della produzione normativa secondaria sono state e sono tutt’ora pesanti. Maggiore è la garanzia e l’effettività della terzietà di una norma emanata da una P.A. terza, maggiore è la probabilità di una sua capacità di rimanere valida nel tempo, assicurando certezza e stabilità del diritto, oggi unanimemente invocate per restituire attrattività al sistema economico e ordinamentale italiano.
Al contrario, l’avvicendarsi senza sosta dei dirigenti amministrativi, oltre a produrre un effetto spaesamento sull’utenza – dei cittadini come delle imprese – porta con sé un inevitabile stimolo a produrre ad ogni piè sospinto nuove norme e nuovi regolamenti, sia «per lasciare un’impronta» del proprio passaggio nell’Amministrazione, sia per adeguarne il funzionamento ai nuovi indirizzi politici che via via si stratificano, quando non si contrappongono.
Intervenire anche in quest’ottica, superando il meccanismo dello spoils system risulta pertanto indifferibile. Non per sostituirlo con un’anacronistica inamovibilità dei dirigenti della PA, ma per rendere possibile un salto di qualità al passo con i tempi della struttura fondamentale centrale e periferica dello Stato, introducendo sistemi di valutazione periodica del lavoro, del raggiungimento degli obiettivi e del grado di soddisfazione dei cittadini, dai quali far dipendere la conferma o meno dei dirigenti amministrativi. Criteri obiettivi ed oggettivamente misurabili, orientati al buon funzionamento dei servizi dello Stato e delle sue articolazioni periferiche,sicuramente più validi rispetto al criterio della «fedeltà» al potere politico pro tempore”.
– Ministeri: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al Personale Dirigente dell’Area I– Quadriennio Normativo 2006-2009 Biennio Economico 2006–2007”, sottoscritto in data 12/02/2010 (Capo II – Artt. 6-15):
– Regioni e Autonomie Locali: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Personale Dirigente del comparto Regioni e autonomie locali (Area II) – Quadriennio normativo 2006-2009, Biennio 2006-2007”, sottoscritto in data 22/02/2010 (Capo II – Artt. 4-13);
– Servizio Sanitario Nazionale (Dirigenza Sanitaria-Professionale-Tecnica-Amministrativa): “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per la sequenza contrattuale dell’art. 29 del CCNL del Personale della Dirigenza Sanitaria, Professionale, Tecnico e Amministrativa del Servizio Sanitario Nazionale sottoscritto il 17 ottobre 2008”. sottoscritto in data 06/05/2010 (Capo II – Artt. 5-13);
– Servizio Sanitario Nazionale (Dirigenza Medico-Veterinaria): “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro per la sequenza contrattuale dell’art. 28 del CCNL del personale della Dirigenza Medico – Veterinaria del Servizio Sanitario Nazionale sottoscritto il 17 ottobre 2008”, sottoscritto in data 06/05/2010 (Capo II – Artt. 5-13);
– Scuola: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale dell’Area V della Dirigenza per il quadriennio normativo 2006-2009 ed il primo biennio economico 2006-2007”, sottoscritto in data 15/07/2010 (TITOLO VI – Artt. 13-22);
– Enti Pubblici non Economici ed Agenzie Fiscali: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro della Dirigenza dell’area VI (Enti Pubblici non economici e Agenzie Fiscali) per il Quadriennio Normativo 2006-2009 e Biennio Economico 2006-2007”, sottoscritto in data 21/07/2010 (Capo II – Artt. 6-15);
– Universita’/Ricerca: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale dell’Area VII della dirigenza Università e Istituzioni ed Enti di Ricerca e Sperimentazione per il Quadriennio Normativo 2006-2009 e Biennio Economico 2006-2007”, sottoscritto in data 28/07/2010 (Artt. 6-15);
– Presidenza del Consiglio dei Ministri: “Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale dirigente dell’area VIII della Presidenza Del Consiglio dei Ministeri Quadriennio Normativo 2006 – 2009 Biennio Economico 2006 – 2007”, sottoscritto in data 04/08/2010 (Capo V – Artt. 10-17);
– ENAC: “Contratto Collettivo Nazionale Di Lavoro relativo al Personale Dirigente dell’Ente Nazionale dell’Aviazione Civile – ENAC Quadriennio Normativo 2006 – 2009 Biennio Economico 2006 – 2007”, sottoscritto in data 04/08/2010 (Capo II – Artt. 6-13).
a) falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia;
b) assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione;
c) ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;
d) falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;
e) reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;
f) condanna penale definitiva, in relazione alla quale è prevista l’interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.
2. Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all’articolo 54.
3. Nei casi di cui al comma 1, lettere a), d), e) ed f), il licenziamento è senza preavviso.»
Codice Civile, art. 2105(Obbligo di fedeltà) Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio.
Codice Civile, art. 2106(Sanzioni disciplinari) L’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione disanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione (e in conformità delle norme corporative).
Il primo (art. 55-bis) prevede la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di quindici giorni per il lavoratore dipendente o il dirigente, appartenente alla stessa amministrazione pubblica dell’incolpato o ad una diversa, che, essendo a conoscenza per ragioni di ufficio o di servizio di informazioni rilevanti per un procedimento disciplinare in corso, rifiuta, senza giustificato motivo, la collaborazione richiesta dall’autorità disciplinare procedente ovvero rende dichiarazioni falso o reticenti.
Il secondo (art. 55-sexies) prevede per qualsiasi dipendente (e dunque anche per il dirigente) la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi per condanna della pubblica amministrazione al risarcimento del danno derivante dalla violazione, da parte del lavoratore dipendente, degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa; il collocamento in disponibilità (che non è una nuova sanzione disciplinare, ma una misura gestionale che si affianca alla stessa) quando il lavoratore cagioni grave danno al normale funzionamento dell’ufficio di appartenenza, per inefficienza o incompetenza professionale accertate dall’amministrazione; la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino ad un massimo di tra mesi (oltre alla mancata retribuzione di risultato) del dirigente titolare di azione disciplinare per il mancato esercizio dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate.
«9. Nei casi di sospensione di cui al presente articolo, l’Azienda, in relazione a documentate esigenze organizzative e funzionali dirette a garantire la continuità assistenziale, può differire, per un massimo di 30 giorni, rispetto alla conclusione del procedimento disciplinare, la data di esecuzione della sanzione.
10. In relazione alla specificità della funzione medica, anche con riferimento alla garanzia della continuità assistenziale, l’Azienda, con provvedimento motivato e previo consenso del dirigente, può trasformare la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione in una sanzione pecuniaria corrispondente al numero dei giorni di sospensione dell’attività lavorativa, tenendo presente la retribuzione giornaliera di cui all’art. 26 del CCNL del 10 febbraio 2004. Tale clausola non si applica ai casi di sospensione previsti dagli artt. 55 bis, comma 7 del d.lgs. 165/2001, dall’art. 55 sexies, comma 3 e dall’art. 55 septies, comma 6 del d.lgs. 165/2001. La relativa trattenuta sulla retribuzione è introitata dal bilancio dell’Azienda».
Si veda, ad esempio, in riferimento al CCNL per la sequenza contrattuale dell’art. 28 del CCNL del personale della dirigenza Medico – Veterinaria del SSN sottoscritto il 17 ottobre 2008 del 06.05.2010:
– l’art. 8, comma 4, lett. d) comportamento negligente nella compilazione, tenuta e controllo delle cartelle cliniche;
– l’art. 8, comma 8, lett. g) mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale;
– l’art. 8, comma 8, lett. h) comportamenti omissivi o mancato rispetto dei compiti di vigilanza, operatività e continuità dell’assistenza al paziente, nell’arco delle ventiquattro ore, nell’ambito delle funzioni assegnate e nel rispetto della normativa contrattuale vigente;
– l’art. 8, comma 8, lett. i) comportamento negligente od omissivo nella compilazione, tenuta e controllo delle cartelle cliniche, referti e risultanze diagnostiche, da cui sia derivato un danno per l’azienda o per i terzi;
– l’art. 8, comma 8, lett. j) inosservanza degli obblighi, a lui ascrivibili in merito alla certificazione medica concernente assenze di lavoratori per malattia;
– l’art. 8, comma 11, punto 1., lett. c)mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale, ove ne sia seguito grave conflitto di interessi o una forma di concorrenza sleale nei confronti dell’azienda.
