Riorganizzazione istituzionale e pianificazione del territorio. Riflessioni a partire dalle prossime riforme e dall’esperienza torinese
Carlo Alberto Barbieri, Silvia Saccomani, Marco Santangelo1
Introduzione
Il Disegno di legge “Delrio” (AC 1542/2013), rappresenta un ulteriore passo avanti nella complessa storia del riordino degli enti territoriali italiani. La novità di questo Ddl, però, sta nel profilo riformista dell’approccio che vede un modello di organizzazione delle autonomie fondato su due livelli di rappresentanza diretta (Regioni e Comuni) e un altro livello di governance di area vasta, elettivo di secondo grado, che a sua volta si articola in ambito metropolitano o non metropolitano. Si tratterebbe, quindi, di un cambio di prospettiva notevole nel panorama italiano se si cogliessero le opportunità derivanti, da un lato, dall’accorciarsi della filiera del governo del territorio, dall’altro dalla possibilità di mettere in opera un vero e proprio processo di copianificazione tra enti diversi.
Le novità di questo scenario legislativo, per altro, sembrano riportare anche il processo di istituzione delle città metropolitane in un ambito di riforma e non solo di revisione della spesa (come da Legge 135/2012).
In questo contesto, l’esperienza torinese sembra particolarmente interessante per almeno due motivi: la specificità territoriale della Provincia di Torino, destinata a diventare una Città metropolitana composta da 315 comuni, in buona parte montani e frontalieri, e il concorrente processo di formazione di una strategia di sviluppo per un’area centrale e a geometria variabile ma che comunque non comprende l’intero territorio provinciale.
1. Un nuovo modello di governance istituzionale per una nuova pianificazione del territorio
Il Disegno di legge del Governo Letta, presentato al Parlamento il 20.8.2013 ed approvato dalla Camera il 21.12.2013 (AC 1542, di seguito Ddl “Delrio”, dal nome del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie), dichiara un triplice obiettivo:
1) istituire le Città metropolitane, già previste fin dalla Legge 142 del 1990, successivamente recepite nel Testo unico sull’ordinamento degli enti locali (TUEL-Dlgs 267/2000) e poi inserite nel 2001 negli articoli 114 e 117 del Titolo V della Costituzione;
2) predisporre una nuova disciplina delle Province quali enti intermedi di area vasta, al fine di consentirne, dall’inizio del 2014, la profonda riorganizzazione (dopo la sentenza della Corte costituzionale 220/2013, per la quale lo stesso Governo, ritenendo di confermarne il superamento, ha inoltre presentato il Ddl costituzionale 1543 volto all’abolizione delle Province);
3) definire una nuova disciplina organica delle Unioni di comuni, affinché questi possano esercitare, al di là delle loro dimensioni e dei vincoli che questi comportano, le loro funzioni in un modo più efficiente e più corrispondente alle esigenze dei cittadini.
Il Ddl “Delrio”, nel suo carattere contingente, sembra tuttavia voler perseguire risultati rilevanti e, specialmente per quanto riguarda le Città metropolitane e la ristrutturazione delle Province, esplicita scopi di carattere più sistematico (rispetto a quelle di prevalente spending review della L 135/2012 del Governo Monti e dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Sentenza 220/2013) e dunque con un approccio che appare anche di riforma e non di mero riordino.
Il Ddl “Delrio”, che afferma la propria compatibilità e coerenza sia con il quadro costituzionale attuale che con i contenuti della Sentenza n. 220 del 2013 della Corte2, intende anticipare la prospettiva contenuta nel Ddl costituzionale del Governo n. 1543 del 5 luglio 2013. Il testo di tale Ddl reca il titolo di abolizione delle Province e prevede che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge costituzionale, le modalità e le forme di esercizio delle loro funzioni siano individuate da parte dello Stato e delle Regioni, sulla base di una legge ordinaria che definirà criteri e requisiti generali.
Ne emerge un progetto di riforma che considera le Città metropolitane (anch’esse, come le Province, non più inserite nell’articolo 114 della Costituzione come Enti costitutivi della Repubblica) quali Enti di governo del territorio metropolitano, il cui ordinamento, modalità di finanziamento e funzioni sono definiti da legge dello Stato.
In sostanza viene enunciato un modello delle autonomie fondato su due soli livelli territoriali di diretta rappresentanza delle rispettive comunità e dunque, per ciò, entrambi elettivi di primo grado: le Regioni (a maggior ragione perché dotate del potere legislativo) ed i Comuni (base fondamentale del principio di sussidiarietà). A questi due si accompagna un altro livello di governo e di governance di area vasta ed intermedio, collocato in una visione funzionale di una razionale ed efficace organizzazione dell’attività dei Comuni e delle loro Unioni, insistenti sul territorio metropolitano (con la Città metropolitana) e non metropolitano (aprendo, per questi territori, a future forme organizzative, flessibili ed articolate, per quanto riguarda l’esercizio delle funzioni attualmente spettanti alle Province), quale livello intermedio di democrazia locale espressione della comunità metropolitana e degli altri territori edunque, per questa ragione, con un modello elettivo di secondo grado; tutto ciò all’interno di una cornice, data dalla legge statale che conterrà i criteri e i principi, di cui lo Stato e le Regioni saranno chiamati a definire le forme ottimali e l’operatività.Questo secondo livello di governo, proprio in relazione alla capacità di governance necessaria a garantirne il funzionamento, sembrerebbe inoltre essere il più indicato a recepire e territorializzare le indicazioni che derivano dalla nuova fase di programmazione dei fondi comunitari 2014-2020. Infatti, la nuova programmazione (box 1) rende possibile il finanziamento di politiche di sviluppo locale in ambito urbano e extra-urbano e, come sembra ovvio, solo una visione d’area vasta può garantire l’armonizzazione di diverse progettualità e visioni.
