Servizio idrico integrato: il Consiglio di Stato chiarisce alla Regione Piemonte che nelle società in house non è ammessa la partecipazione di privati

Luca Geninatti Satè[1]

Sommario. 1. Il quesito della Regione Piemonte e le norme sulla partecipazione di soci privati alle società in house. 2. Il parere del Consiglio di Stato: (a) le specificità dell’affidamento in house del servizio idrico integrato. 3. (segue): (b) l’assenza, nella disciplina del servizio idrico integrato, di una norma che prescriva la partecipazione dei privati alle società in house.

1. Il quesito della Regione Piemonte e le norme sulla partecipazione di soci privati alle società in house.

Il Presidente della Regione Piemonte ha presentato al Consiglio di Stato, con nota del 27 marzo 2019, una richiesta di parere circa le modalità di affidamento del servizio idrico integrato (tema disciplinato, a livello regionale, dall’art. 7 della l.r. 20 gennaio 1997, n. 13).

In particolare, il quesito principale aveva ad oggetto la possibilità di “affidare in via diretta il servizio idrico integrato ad una società in house all’interno della quale si collochi una partecipazione di capitali privati con un ruolo di socio industriale, sia pure non in grado di avere un’influenza determinante sulla governance societaria”.

In caso di risposta affermativa, la Regione chiedeva anche un parere sull’opportunità di introdurre una modifica alla legislazione regionale, al fine di consentire espressamente l’affidamento in house a società compartecipate da privati (questione che il Consiglio di Stato non ha però esaminato, avendo risposto negativamente al primo quesito).

La domanda della Regione sorgeva dal rilievo che, in materia di affidamento in house, si è verificato nell’ordinamento un conflitto apparente di norme:

  • da un lato, l’art. 149bis del d.lgs. n. 152/2006 prevede che l’affidamento diretto del servizio idrico integrato possa avvenire a favore di società “interamente pubbliche”, “in possesso dei requisiti prescritti dall’ordinamento europeo per la gestione in house[2];
  • dall’altro, l’art. 16 del d.lgs. n. 175/2016 prevede, come eccezione alla natura interamente pubblica delle società in house, la possibilità della partecipazione di capitali privati, ma solo se essa (i) sia “prescritta da norme di legge” e (ii) non comporti controllo o potere di veto, “né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata[3].

Come si vede, il conflitto tra queste norme è solo apparente: le due disposizioni, infatti, non comportano una contraddizione fra la natura “necessariamente pubblica” delle società in house affidatarie del servizio idrico (stabilita dal d.lgs. n. 152/2006) e la possibile partecipazione di soci privati (ammessa dal d.lgs. n. 175/2016), perché quest’ultima è subordinata all’esistenza di una norma di legge che espressamente prescriva tale partecipazione.

Sotto questo profilo, la norma del d.lgs. n. 175/2016 potrebbe considerarsi ridondante, perché – in forza del principio di specialità – una disposizione di rango primario che eventualmente imponesse la partecipazione dei privati in una società in house certamente prevarrebbe (o in forza del criterio cronologico, comportandone quindi la parziale abrogazione, o in ragione di quello della specialità, dando così luogo a una deroga) sulla regola generale che esige la sola partecipazione pubblica.

È vero – da un lato – che la coesistenza delle due norme è a prima vista suscettibile di generare qualche dubbio interpretativo (costituendo, in questo senso, un non isolato esempio di imperfetta tecnica normativa); ma è anche vero – dall’altro – che il ricorso ai criteri generali di risoluzione delle antinomie consente di risolvere questi dubbi nel senso che l’affidamento diretto a una società in house in cui siano presenti soci privati è eccezionalmente ammesso soltanto ove esista una norma di legge che (non solo lo ammetta, ma) espressamente lo prescriva.

 

2. Il parere del Consiglio di Stato: (a) le specificità dell’affidamento in house del servizio idrico integrato.

Nei termini che precedono è il parere che si annota (Cons. Stato, sez. I, 7 maggio 2019, n. 138), ove si precisa chiaramente che “sino a quando una specifica disposizione di legge nazionale non prescriverà che i privati partecipino ad una società in house, l’apertura dell’in house ai privati deve ritenersi esclusa”.