Le medesime fattispecie si possono ritrovare, nella stessa formulazione lessicale, nel corpo del Codice Disciplinare del CCNL per la sequenza contrattuale dell’art. 29 del CCNL del personale della dirigenza Sanitaria, Professionale, Tecnico e Amministrativa del SSN sottoscritto il 17 ottobre 2008 del 06.05.2010.
I diversi problemi relativi alla c.d. “antropologia del burocrate” sono richiamati da Corso G., Politici e burocrati: interessi professionali e interesse pubblico in AIPDA (Associazione Italiana Professori di diritto amministrativo) Annuario 2006. Analisi economica e diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2007, 76 che sottolinea, sulle orme dell’analisi di Merton R. K., Teoria e struttura sociale. Vol. III – Sociologia della conoscenza e sociologia della scienza, Bologna, Il Mulino, 2000, come “l’inserimento in una struttura burocratica alter(i) la personalità degli individui” e crei rigidità di comportamento.
– Articolo 1, commi 13-14, che prevedono una specifica fattispecie disciplinare in capo al responsabile anti-corruzione in caso di mancato rispetto degli obblighi ad esso attribuiti;
– Articolo 1, comma 44, che, modificando l’art. 54 del D.Lgs. n. 165/2001, ridefinisce la valenza disciplinare del codice di comportamento dei dipendenti pubblici;
– Articolo 1, comma 51, che, inserendo l’art. 54-bis nel D.Lgs. n. 165/2001, instituisce come forma di tutela per il dipendente pubblico che segnali illeciti la garanzia dell’anonimato nell’ambito del procedimento disciplinare istruito sulla base della propria segnalazione;
Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni):
– Articolo 15 (Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi dirigenziali e di collaborazione o consulenza), comma 3: prevede in capo al dirigente responsabile della pubblicazione dei dati una specifica sanzione in caso di omissione, applicabile a seguito di procedimento disciplinare;
– Articolo 43, comma 5: impone l’obbligo, sussistente in capo al responsabile della trasparenza, di segnalazione all’ufficio di disciplina dei casi di inadempimento o adempimento parziale degli obblighi di pubblicazione;
– Articolo 45, comma 4: affida alla CIVIT, accanto al compito di monitoraggio dell’applicazione delle norme sulla trasparenza, l’obbligo di segnalazione disciplinare all’Ufficio di Disciplina dell’amministrazione interessata in caso di infrazioni delle disposizioni;
Decreto Legislativo 8 aprile 2013, n. 39 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190):
– Articolo 3: enumera, tra i casi di incompatibilità al conferimento di incarichi, la sussistenza di un licenziamento disciplinare
«1. Il Dipartimento della funzione pubblica, sentite le confederazioni sindacali rappresentative ai sensi dell’articolo 43, definisce un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, anche in relazione alle necessarie misure organizzative da adottare al fine di assicurare la qualità dei servizi che le stesse amministrazioni rendono ai cittadini. 2. Il codice è pubblicato nella Gazzetta ufficiale e consegnato al dipendente all’atto dell’assunzione. 3. Le pubbliche amministrazioni formulano all’ARAN indirizzi, ai sensi dell’articolo 41, comma 1 e dell’articolo 70, comma 4, affinché il codice venga recepito nei contratti, in allegato, e perché i suoi principi vengano coordinati con le previsioni contrattuali in materia di responsabilità disciplinare. 4. Per ciascuna magistratura e per l’Avvocatura dello Stato, gli organi delle associazioni di categoria adottano un codice etico che viene sottoposto all’adesione degli appartenenti alla magistratura interessata. In caso di inerzia il codice è adottato dall’organo di autogoverno. 5. L’organo di vertice di ciascuna pubblica amministrazione verifica, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative ai sensi dell’articolo 43 e le associazioni di utenti e consumatori, l’applicabilità del codice di cui al comma 1, anche per apportare eventuali integrazioni e specificazioni al fine della pubblicazione e dell’adozione di uno specifico codice di comportamento per ogni singola amministrazione. 6. Sull’applicazione dei codici di cui al presente articolo vigilano i dirigenti responsabili di ciascuna struttura. 7. Le pubbliche amministrazioni organizzano attività di formazione del personale per la conoscenza e la corretta applicazione dei codici di cui al presente articolo.».