E’ molto importante, di un tale modello di riorganizzazione istituzionale, saper da subito vedere e cogliere le potenzialità di fondo nell’aprire una prospettiva di miglioramento ed “accorciamento di filiera” del governo del territorio (decisionale, temporale e dei rapporti fra soggetti e fra piani); una prospettiva in cui al più presto si può e si deve sviluppare una coerente innovazione della pianificazione e progettazione delle città e dei territori, una ridefinizione pratica di nuove politiche dello sviluppo locale,di maggiore efficienza amministrativa, di maggiore semplicità ed efficacia per i cittadini, per le attività economiche ed i servizi e pertanto anche di maggior competitività e concorso ad azioni per far ripartire indispensabili processi di crescita sostenibile.
Se è fondamentale sceglierla è però soprattutto importante percorrere una direzione di marcia, chiara e sufficientemente “stabile”, in grado cioè di “tenere” per il tempo necessario (pena un disorientamento e l’incertezza che lascia tutto e tutti in una perenne insostenibile “metà del guado”) perché una riforma possa attuarsi con esiti utili.
In altri termini è necessario sciogliere nodi e scegliere fra i troppo contraddittori orientamenti, provvedimenti e normative (annunciati o assunti o contraddetti subito dopo) che appaiono dicotomici ed affatto o troppo poco sinergici: fra profili di government-amministrazione gerarchici o processi di governance più orizzontali, fra sussidiarietà o neocentralismo (soprattutto dello Stato ma recentemente anche delle Regioni3), fra gerarchia verticale e cooperazione orizzontale, fra adeguamenti e attuazioni per conformità o condivisione e sviluppi operativi per coerenza, fra sistemi di piani sovraordinati e processi di co-pianificazione, fra piani separati o invece concepiti come filiera interrelata.
L’innovazione non solo delle dimensioni territoriali ed il superamento del confine comunale della pianificazione urbanistica, ma conseguentemente (deve essere così!) dell’assetto istituzionale e territoriale delle Unioni di comuni, delle Città metropolitane e delle Province riordinate (pensate come Enti intermedi di secondo grado e dunque anche rappresentativi dei territori, attraverso i Comuni e delle loro Unioni) e soprattutto le nuove forme di governance che potrebbero svilupparsi, evidenziano proprio l’utilità transcalare di un nuovo modo di pianificareil territorio e le Città con nuovi Piani e programmi formati e progettati con la copianificazione, in cooperazione con gli Enti che governano l’area vasta (Regione) o che sono protagonisti intermedi di un’innovativa governance di essa; il riferimento è appunto alle Città metropolitane, alle nuove Province “intermedie” (potrebbero eventualmente chiamarsi ancora così, anche se non venissero più nominate nella Costituzione), alle Unioni comunali4.
In altri termini, nella prospettiva del rilancio della efficacia della pianificazione del territorio e delle città, va colta l’importanza e la pertinenza della necessità di un consapevole nuovo “modello di governance istituzionale” avente come importante obbiettivo (dunque non solo un’incerta e non convincente spending review) proprio quello di innovare la pianificazione del territorio per finalità, metodi, strumenti (i Piani in primo luogo), procedure ed esiti(non perdendo di vista la complessità, la transcalarità, e l’incrementalismo della pianificazione). Nuovi piani dunque che tuttavia non devono essere considerati come obbiettivo in sé, bensì in quanto necessari per una nuova pianificazione, intesa come attività fondamentale (ma non esaustiva) del governo del territorio.
E’ in questo scenario che si devono saper cogliere e valutare meglio e più a fondo le potenzialità e la sostanziale portata innovativa (soprattutto alla scala locale) sia della articolazione e distinzione fra Piano strutturale (particolarmente adatto ed idoneo per una pianificazione unionale), Piano operativo e Regolamento urbanistico-edilizio, sia soprattutto di una diffusa pratica della Perequazione territoriale; intesa questa come metodo ed azioni per facilitare scelte nelle e tra Unioni di Comuni5; una metodologia che richiede di essere promossa e sostenuta da una nuova generazione di pianificazione dell’area vasta, sviluppata con un reale approccio intermedio, avvalendosi dei vantaggi (che possono essere significativamente superiori ai difetti) dell’ Ente elettivo di secondo grado.
Si tratta cioè di sostenere e praticare l’opzione sia di una transcalare filiera di piani (abbandonando la separatezza fra di essi), sia di un insieme interrelato di funzioni differenziate della pianificazione.
I contenuti strutturali della pianificazione (con le diversità dovute alla scala della pianificazione in cui essa si sviluppa) sono quelli che attengono ai valori condivisi di lungo periodo, più stabili e meno negoziabili. Il Piano strutturale, “configurativo” del territorio e valido a tempo indeterminato, deve costituire il riferimento autorevole per la conoscenza e l’interpretazione fondativa del territorio e per le scelte, gli indirizzi e le direttive che il piano stabilisce per le parti di territorio da trasformare, per quelle da riqualificare, per quelle da conservare e valorizzare, per i sistemi insediativi-infrastrutturali e per quelli agricoli ed ambientali.
La componente strategica ha invece natura politico-programmatica e di visioning (in stretta relazione con le opportunità offerte dalla programmazione comunitaria), dove il rapporto tra visione del futuro e del presente, tra obiettivi, strategie, progettualità e azioni per conseguirli, è un processo ed un sistema di relazioni e valutazioni dinamiche.
La dimensione operativa del piano (prevalentemente da praticare alla scala locale), è “conformativa” della proprietà degli immobili, valida a tempo determinato (è anche la dimensione programmatica e temporale del piano, tendenzialmente corrispondente al mandato dei Sindaci); il Piano operativo riguarda cioè la capacità di conseguire, nel suo tempo di breve e medio periodo, gli obiettivi e gli esiti su cui il Piano strutturale ha ottenuto il consenso, promuovendo la realizzazione degli interventi di trasformazione previsti, sviluppando politiche, azioni e progetti in cui siano visibili e valutabili il rapporto con gli attori privati e il loro ruolo, le responsabilità, i tempi, gli esiti e la qualità di essi; è la sede della concertazione pubblico-privato, del rapporto tra economia, mercato e piano, della perequazione urbanistica, della programmazione delle opere pubbliche, del progetto urbano.