Le argomentazioni sviluppate dal Consiglio di Stato (dopo un lungo excursus sull’evoluzione storica delle modalità di affidamento del servizio e sulle caratteristiche generali dei “servizi a rilevanza economica”) si soffermano in particolare sulla strutturale incompatibilità fra in house providing e partecipazione dei privati alla società affidataria, richiamando la giurisprudenza della Corte di Giustizia secondo la quale “la partecipazione, pur minoritaria, di soggetti privati al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla medesima un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi[4].

Essendo il “controllo analogo” una delle condizioni necessarie per la configurazione dell’in house, e dunque per l’ammissibilità di un affidamento diretto, la presenza di soggetti privati nel capitale sociale dell’affidataria è di per sé incompatibile con il modello in house[5].

Com’è noto, infatti, s’impiega l’espressione “in house providing”, o “affidamento in house”, per designare la possibilità per una pubblica amministrazione di affidare un contratto direttamente, ossia senza l’interposizione di procedure ad evidenza pubblica, ad un soggetto da essa distinto ma comunque riconducibile alla sua unitaria articolazione organizzativa.

La dizione compare per la prima volta nel Libro bianco della Commissione europea del luglio 1998, ove gli appalti in house sono definiti come quelli «aggiudicati all’interno della Pubblica amministrazione, ad esempio tra Amministrazione centrale e locale o, ancora, tra una amministrazione ed una società interamente controllata».

Sulla scorta della definizione data dalla Commissione europea, l’istituto dell’in house si radica nel diritto dell’Unione europea a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia 18 novembre 1998, in causa C-197/98, c.d. “Teckal”; in tale pronuncia la Corte legittima l’affidamento diretto, non preceduto da selezione ad evidenza pubblica, quando l’ente eserciti sul soggetto affidatario un controllo analogo a quello dal medesimo ente esercitato sui propri servizi ed a condizione che l’affidatario svolga la parte più importante della propria attività con l’ente che lo controlla.

La sussistenza dei due requisiti ora menzionati, detti, il primo, “dipendenza gestionale”, e, il secondo, “dipendenza finanziaria”, determina, secondo la Corte, l’inapplicabilità delle norme che impongono la scelta del terzo contraente mediante evidenza pubblica, perché tali requisiti comportano che l’affidatario non sia qualificabile come terzo, ossia come soggetto alieno dall’Amministrazione, e che perciò il rapporto fra Pa e affidatario non possa nemmeno configurarsi come contratto.

Per conseguenza, non essendo l’affidatario un “terzo”, e non essendo il rapporto un “contratto”, non si applicano le regole di evidenza pubblica che presiedono, invece, proprio la scelta del “terzo contraente”.

L’origine giurisprudenziale dell’istituto ha conosciuto successivamente l’impatto della codificazione, ossia della previsione espressa, da parte del legislatore, delle ipotesi di operatività degli affidamenti in house; nel settore dei servizi pubblici di rilevanza economica la codificazione è stata dapprima piena, ma ha poi conosciuto una progressiva riduzione mediante una più rigorosa definizione dei presupposti di eccezionalità che legittimano il ricorso all’istituto.

Laddove il vigente quadro normativo in materia di servizi pubblici rinvia, ai fini della legittimità dell’affidamento in house, ai principi e alle regole sviluppatisi in sede unionista, esso prescrive dunque la ricorrenza dei requisiti (a) della dipendenza gestionale e (b) della dipendenza finanziaria, caratterizzati secondo la fisionomia ad essi attribuita dall’evoluzione pretoria dell’istituto.

A questo riguardo, si rammenta che ai fini della sussistenza del requisito della dipendenza gestionale s’individuano alcuni presupposti essenziali:

(a) la società affidataria dev’essere a partecipazione pubblica totalitaria (ma, come sopra esposto, sussiste un dubbio al riguardo, derivante dal tenore delle recenti direttive in corso di recepimento), in quanto la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale della società esclude la possibilità di configurare un’effettiva e completa dipendenza gestionale nei confronti dell’ente pubblico;

(b) gli strumenti di controllo dell’ente devono risultare più penetranti rispetto a quelli civilistici; per conseguenza:

(b1) il Consiglio di amministrazione del soggetto affidatario non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente controllante dev’essere consentito di esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale[6]; le decisioni principali sulla gestione e conduzione della società in house devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante[7];

(b2) il soggetto affidatario in house non deve avere acquisito una vocazione commerciale che renda precario il controllo dell’ente pubblico, quale risulterebbe per esempio (i) dall’ampliamento dell’oggetto sociale, (ii) dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali, (iii) dall’espansione territoriale della società a tutta l’Italia e all’estero;