Per una rapida analisi del testo previgente la novella introdotta con Legge n. 190/2012 si rinvia a Quinzone Garofalo S., Dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici al codice disciplinare dei CCNL: competenze e responsabilità dei dirigenti scolastici, in: www.diritto.it, 19/04/2012.
2. Ai fini della determinazione del tipo e dell’entità della sanzione disciplinare concretamente applicabile, la violazione è valutata in ogni singolo caso con riguardo alla gravità del comportamento e all’entità del pregiudizio, anche morale, derivatone al decoro o al prestigio dell’amministrazione di appartenenza. Le sanzioni applicabili sono quelle previste dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi, incluse quelle espulsive che possono essere applicate esclusivamente nei casi, da valutare in relazione alla gravità, di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, qualora concorrano la non modicità del valore del regalo o delle altre utilità e l’immediata correlazione di questi ultimi con il compimento di un atto o di un’attività tipici dell’ufficio, 5, comma 2, 14, comma 2, primo periodo, valutata ai sensi del primo periodo. La disposizione di cui al secondo periodo si applica altresì nei casi di recidiva negli illeciti di cui agli articoli 4, comma 6, 6, comma 2, esclusi i conflitti meramente potenziali, e 13, comma 9, primo periodo. I contratti collettivi possono prevedere ulteriori criteri di individuazione delle sanzioni applicabili in relazione alle tipologie di violazione del presente codice.
3. Resta ferma la comminazione del licenziamento senza preavviso per i casi già previsti dalla legge, dai regolamenti e dai contratti collettivi.
4. Restano fermi gli ulteriori obblighi e le conseguenti ipotesi di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti previsti da norme di legge, di regolamento o dai contratti collettivi.
Codice Civile, art. 2086 (Direzione e gerarchia nell’impresa) L’imprenditore è il capo dell’impresa (Cost. 41) e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori.
Costituzione della Repubblica Italiana, art. 41L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Cfr. Tenore V., Il procedimento disciplinare nel pubblico impiego dopo la riforma Brunetta – Il nuovo procedimento delineato dal d.lgs. n. 150 del 2009 – Normativa, giurisprudenza, circolari, Milano, Giuffrè, 2010, 42; URSI R., Alcune considerazioni sul nuovo regime delle sanzioni disciplinari dopo il decreto Brunetta, in: Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2009, 5, 762-763.
a) funzionalità rispetto ai compiti e ai programmi di attività, nel perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità. A tal fine, periodicamente e comunque all’atto della definizione dei programmi operativi e dell’assegnazione delle risorse, si procede a specifica verifica e ad eventuale revisione;
b) ampia flessibilità, garantendo adeguati margini alle determinazioni operative e gestionali da assumersi ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
c) collegamento delle attività degli uffici, adeguandosi al dovere di comunicazione interna ed esterna, ed interconnessione mediante sistemi informatici e statistici pubblici;
d) garanzia dell’imparzialità e della trasparenza dell’azione amministrativa, anche attraverso l’istituzione di apposite strutture per l’informazione ai cittadini e attribuzione ad un unico ufficio, per ciascun procedimento, della responsabilità complessiva dello stesso;
e) armonizzazione degli orari di servizio e di apertura degli uffici con le esigenze dell’utenza e con gli orari delle amministrazioni pubbliche dei Paesi dell’Unione europea.