La dimensione regolativa, anch’essa conformativa della proprietà, è obbligatoria e valida a tempo indeterminato; il Regolamento urbanistico-edilizio riguarda dunque il sistema insediativo esistente (storico e recente) ed il territorio che non è oggetto di trasformazioni urbanistiche rilevanti, da conservare, manutenere, consolidare e riqualificare.
E’ però essenziale scegliere la copianificazione come metodo, con convinzione e disponibilità (senza se e senza ma) a non negarne la ratio con procedure e comportamenti burocratico-settoriali o contraddittori. La copianificazione deve riguardare soprattutto (probabilmente soltanto) la pianificazione strutturale e svilupparsi a partire dagli oggetti delle rispettive competenze di pianificazione dei soggetti istituzionali, per lasciare la pianificazione operativa e la regolazione urbanistica, se coerente con i contenuti strutturali, alla piena responsabilità dei Comuni che hanno predisposto il Piano strutturale (assai meglio se su base intercomunale mediante le Unioni dei comuni, obbligatorie o meno che siano). In altri termini, un processo di pianificazione e governo del territorio in cui ogni livello istituzionale coopera ed è oggetto di contributi, osservazioni e pareri da parte di tutti gli altri, ma è lui solo responsabile di quegli oggetti e problemi dominabili con il proprio livello di piano.
Le procedure di formazione e approvazione dei piani devono dunque basarsi su Conferenze6di copianificazione e valutazione7sia quali sedi di indispensabile governance, sia quali strumenti coerenti e idonei rispetto alla natura processuale del nuovo pianificare.E’ questa l’unica strada per sostituire in modo sostenibile ed equilibrato, la tradizionale procedura di approvazione gerarchica basata su atti complessi di e fra Enti sovraordinati e sotto ordinati (e su fasi temporalmente assai lunghe). Ne conseguono due effetti entrambi positivi per il governo del territorio: un percorso di confronto e condivisione costruttivo (soprattutto) ed una sensibile riduzione dei tempi di formazione ed entrata in vigore dei Piani strutturali8.
Tuttavia nel paradosso di una riorganizzazione istituzionale (stabilita con i provvedimenti legislativi del 2012, nella precedente legislatura anticipatamente interrotta, e nell’attuale legislatura messa in discussione a luglio 2013 dalla Corte costituzionale) che appare ancora incerta nella sua statuizione ed operatività, è in particolare la pianificazione d’area vasta ad essere di fatto “sospesa” (insieme alle Province ed alla ancora non nata Città metropolitana)9.
Le Regioni (in crisi sul piano delle risorse pubbliche di cui disporre e nell’opinione pubblica per sprechi e deludente interpretazione di un federalismo anche molto “forzato”, almeno fino al 2011) del resto oggi appaiono disorientate o sostanzialmente ferme, in attesa di un assestamento del quadro istituzionale e finanziario, mentre alcune fra esse (Toscana ad esempio) sembrano essersi “pentite” delle leggi riformiste sul governo del territorio in cui si sono impegnate dopo il 2001. Tutto ciò con la conseguenza per la pianificazione del territorio locale e d’area vasta, sia di un non isolato ritorno ad un centralismo regionale rispetto all’applicazione del principio di sussidiarietà ed alle azioni di decentramento (che non sembrano più essere le parole d’ordine in campo), sia ripiegando su azioni legislative di semplificazione o modifiche solo parziali (ed entrambe le conseguenze non possono non destare molte perplessità). Alla luce della linea di riorganizzazione istituzionale qui considerata, l’attività di pianificazione territoriale della Regione più che su di un Piano territoriale regionale (Ptr), potrebbe più efficacemente incentrarsi: a) sul Piano paesaggistico (redatto ai sensi del Codice del 2004 e della Convenzione Europea del Paesaggio, b) su un Documento strategico territoriale, di riferimento per la governance territoriale, per le programmazioni, le pianificazioni e le politiche settoriali, per i progetti integrati regionali e transregionali, per la progettualità dello sviluppo (con riferimento anche ed in particolare alla programmazione dei Fondi europei), per la valorizzazione e difesa dell’ambiente. In questo modo si svilupperebbe un processo di pianificazione del territorio differenziato e in una filiera accorciata e più efficace.
Ancora una volta sono dunque i Comuni a dover stare in campo nel praticare il governo del territorio (sia con i vecchi PRGC o con i Piani comunali delle nuove leggi di cui si sono dotate molte Regioni dopo il 2001 così come da esse riformati o soltanto “diversamente rinominati”), ma in un quadro del tutto instabile ed incompleto di leggi parziali (sempre mancante la concorrente Legge nazionale di principi del Governo del territorio) con un processo in corso, ma non del tutto chiaro, di aggregazione comunali, per rispettare le leggi della spending review dei Governi Monti prima e Letta oggi, in Unioni più o meno obbligatorie10 ed esito di aggregazioni prevalentemente casuali.
In conclusione, due sembrano gli ambiti su cui più in particolare indirizzare la riflessione critica, l’elaborazione e la sperimentazione.
Il primo riguardala novità di una nuova pianificazione intermedia di area vasta (da sostenere e da sperimentarne l’utilizzazione) ed in particolare la pianificazione delle Città metropolitane, che richiederebbe una nuova considerazione della forma della pianificazione, da affrontarsi a partire proprio riconsiderando i rapporti tra la Regione, il nuovo Ente intermedio, i Comuni ed i loro (nuovi) Piani11.