(b3) devono essere rinvenibili previsioni aggiuntive a beneficio dell’ente controllante che permettano a quest’ultimo di operare un sindacato concreto sui poteri gestionali dell’organo amministrativo dell’affidatario, che investa non solo gli atti di gestione straordinaria ma anche, in parte rilevante, la gestione ordinaria;

(c) la società in house può anche essere partecipata da una pluralità di enti locali, in tal caso:

(c1) da un lato, il “controllo analogo” può essere esercitato congiuntamente da tali autorità, senza che sia indispensabile che detto controllo venga esercitato individualmente da ciascuna di esse;

(c2) dall’altro lato, si esige che il controllo esercitato sull’entità partecipata non si fondi soltanto sulla posizione dominante dell’autorità pubblica che detiene una partecipazione di maggioranza del capitale sociale: è necessario, infatti, che anche il singolo socio possa vantare una posizione idonea, per quanto minoritaria, a garantirgli una possibilità effettiva di partecipazione alla gestione dell’organismo del quale è parte;

(c3) la giurisprudenza dell’Unione europea non specifica attraverso quali sistemi operativi debba estrinsecarsi la presenza di ciascun socio negli organi direttivi e con quale modalità concreta quest’ultimo debba concorrere al controllo analogo; la prassi conosce svariati meccanismi, fondati ora sulla nomina diretta e concorrente di singoli rappresentanti (uno per ogni socio) in seno al consiglio di amministrazione della società, ora sulla partecipazione mediata agli organi direttivi attraverso la nomina da parte dell’assemblea di consiglieri riservati ai soci di minoranza; un’efficace alternativa era costituita, al riguardo, dagli strumenti di carattere parasociale, che operano attraverso la predisposizione di organismi di controllo, costituiti dai rappresentanti di ciascun ente locale, muniti di penetranti poteri di verifica preventiva sulla gestione dell’attività ordinaria e straordinaria del soggetto in house, tali da rendere l’organo amministrativo privo di apprezzabile autonomia rispetto alle direttive delle amministrazioni partecipanti; tuttavia, quest’ultima alternativa appare oggi preclusa da quanto stabilito dall’art. 11, comma 13, del d.lgs. n. 175/2016, ai sensi del quale “le società a controllo pubblico limitano ai casi previsti dalla legge la costituzione di comitati con funzioni consultive o di proposta”, e dal comma 9 del medesimo art. 11, che impone agli statuti delle società a controllo pubblico di prevedere il “divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società[8];

(c4) la giurisprudenza sottolinea la necessità che il relativo consiglio di amministrazione non abbia rilevanti poteri gestionali di carattere autonomo, e che l’ente pubblico affidante (la totalità dei soci pubblici) eserciti, pur se con moduli fondati su base statutaria, poteri di ingerenza e di condizionamento superiori a quelli tipici del diritto societario e caratterizzati da un margine di rilevante autonomia della governance rispetto alla maggioranza azionaria; risulta a tal fine indispensabile che le decisioni strategiche e più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante.

Con riferimento, invece, alla sussistenza del requisito della dipendenza gestionale, esso s’identifica nella necessità che il soggetto affidatario svolga la parte più importante della propria attività con l’ente che lo controlla; a tal proposito:

(a) tale requisito può sussistere solo se l’attività dell’impresa affidataria in house è principalmente svolta a favore dell’ente controllante, con la conseguenza che ogni altra attività assume carattere solo marginale;

(b) il criterio della prevalenza va inteso in senso quantitativo e qualitativo (si noti: le recenti direttive in corso di recepimento lo quantificano in almeno l’80% del fatturato), sussistendo il requisito quando l’affidatario in house o non svolga alcuna attività a favore di soggetti diversi dall’ente controllante, anche se pubblici, oppure ne svolga ma in misura quantitativamente irrisoria e qualitativamente irrilevante;

(c) per il soddisfacimento del requisito non assume rilievo il fatto che l’affidatario percepisca dagli utenti del servizio reso, e non dagli enti locali affidanti, il corrispettivo per l’attività, sempre che tale attività sia svolta a favore di utenti che compongono la comunità al cui presidio è posto l’ente affidante;

(d) nel caso di affidatario in house partecipato da più enti locali, il requisito può sussistere laddove l’impresa svolga la parte più importante della propria attività anche non necessariamente con l’uno o l’altro degli enti ma con questi ultimi complessivamente considerati.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha inoltre riconosciuto l’ammissibilità di un controllo analogo esercitato congiuntamente da più autorità pubbliche che possiedono in comune l’ente affidatario (c.d. “in house frazionato”[9]), affermando che è configurabile un controllo analogo anche nel caso di partecipazione pubblica indiretta, in cui il pacchetto azionario non è detenuto direttamente dall’ente pubblico di riferimento, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo posseduta al 100% dall’ente medesimo (c.d. “in house a cascata”[10]); l’impostazione è stata confermata, nel nostro ordinamento, dall’Autorità Nazionale Anticorruzione[11] e dal Consiglio di Stato in sede consultiva[12].

E’ opportuno aggiungere che “con riferimento ai servizi pubblici locali a rete di rilevanza economica” (qual è il servizio idrico integrato, come oggi chiaramente affermato dalla giurisprudenza[13]), l’accertamento dei requisiti per la sussistenza dell’in house providing va svolto “tenuto conto delle particolari disposizioni normative applicabili al caso concreto[14].

Ne deriva che, siccome ai sensi della vigente disciplina in materia di servizio idrico integrato, le funzioni in materia di gestione del servizio idrico integrato sono di titolarità dell’Ente di Governo dell’Ambito, ai quali gli Enti locali devono obbligatoriamente partecipare (ai sensi dell’art. 147, d.lgs. n. 152/2006), in materia di servizio idrico integrato, le funzioni amministrative che (in altre fattispecie) sono esercitate dagli Enti locali sono devolute all’Ente di Governo dell’Ambito, Ente che non è un semplice “modulo organizzativo” dell’attività dei Comuni, ma assurge a vero e proprio ente esponenziale al quale la legge ha trasferito le competenze (già) dei singoli Enti locali[15]: l’Ente di Governo dell’Ambito esercita, quindi, le funzioni in materia di gestione del servizio idrico nell’interesse degli Enti locali, i quali ad esso partecipano[16].

L’attribuzione ex lege all’Ente di Governo dell’Ambito delle funzioni di gestione in materia di servizio idrico integrato ha quindi necessariamente comportato che la legge stessa abbia conferito a tale Ente i poteri di approvazione degli atti fondamentali di programmazione, di amministrazione e di gestione del servizio idrico integrato; in particolare, spetta all’Ente d’Ambito (e non ai singoli Comuni) l’approvazione del Piano d’Ambito, che include – fra l’altro – il programma degli interventi, il modello gestionale e organizzativo e il piano economico finanziario del servizio idrico (art. 149, d.lg. n. 152/2006)

E’ sulla base di questa argomentazione che il parere in commento giunge a ritenere che, quando gli Enti locali esercitano un controllo analogo su un soggetto il quale, a propria volta, esercita un controllo analogo sull’organismo in house, “anche se tra la l’amministrazione aggiudicatrice e l’organismo in house non sussiste una relazione diretta è comunque ammesso l’affidamento diretto”.

Nel parere il Consiglio di Stato richiama anche il tema della discussa eccezionalità dell’affidamento in house rispetto alle altre forme di gestione previste dall’ordinamento, ossia la questione se, in ragione della ritenuta portata limitativa della concorrenza che l’istituto possiederebbe, esso costituisca (oppure no) un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, le quali richiedono che l’affidamento dei contratti pubblici avvenga mediante gara[17].

Sul punto il parere dà atto “dei mutamenti normativi e giurisprudenziali sopravvenuti, soprattutto a seguito delle direttive”, rilevando che, nell’ordinamento attualmente vigente, il modello in house possa ritenersi una forma ordinaria (e non eccezionale) di gestione dei servizi pubblici[18] (conclusione in parte già anticipata dalla Corte costituzionale nella sentenza 17 novembre 2010, n. 325), come tale discrezionalmente utilizzabile dagli Enti in attuazione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche (oggi codificato dall’art. 166 del d.lg. n. 50/2016[19]).

Tuttavia, il Consiglio di Stato ritiene questo dilemma non decisivo rispetto al quesito posto dalla Regione Piemonte, assumendo piuttosto rilievo le differenze che intercorrono fra le società in house e le società miste, differenze che emergono “sia con riferimento alle modalità di affidamento del contratto sia in relazione al diverso ruolo del socio privato”: in particolare, a quest’ultimo riguardo, il parere chiarisce nettamente che il socio privato “nelle società in house non deve avere un ruolo determinante”, mentre “nelle società miste deve essere determinante tanto che l’articolo 17, comma 2, prescrive per quest’ultimo il possesso dei requisiti di qualificazione previsti da norme legali o regolamentari in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita”.