L’eredità dei PTC provinciali, strumenti che hanno affrontato negli ultimi 20 anni il tema del coordinamento della pianificazione comunale, non dovrebbe essere dispersa ma può costituire l’elemento di base, già disponibile, da cui partire: la credibilità del nuovo Ente metropolitano si gioca infatti sulla capacità di esprimere in breve tempo, linee di indirizzo strategico e contenuti strutturali immediatamente utilizzabili; si dovrà però individuare un necessario nuovo modello di pianificazione che, da un lato, si possa avvalere della riconferma dei valori e contenuti strutturali deivigenti PTC provinciali per l’intero territorio ma, dall’altro,preveda un nuovo e mirato piano redatto in copianificazione tra la nascente Città metropolitana e i Comuni che potrebbe avere la conformazione di un Piano strutturale metropolitano, lasciando ai Comuni competenza e ruolo nella redazione e gestione di Piani operativi e di Regolamenti urbanistici, coerenti con il Piano strutturale metropolitano (limitando di molto la sottrazione di potestà o “sovranità” comunale che costituisce un assai probabile terreno di “resistenza” alla Città metropolitana stessa12).
Per la Città metropolitana assume però particolare utilità e pertinenza l’approccio ed il profilo strategico della pianificazione, oltre a quello strutturale prima richiamato; un Piano strategico metropolitano appare cioè un’ espressione fondamentale e “tipica”delle politiche, delle azioni e dei progetti integrati urbani e territoriali selezionati per il loro sostegno ad una visione ed ad obbiettivi condivisi.
Si svilupperebbe così un nuovo processo di pianificazione diversificato ed interrelato basato su rapporti di cooperazione-condivisione e su strumenti quali Protocolli, Accordi di pianificazione e di programma, Perequazione territoriale, Programmi e progetti complessi, Convenzioni. Dunque alla Città metropolitana la pianificazione configurativa del territorio e di vision strategica per le politiche e le progettulità ed ai Comuni metropolitani, in coerenza ed interazione con tali pianificazioni, i piani operativi e gli strumenti regolativi.
Il secondo ambito è costituito dalla necessaria ed urgente riflessione critica e ri-elaborazione teorico-tecnica del modello (che tuttavia sembra ancora il migliore), di fatto mal praticato e probabilmente mal capito nella sua potenzialità innovativa, dell’insieme costituito dal Piano strutturale-Piano operativo-Regolamento urbanistico a livello locale e della necessità di riformare ed innovare anche la pianificazione-programmazione regionale e quella di area vasta.
Bisogna però, più in generale, essere ben essere consapevoli del limite di 15 anni di nuove leggi regionali e di assenza di una “Riforma” nazionale e delle importanti potenzialità tradite.
Vi è la necessità di superare la confusione di Comuni e Regioni che, pur adottando la separazione tra piano strutturale (configurativo del territorio) e piano operativo (conformativo della proprietà) hanno mantenuto gli aspetti regolativi del vecchio PRGC (più in generale è stata privilegiata una visione più regolamentativo-vincolistica che pro-attiva dei nuovi Piani).
Bisogna cioè capire se si tratta davvero di nuovi Piani o solo di una babele nominalistica e di stili, di forma o di sostanza ed agire di conseguenza con fermezza in un necessario percorso di profonda e sostantiva innovazione.
Box 1: caratteristiche della Politica di Coesione Comunitaria 2014-2020
Alcuni aspetti della nuova fase di programmazione dei Fondi strutturali comunitari presentano degli elementi di continuità con un modo di fare sviluppo territoriale e locale molto vicino alle migliori esperienze italiane degli anni passati (come nel caso dei Patti Territoriali). La nuova Politica di Coesione, infatti, da un lato “razionalizza” l’offerta di strumenti a disposizione degli enti locali, dall’altro permette – e premia – una maggiore integrazione nell’utilizzo di fondi di natura diversa (ad esempio FESR – Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e FSE – Fondo Sociale Europeo).
Di particolare interesse, in questo senso, sono gli ITI – Investimenti Territoriali Integrati, ossia accordi di prestazione integrata per investimenti che rientrano tra quelli previsti dagli assi prioritari di uno o più programmi operativi. I finanziamenti provenienti da più assi e programmi, in pratica, possono essere raggruppati in strategie integrate per un determinato territorio o settore funzionale. Come ITI possono essere intese sia strategie integrate per lo sviluppo urbano sia strategie di cooperazione tra Comuni.
Alla dimensione urbana nello specifico è dedicato anche lo strumento dello Sviluppo Urbano Sostenibile Integrato, per affrontare le sfide relative all’ambiente, al cambiamento climatico e alle trasformazioni della società. A questo strumento, per altro, è legata una soglia minima del 5% del totale del FESR allocato, così come lo 0,2% del FESR deve essere dedicato ad azioni innovative nel campo dello sviluppo urbano sostenibile.
In un certo senso sembrerebbe che la dimensione urbana sia prevalente nel quadro delle possibilità offerte dalla nuova programmazione: verrà anche finanziata una Piattaforma per lo Sviluppo Urbano, intesa come base per scambio di conoscenza e messa in rete di esperienze per 300 città europee selezionate dai singoli stati membri. In realtà le possibilità per le aree non-urbane sono molteplici proprio per la natura fortemente integrata delle azioni finanziabili: è infatti possibile distinguere tra azioni dedicate ad ambiti sub-regionali non urbani e il complesso della nuova programmazione che premia partenariato e cooperazione più che azione autonoma di un singolo ente. Per quanto riguarda le azioni dedicate, la più interessante è quella dello Sviluppo locale di tipo partecipativo (nota con l’acronimo inglese CLLD – Community Led Local Development): si tratta di un ITI dedicato alle aree “rurali” con in più un’impronta molto forte in senso strategico e cooperativo perché l’ispirazione esplicita di questo strumento sono i progetti LEADER delle passate programmazioni, ossia progetti di sviluppo locale definiti e portati avanti da GAL – Gruppi di Azione Locale.