È pur vero che affermare che nelle società in house il socio privato “non deve avere un ruolo determinante” non implica comporta di per sé l’assoluta preclusione alla partecipazione di capitali privati: tuttavia, questo divieto costituisce – secondo il Consiglio di Stato – “uno dei requisiti tradizionalmente caratterizzanti la definizione comunitaria di in house providing”, con la conseguenza che si deve ritenere “non ammissibile”, nell’in house, “la partecipazione anche minoritaria di soci privati”.

Si deve pertanto riconoscere che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi, poiché qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente rispetto a quelli di interesse pubblico[20].

 

3. (segue): (b) l’assenza, nella disciplina del servizio idrico integrato, di una norma che prescriva la partecipazione dei privati alle società in house.

Rispetto a questo quadro non è in contraddizione la previsione, fra gli elementi caratteristici dell’in house, della “possibilità” che vi siano forme di partecipazione di capitali privati “prescritte dalle disposizioni legislative nazionali” (art. 2, comma 1, lett. o) e art. 16 del d.lgs. n. 175/2016), perché questa “possibilità” costituisce – rileva correttamente il Consiglio di Stato – una “eccezione di stretta interpretazione alla regola della totale partecipazione pubblica”.

Si tratta dunque di un esempio del tradizionale rapporto fra regola ed eccezione, in forza del quale (a) la regola è rappresentata dalla necessaria partecipazione pubblica totalitaria e (b) l’eccezione è costituita dal caso in cui una norma nazionale (conforme ai Trattati) “prescriva” la partecipazione di capitali privati (che, peraltro, non esercitino un’influenza determinante sulla società), con la conseguenza che (c) ai sensi dell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in generale, l’eccezione non potrà applicarsi “oltre i casi e i tempi” previsti dalla norma eccezionale.

Ne deriva che soltanto una disposizione legislativa nazionale (conforme ai Trattati) potrà eventualmente imporre la partecipazione di privati, non dotati di influenza dominante, in una società in house, e che quindi, in assenza di tale disposizione, nelle società in house non è ammessa la presenza di soci privati.

La lineare argomentazione del Consiglio di Stato è integrata da due precisazioni.

La prima è che la norma eccezionale che eventualmente stabilisca la presenza di capitali privati nelle società in house non potrebbe limitarsi ad “ammetterla”, ma dovrebbe “prescriverla”.

Il chiarimento è necessario perché l’art. 5, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 50/2016 prevede, fra i requisiti dell’in house, che non vi siano partecipazioni di privati ad eccezione di quelle “previste” dalla legislazione nazionale; se ne potrebbe quindi dedurre che una società in house composta anche da privati non sia esclusivamente subordinata al caso in cui una norma nazionale imponga tale partecipazione, ma possa venire ammessa anche laddove la legislazione si limiti a prevederla.

Il Consiglio di Stato ritiene invece che non basti, per facoltizzare la partecipazione dei privati, la relativa previsione, ma occorra una esplicita prescrizione, e ciò per il concorso di tre argomenti: a) il criterio sistematico nella forma del rapporto tra fonti che lega il d.lgs. n. 50/2016 al d.lgs. n. 175/2016: poiché il secondo è più recente del primo, e menziona la necessità che la partecipazione sia “prescritta”, questa previsione deve ritenersi prevalente sull’altra, in virtù del criterio della lex posterior; b) l’argomento dell’interpretazione conforme supportato dal criterio letterale e linguistico, che conduce a rilevare la presenza del termine “prescritta”, e non di quello “prevista” nelle Direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE, delle quali il d.lgs. n. 50/2016 costituisce recepimento; c) l’argomento psicologico, in forza del quale il parere osserva che le predette direttive hanno la finalità (dedotta dal lessico impiegato nei “considerando” n. 32 della Direttiva 2014/23/UE e n. 46 della Direttiva 2014/24/UE) di consentire la partecipazione di privati solo nei casi cui essa venga imposta come obbligatoria dal legislatore nazionale[21].