È, quindi, abbastanza facile immaginare come le potenzialità della nuova programmazione per lo sviluppo territoriale siano molteplici, soprattutto in un quadro di riorganizzazione istituzionale che può favorire processi di concertazione e di definizione di scelte strategiche condivise.
2. Torino: verso la Città Metropolitana
La questione del riordino istituzionale territoriale ed in particolare del nodo Provincia-Città Metropolitana ha ricevuto negli ultimi due anni un rinnovato interesse, dopo anni di quasi oblio, interesse caratterizzato da attivismo legislativo lungo una sorta di percorso stop and go, le cui tappe sono già state richiamate (vedi par.1). Il modo di procedere sul tema da parte dei Governi succedutisi in tempi recenti appare, infatti, assai discutibile sia nel metodo (passaggio attraverso decreti legge che non vengono poi convertiti in legge come il Dl. 188/12, nel caso dell’avvio delle Città Metropolitane), sia nelle motivazioni prevalenti (il risparmio di spesa, peraltro non del tutto dimostrato, come motivazione principale per l’abolizione delle Province), sia soprattutto nei contenuti, ovvero le delimitazioni territoriali e la definizione delle competenze dei nuovi Enti, in particolare nel campo della Pianificazione territoriale.
Il percorso sembra oggi avviato lungo strade più consolidate (Legge costituzionale più Legge ordinaria13), anche se i tempi non sono ancora definiti, ma questo nuovo percorso non cambia la sostanza di quanto previsto dalla L. 135/12 relativamente alla costituzione delle Città Metropolitane: tra il 1° luglio e il 31 dicembre del 2014 le Città metropolitane individuate dovranno entrare in funzione, avendo come delimitazione territoriale i confini delle attuali Province ed avendo definito il proprio Statuto
E’ quindi utile riflettere sulle caratteristiche del territorio che la ormai prossima Città Metropolitana di Torino dovrà governare e sulle competenze con cui potrà farlo, in particolare dal punto di vista del governo del territorio, e sul come nell’ultimo anno le Istituzioni coinvolte si sono mosse in vista di questa scadenza.
2.1. Il territorio della città Metropolitana di Torino
Nel caso della Città Metropolitana di Torino, questo nuovo soggetto si troverà a governare un territorio con caratteristiche fisiche, economiche e sociali particolari: nel panorama delle 10 Città Metropolitane quella di Torino si presenta infatti un po’ come un’anomalia o, almeno, un caso estremo.
Il territorio sarà, infatti, composto da 315 comuni, moltissimi di dimensioni demografiche estremamente ridotte e in buona parte montani14, un territorio, quindi, in cui le questioni ambientali e paesaggistiche hanno in alcune aree “fragili” caratteristiche peculiari. Un territorio profondamente segnato in generale dagli effetti della crisi economica, soprattutto nelle aree attorno al Comune centrale; un territorio in cui coesistono situazioni di abbandono e processi di trasformazione territoriale simili a quelli che hanno riguardato molte regioni urbane in Italia e in Europa: processi di “metropolizzazione” (Indovina, 2009) che hanno investito progressivamente il territorio, soprattutto quello pianeggiante, determinando nuove forme di policentrismo e modificando gli storici rapporti di dipendenza dal Capoluogo centrale (Mela et al., 2008). Un territorio in cui negli ultimi 10-15 (grazie a programmi e finanziamenti di diverso tipo) sono state sperimentate forme di cooperazione intercomunale, a geometria variabile (Corrado, 2007; Torino Internazionale/Strategica, 2013a), che hanno sedimentato pratiche di governance interessanti e in taluni casi hanno portato anche a forme consolidate di associazionismo fra comuni15. Nell’ultimo anno anche lo svolgimento di funzioni in forma associata fra i Comuni ha avuto nuovo impulso per effetto della Lr. 11/2012, che ha istituito le Unioni dei Comuni16 e la trasformazione delle Comunità Montane in Unioni di Comuni Montani.
Dunque, si tratta di un territorio che richiederebbe una riflessione molto attenta sui processi in corso, un’analisi approfondita dei fenomeni che ne caratterizzano le diverse parti, mentre la scelta operata dalla legge nazionale è ispirata ad un sostanziale disinteresse per i processi territoriali reali e le esigenze di governo che ne derivano, una legge che non si è posta il problema del ruolo e della necessità, nonché delle competenze di un Ente intermedio fra Comune e Regione nella fase attuale di trasformazione territoriale, economica e sociale.
Le particolarità del territorio torinese pongono il problema di una sua articolazione ai fini del governo del territorio stesso: la Città metropolitana, ente di secondo grado, potrà svolgere il suo compito di governo se si troverà nella possibilità di sfruttare situazioni già consolidate di cooperazione intercomunale istituzionalizzate – Unioni di comuni funzionanti – o frutto di processi di governance “dal basso”, senza riprodurre quelle situazioni asimmetriche e conflittuali che hanno spesso caratterizzato il rapporto fra il Comune centrale e il resto del territorio17.
Non va dimenticato che la L. 135/12 è piuttosto ambigua nella definizione delle competenze in materia di pianificazione del territorio (“pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali”, art. 18) e che la stessa Lr. 3/13 del Piemonte di modifica della legge urbanistica regionale nulla aggiunge. Si tratta, infatti, dell’ennesima modifica della legge 56/77, non una revisione organica, ma una più modesta, e più rapida, “manutenzione” della legge in vigore, che ignora di fatto il nuovo contesto istituzionale, riproponendo i contenuti ex lege 142/90 per quanto riguarda la pianificazione territoriale e quelli della legge 56 per quanto attiene alla pianificazione urbanistica18. Da un lato, (vedi anche il cap. 1) il termine “pianificazione generale” evoca strumenti di carattere urbanistico come i PRG, dall’altro lato la legge regionale non modifica sostanzialmente i caratteri del PRG ex lege 56/77, salvo innovarne il processo di formazione introducendo procedure di copianificaizone, mentre la possibilità di sperimentare nuove forme di piano (piano strutturale e piano operativo) introdotta dall’art. 14 bis, appare un’aggiunta piuttosto debole (Barbieri, 2013).
2.2. Come si arriva alla scadenza del 2014
Data questa situazione di cambiamenti abbastanza accelerati in un contesto piuttosto confuso, sembrerebbe necessario “prepararsi” al cambiamento, se non altro per ridurre i possibili impatti negativi della riforma istituzionale.
Da questo punto di vista nella situazione torinese emerge un dato curioso, una sorta di volontà di cancellazione delle conseguenze dell’attuazione della L. 135/12, un procedere per la propria strada ignorandole: tutto sommato questa operazione di “preparazione” non sembra interessare nessuno. Non la Provincia di Torino, che dopo un’iniziativa di discussione nell’autunno 2012, sembra assai poco interessata a ciò che succederà in futuro, da un lato più attenta a riaffermare la propria contrarietà al fatto che la Città Metropolitana sia un ente di secondo grado, dall’altro concentrata sulle questioni dell’attuazione del proprio recente PTCP, o, forse, semplicemente in attesa che si sciolgano i nodi relativi al ruolo della Giunta e del Presidente del futuro ente. Non la Regione, che, come già detto, ha recentemente approvato la propria legge urbanistica ignorando, di fatto, la nuova situazione istituzionale.
Neppure il Comune di Torino sembra davvero interessarsi al problema del governo di un territorio coincidente con quello provinciale, ad opera di un soggetto – la Città metropolitana – di cui il Sindaco del Capoluogo dovrebbe diventare il Presidente. O, meglio, in questo caso la questione è più complessa e potrebbe essere registrata sotto la voce ”ricominciamo da dove ci eravamo fermati, come se nulla fosse successo”. Il “ricominciamo” riguarda il processo di redazione di un nuovo Piano strategico metropolitano, avviato da Torino Internazionale, oggi Torino Strategica, nel 2012.
E’ noto che Torino ha sviluppato la prima esperienza di pianificazione strategica in Italia alla fine degli anni ‘90, esperienza ispirata ad altri modelli europei e che ha a sua volta influenzato le altre esperienze italiane di pianificazione strategica metropolitana. Esperienza con luci ed ombre, ma che indubbiamente è stata importante e, se non ha portato ad un governo metropolitano, che pure era nei suoi obiettivi, ha dato luogo ad un tentativo concreto di un processo di governance, entro certi limiti inclusivo, ed ha prodotto una visione abbastanza condivisa del futuro di una Città e di un’area che in quel momento (2000) apparivano ancora in forte declino. Il lascito organizzativo è stato Torino Internazionale, associazione che includeva anche 22 comuni dell’area metropolitana, e che nel 2006 ha rilanciato il processo con la formazione di un secondo piano strategico: in un contesto ampiamente modificato questo ha dato luogo ad un processo molto debole e di molto minore impatto, fino ad esaurirsi senza alcun atto formale conclusivo, mentre il suo soggetto promotore, Torino Internazionale, perdeva capacità organizzativa e ruolo.
Oggi Torino Strategica cerca di ripartire ripercorrendo la stessa strada, con l’avvio della formazione del terzo Piano Strategico “Torino Metropoli 2025”, ma in una situazione profondamente modificata. Torino Strategica include 85 soci fra cui 17 comuni dell’area metropolitana.
Le operazioni finora sviluppate19 da Torino Strategica appaiono logiche, anche correttamente portate avanti, ma ispirate ad una pratica dei processi di governance, forse un po’ datata20, che soprattutto sembra disinteressarsi dei nodi istituzionali e territoriali prima indicati.
Quale rapporto dovrà esistere fra le diverse forme di piano che dovranno caratterizzare l’azione della Città Metropolitana=Provincia in campo territoriale? Ovviamente non è un’esperienza locale che può chiarire le ambiguità che da questo punto di vista caratterizzano il dettato della L. 135/12.
Nei 10-15 anni di esperienze di pianificazione strategica da parte delle città italiane c’è sempre stata una certa difficoltà a chiarire il rapporto fra la volontarietà dei processi di governance sottesi e il sistema di governo, fra sistema di pianificazione territoriale istituzionale e la dimensione spaziale dei piani strategici elaborati21, e questo ha portato spesso a documenti prevalentemente “di politiche” con una debole presenza della dimensione spaziale delle politiche stesse. Il nuovo Piano strategico di Torino propone di elaborare, attraverso la propria Commissione Territorio Metropolitano, “una strategia territoriale metropolitana” “delle trasformazioni territoriali di lungo periodo”, che “sarà approvata dagli attori su base volontaria (ma, se praticabile, anche formalizzata amministrativamente in tutto o in parte tra gli attori)”. Dunque un accento sui contenuti spaziali, però la stessa attenzione per la dimensione spaziale dei fenomeni metropolitani sembra molto riferita, nelle esperienze finora condotte, ai progetti più o meno puntuali di trasformazione fisica, più che alle grandi dinamiche territoriali. Questi progetti hanno costituito negli ultimi mesi l’oggetto di una prima indagine, indirizzata a costruire una base informativa per una successiva fase di discussione con i Comuni coinvolti22. Ciò che può essere interessante è che questa fase di discussione ha fatto emergere un’attenzione da parte dei Comuni coinvolti ad una dimensione “metropolitana”, ovvero sovra comunale delle possibili politiche che appare frutto di pratiche di cooperazione consolidate.