Anche la previsione contenuta nell’art. 5 del d.lgs. n. 50/2016 (che rinvia alle forme di partecipazione dei privati “previste dalla legislazione statale”)va quindi intesa come riferita alle (sole) “disposizioni di legge che “prescrivono” e dunque impongono la partecipazione e non anche a quelle che genericamente “prevedono” la partecipazione[22].

La seconda precisazione è che la fonte normativa idonea a imporre la partecipazione di privati a una società in house è soltanto la legge statale: “quindi non v’è spazio per la legislazione regionale”.

Il Consiglio di Stato ricollega questa conclusione al rilievo che la “disciplina sulle società in house appartiene alla potestà esclusiva del legislatore nazionale, trattandosi di materia attinente alla concorrenza” e alla natura tassativa dei requisiti dell’in house; in questo senso, già la Corte costituzionale ha ritenuto che questo carattere tassativo “esclude che la legge regionale possa definire diversamente i presupposti necessari per qualificare l’affidamento di un servizio a una società partecipata come scelta di autoorganizzazione[23].

Resta dunque chiarito (con precisazioni e approfondimenti argomentativi anche ulteriori rispetto alla mera – per quanto risolutiva – applicazione del criterio di specialità) che la partecipazione di privati al capitale di una società in house è ammessa solo se prescritta espressamente da una disposizione legislativa statale conforme ai trattati (a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporti controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata), e che quindi le Regioni nulla possono al riguardo disporre.

L’assenza di una disposizione di questo tipo nell’ordinamento positivo conduce perciò ad affermare che, attualmente, nelle società in house non è ammessa la partecipazione dei privati.


 


[1] Professore associato di Istituzioni di Diritto Pubblico nell’Università del Piemonte Orientale.

 

[2] In argomento, v. già L. Geninatti Satè, Questioni interpretative e problemi aperti nella disciplina dei servizi pubblici locali, in questa Rivista, fasc. 3/2014; v. anche, ex multis: A. Santuari, Profili giuridici e assetti istituzionali della gestione del servizio idrico integrato, in Giust. Amm., 2013. Com’è noto, i presupposti che legittimano l’in house providing sono codificati dall’art. 12 della direttiva 24/2014/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 febbraio 2014 (sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE) e, da ultimo, attuati con l’art. 5 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali, nonché per il riordino della disciplina vigente in materia di contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), e l’art. 16 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175 (Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica). Sull’in house providing v., ex multis, R. Cavallo Perin, Il modulo “derogatorio”: in autoproduzione o in house providing, in L’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, H. Bonura, M. Cassano (a cura di), Torino, 2011, pp. 119-135; D. Casalini, La scelta tra mercato e auto-produzione di beni e servizi, in Foro amministrativo – CdS., 2008, 1158; Id., L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003; R. Cavallo Perin – D. Casalini, The control over in-house providing organizations, in Public Procurement Law Review, n. 5/2009.

 

[3] Per un’analisi della disposizione, e delle questioni che essa solleva, sia consentito rinviare a L. Geninatti Satè, Il nuovo testo unico in materia di società a partecipazione pubblica: verso la definizione di uno statuto speciale delle società pubbliche, in “Il Nuovo Diritto delle Società”, 2017, pp. 835 e ss..

 

[4] In termini, Corte di Giustizia UE 11 gennaio 2005, C26/03, Stadt Halle; Corte di Giustizia UE 21 luglio 2005, C231/03, Consorzio Coname; Corte di Giustizia UE, sez. I, 18 gennaio 2007, C225/05, Je. Au..

 

[5] In termini, Cons. Stato, sez. V, n. 5079/2014; Cons. Stato, sez. VI, n. 2660/2015; Cons. Stato, sez. V, n. 4253/2015; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 2583/2018; Cons. Stato, sez. I, n. 883/2019; Cons. Stato, sez. I, n. 1645/2018.

 

[6] Cons. Stato, sez. V, 23 ottobre 2007, n. 1514.

 

[7] Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5.

[8] In argomento si rinvia nuovamente a L. Geninatti Satè, Il nuovo testo unico in materia di società a partecipazione pubblica: verso la definizione di uno statuto speciale delle società pubbliche, cit..

 

[9] V. Corte di Giustizia UE, 29 novembre 2012, in cause riunite C-182/11 e C-183/11.

 

[10] V. Corte di Giustizia UE, 11 maggio 2006, in causa C-340/04.

 

[11] Cfr. A.N.A.C., Delibera 15 febbraio 2017, n. 235, aggiornata da Delibera 20 settembre 2017, n. 951.

 

[12] Cons. Stato, sez. I, 10 ottobre 2018, n. 2583.

 

[13] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 26 maggio 2017, n. 2481.

 

[14] A.N.A.C., Delibera 15 febbraio 2017, n. 235, aggiornata da Delibera 20 settembre 2017, n. 951.

 

[15] Cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. V, 31 marzo 2015, n. 3236; sez. V, 26 maggio 2009, n. 5243.

 

[16] Cfr. Corte cost., 25 marzo 2013, n. 50; 16 luglio 2009, n. 246.

 

[17] Per questo orientamento, v. Cons. Stato, sez. III, n. 2291/2015; sez. VI, n. 2660/2015; sez. III, n. 5732/2015; sez. II, n. 298/2015. In senso contrario, Corte di Giustizia UE, 10 settembre 2009, causa C-573-07; Corte di Giustizia UE, 19 novembre 1999, C107/98; 13 ottobre 2005, C458/03.

 

[18] Al punto che il Consiglio di Stato, sez. V, con ordinanze 7 gennaio 2019, n.138 e 14 gennaio 2019, n. 293 e n. 296, ha rimesso alla Corte di Giustizia UE la questione pregiudiziale originata dal dubbio chele disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano compatibili con le pertinenti disposizioni e principi del diritto primario e derivato dell’Unione europea. Inoltre, il Tribunale Amministrativo Regionale della Liguria (ordinanza n. 886/2018) ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50 del 2016, (nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti diano conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, “delle ragioni del mancato ricorso al mercato”) sulla base del principio secondo cui sarebbeacquisito – quantomeno in ambito europeo – il principio che l’in house providing non configura un’ipotesi eccezionale e derogatoria digestione dei servizi pubblici rispetto all’ordinario espletamento di unaprocedura di evidenza pubblica, ma costituisce una delle ordinarie formeorganizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cuiindividuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni, sulla base diun mero giudizio di opportunità e convenienza economica.

 

[19] Sul tema sia consentito rinviare a L. Geninatti Satè, Principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche, in L. Perfetti (a cura di), Codice dei contratti pubblici commentato, Milano, 2017, pp. 1380 ss.. Sulla qualificazione della decisione di un Ente in ordine alla concreta gestione dei servizi pubblici locali, ivi compresa quella di avvalersi dell’affidamento diretto in house, come frutto di una scelta ampiamente discrezionale v., ex multis: Corte di Giustizia UE, 6 aprile 2006, in causa C-410/14; Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 2016, n. 1034; sez. V, 30 settembre 2013, n. 4832; sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 762, sez. V, 10 settembre 2014, n. 4599; T.A.R. Lombardia – Brescia, 17 maggio 2016, n. 691); la predetta scelta sfugge quindi al sindacato di legittimità del giudice amministrativo (salvo che non sia manifestamente infirmata da illogicità, irragionevolezza, irrazionalità ed arbitrarietà).

 

[20] Corte giustizia UE, sez. I, 19 giugno 2014, C574/12, caso Centro Hospitalar de Setúbal.

 

[21] Tali “considerando” prevedono che la disciplina delle società in housenon dovrebbe estendersi alle situazioni in cui vi sia partecipazione diretta di un operatore economico privato al capitale della persona giuridica controllata poiché, in tali circostanze, l’aggiudicazione di un appalto pubblico senza una procedura competitiva offrirebbe all’operatore economico privato che detiene una partecipazione nel capitale della persona giuridica controllata un indebito vantaggio rispetto ai suoi concorrenti date le particolari caratteristiche degli organismi pubblici con partecipazione obbligatoria, quali le organizzazioni responsabili della gestione o dell’esercizio di taluni servizi pubblici, ciò non dovrebbe valere nei casi in cui la partecipazione di determinati operatori economici privati al capitale della persona giuridica controllata è resa obbligatoria da una disposizione legislativa nazionale in conformità dei trattati, a condizione che si tratti di una partecipazione che non comporta controllo o potere di veto e che non conferisca un’influenza determinante sulle decisioni della persona giuridica controllata. […]” (enfasi aggiunta”.

 

[22] In tal senso, già Cons. Stato, Commissione Speciale, parere 21 aprile 2016, n. 968.

 

[23] Corte cost., 7 maggio 2017, n. 93.