Nel metodo indicato da Torino Strategica c’è un rinvio ad una possibile formalizzazione delle strategie elaborate, che però sembra richiudersi all’interno dei soggetti raggruppati dall’Associazione (formalizzazione amministrativa in tutto o in parte tra gli attori). Con quale articolazione territoriale, formale e/o volontaria, si può affrontare il governo e la pianificazione di un territorio come quello della Provincia di Torino? L’esperienza del terzo Piano strategico sembra rinviare ad un processo di aggregazione volontaria progressiva, di cui qualche elemento già si intravede: sono 17 i comuni soci di Torino strategica, ma 38 quelli coinvolti nella Commissione Territorio Metropolitano23, mentre sono 53 i Comuni, della I e della II cintura, dell’area metropolitana come definita da un decreto della Giunta regionale nel lontano 1972. Siamo quindi in presenza di tentativi di governance su un territorio a geometria variabile, che però appare, da un lato, ancora poco in grado di cogliere i processi di trasformazione in atto nel territorio, sia la nuova dimensione policentrica di questo territorio, sia la nuova geografia della cooperazione che è cresciuta in questi anni; dall’altro lato ancor meno in grado di rapportarsi con i problemi di governo che interverranno con la realizzazione della Città Metropolitana coincidente con la Provincia, e, più in generale, con il problema del government del territorio.
Nelle esperienze di pianificazione strategica italiane il nodo del rapporto governance-government è sempre stato poco affrontato, e anche in questo è probabilmente da ricercare la debolezza nel tempo di queste esperienze. La questione appare oggi, però, particolarmente urgente in vista della formazione della Città Metropolitana. Della Commissione Territorio Metropolitano di Torino Strategica fanno parte anche la Provincia e la Regione Piemonte, ma questo non modifica molto la situazione, nè aiuta a rispondere alla domanda iniziale: con quale “preparazione” si sta arrivando alla scadenza del primo gennaio 2014?
Riferimenti bibliografici
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ABSTRACT
Institutional reorganisation and territorial planning. Reflections from recent reforms and the Torino experience
The DdL 1542/2013, known as Ddl “Delrio”, because of the name of the minister that has promoted this new law, represents a further step in the long and complex history of the Italian reorganisation of local authorities. Its peculiarity is on the clearly reformist approach that foresee an organisational model of local autonomies that is based on two levels of government that are directly elected (Regions and Municipalities) and a level of governance for sub-regional areas. The latter can refer to both metropolitan and non-metropolitan areas. In the Italian panorama, this law could represent a complete change taking into account opportunities arising from the shortened decision-making chain and from the possibility to concretely proceed in co-planning among different institutions.
The Ddl “Delrio”, on another hand, has shifted also the on-going process of institution of metropolitan cities from the spending review perspective (as in the previous law 135/2012) to a more complete and coherent reform. In this framework, the Torino experience is interesting for at least two characteristics: the territorial specificity of the Provincia di Torino, a province with 315 municipalities – a larger part of which are in mountain and national border areas – that will become the metropolitan city from the 1st of January 2014; the simultaneous strategic planning process for the core area of the province and not for the whole territory.
1. Carlo Alberto Barbieri (Professore straordinario del DIST, Politecnico e Università di Torino) ha coordinato l’articolo e redatto il par. 1, Silvia Saccomani (Professore associato del DIST, Politecnico e Università di Torino) ha redatto il par. 2, Marco Santangelo (Ricercatore confermato del DIST, Politecnico e Università di Torino) ha redatto l’introduzione, l’abstract e il testo del box 1.
2. Vedasi sotto questo delicato profilo, il Parere della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 29.10.2013 (e della Commissione dei Saggi con gli ulteriori pareri da essa raccolti) in merito ai dubbi di costituzionalità del Ddl n. 1542 sollevatidall’Appello UPI “Per una riforma razionale del sistema delle autonomie locali” del 13 ottobre 2013. Il Parere si esprime: 1) sul denunciato vizio di incostituzionalità connesso alla previsione di organi provinciali di secondo grado e non eletti direttamente dai cittadini; 2) sul denunciato vizio di incostituzionalità di un riordino delle funzioni e delle competenze delle Province con legge ordinaria, sopprimendone le funzioni di area vasta ed attribuendole alle Regioni e ai Comuni.
In entrambi i casi tale denuncia viene argomentatamene confutata.Resta fermo dunque che i soli limiti costituzionali sono quelli posti chiaramente dalla Sentenza 220 del 2013 ed attengono alla forma della legge come fonte necessaria per procedere al riordino delle Province nonché alla necessità di non procedere alla loro soppressione previo modifica costituzionale. La Corte ha infatti detto che le sue considerazioni “non entrano nel merito delle scelte compiute dal legislatore e non portano alla conclusione che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire soltanto con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 della Costituzione., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale – ma, più limitatamente che non sia utilizzabile un atto normativo come il decreto legge per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative”.
3. Si consideri ad esempio lo stesso Titolo V della Costituzione modificato oltre 12 anni fa ed il diffuso “pentimento” politico (recentemente anche del Presidente Letta stesso) su di esso ed in particolare sulle materie concorrenti; materie certamente troppo numerose e contraddittorie e su sui si deve operare criticamente, ma ciò non dovrebbe invece riguardare il Governo del territorio che sarebbe davvero difficile considerare come una materia esclusiva sia nel caso che lo fosse delle Regioni o, peggio, dello Stato.
4. Non si tratterebbe affatto di una stravaganza od anomalia italiana. Pur con le dovute differenze, oltre all’interessante e ormai consolidato caso della Francia, in Inghilterra, anche se il recente Localism Bill sembra optare per il tramonto dello spatial planning, l’introduzione del duty to cooperate e l’istituzione dei Local Enterprise Partnerships affermano la necessità di un approccio strategico e strutturale insieme alla pianificazione di tipo intercomunale, basato sulla cooperazione di territorio fra Comuni; ciò per tutti quei temi che necessitano di un approccio di area vasta (un approccio peraltro particolarmente adatto ad interagire con la programmazione dei nuovi Fondi europei 2014-20).
5. In tema di risparmio di suolo e riduzione delle esternalità negative sull’ambiente e il paesaggio, attivando forme di intercomunalità solidale e cioè giochi a somma positiva nello sviluppo locale, strumenti redistributivi che bilanciano costi e benefici tra i Comuni vicini.
6. Attenzione, non sono “Conferenze dei servizi” ma Conferenze delle Istituzioni del governo del territorio che mettono in relazione, cooperando, le proprie competenze ed i propri piani.
7. Le Conferenze sono anche di valutazione perché devono essere la sede per la complessa procedura ed interazione della molteplicità di soggetti che devono essere coinvolti in una VAS realmente integrata nel processo di formazione dei Piani e di cui è responsabile il soggetto procedente che pianifica (purché dotato di Organo tecnico competente).
8. Peraltro si tratta, sostanzialmente, delle proposte sostenute e promosse nella loro sperimentazione dall’Istituto Nazionale di Urbanistica ormai da quasi un ventennio, ma ancora lontane dall’essere realmente e sufficientemente conseguite nel loro significato ed efficacia, sia con riferimento alle numerose nuove leggi regionali della pianificazione, sia soprattutto alla ancora clamorosamente mancante legge nazionale di “Principi fondamentali del governo del territorio”.
9. Va invece reinterpretata ed innovata in particolare proprio la pianificazione d’area vasta, alla luce della prospettiva che il riordino istituzionale apre (meglio sarebbe il respiro e l’impegno per un approccio più di riforma che di “riordino”) verso un carattere intermedio (non solo di tipo nominalistico come è sostanzialmente stato dal 1990, dopo la fragile ma interessante esperienza comprensoriale 1978-1986) dei soggetti istituzionali (metropolitani e non) e della loro pianificazione territoriale strutturale, strategica, di coordinamento.
10. Il Piemonte ad esempio, sta rivedendo la “obbligatoria” soppressione delle Comunità montane.
11. Alle Città metropolitana sono attribuite, oltre a tutte le funzioni delle Province che esse sostituiscono: la “pianificazione territoriale generale” e delle reti infrastrutturali; la mobilità e viabilità; la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale; la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché l’ organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano. Se ci si concentra sulla importante funzione della pianificazione, particolarmente adatte e necessarie per questa nuova Istituzione del governo del territorio si possono ritenere sia la pianificazione strategica che la pianificazione strutturale del territorio urbano e non. Va però considerata ed interpretata correttamente la denominazione “pianificazione territoriale generale”, introdotta dalla legge 135/2012 e riproposta nel Ddl Delrio, essa infatti sembrerebbe e potrebbe evocare i Piani regolatori generali o comunque una pianificazione urbanistica regolativa metropolitano-intercomunale conformativa della proprietà, che appare invece una competenza da lasciare ai Comuni metropolitani.
12. Si svilupperebbe così un’articolazione più caratterizzata da una governance efficace e sostenibile della pianificazione, evitando il rischio di immaginabili resistenze ad una troppo radicale perdita di “sovranità urbanistica” dei Comuni a favore di un’ Istituzione appena costituita che, probabilmente, faticherà a non essere percepita come sovraordinata o volta ad affermare una egemonia del Comune capoluogo.
13. La Legge ordinaria è al momento ancora nella forma di Ddl (anche se il Ddl “Delrio”, AC 1542, è già stato approvato dalla Camera il 21.12.2013 ed è in avanzata discussione al Senato come AS 1212).
14. Su 315 comuni 115 avevano al 2011 meno di 1000 abitanti, e di questi 52 ne avevano meno di 500. Il 45% dei comuni della Provincia è classificato montano.
15. Ad esempio l’Unione di Comuni Torino Nord Est (NET), esperienza ormai consolidata, ma a volte conflittuale con la Città capoluogo (Camillo, Maggio, 2012).
16. In Provincia di Torino le Unioni dei Comuni costituite sono finora 6, compresa l’Unione NET, mentre ci sono 11 Comunità Montane e un certo numero di Comunità collinari.
17. Peraltro, è la stessa legge a richiamare la possibilità che lo Statuto preveda le modalità con le quali la CM può conferire funzioni ai comuni o alle loro forme associative, “anche in forma differenziata per determinate aree territoriali” (art. 18, comma 9).
18. È possibile che ciò sia avvenuto anche perché la discussione del Disegno di legge 153/11, poi trasformato nella legge 3, è avvenuta prima del delinearsi del nuovo contesto istituzionale.
19. Per le attività svolte finora da Torino Strategica v. http://www.torinostrategica.it/.
20. Il metodo indicato per lo sviluppo del Piano Strategico è quello della concertazione tra gli attori strategici per sviluppare idee e influenzare l’azione su ambiti di medio lungo periodo, metodo che dovrebbe favorire l’incontro fra portatori di interessi e risorse, l’ascolto reciproco fra gli attori la circolazione delle informazioni, l’emersione di risorse esistenti da valorizzare, il confronto, la selezione di priorità condivise, l’approfondimento conoscitivo, l’individuazione di traiettorie convergenti e la costituzione di coalizioni di sviluppo. (http://www.torinostrategica.it/lo-strumento-della-concertazione/).
21. La questione non è toccata dalla nuova legge urbanistica regionale.
22. Si tratta del Progetto Mappatura delle trasformazioni metropolitane sviluppato nell’ambito di un progetto di ricerca finanziato nell’ambito del progetto europeo City Regions, di cui sono partner locali Torino Internazionale/Strategica e la Città di Torino (Torino Strategica, 2013b).
23. Sono i comuni della I, II e III cintura oltre a Torino che nel 2004 avevano dato luogo alla cosiddetta Conferenza metropolitana.