Sul diniego di occupazione di suolo pubblico per attività di propaganda politica in caso di omessa dichiarazione di aderire ai valori dell’antifascismo. Nota di commento a TAR Piemonte, Sezione II, sentenza 18 aprile 2019, n. 447
Matteo Rossin[1]
Sommario: 1. Premessa: il fatto storico. 2. Inquadramento della tematica: brevi cenni sulla natura della dichiarazione. 3. La normativa di riferimento, il bilanciamento tra valori dell’antifascismo e libertà di manifestazione del pensiero, la rilevanza della condotta omissiva. 4. Conclusioni.
1. Premessa: il fatto storico.
La pronuncia[2] prende origine dall’istanza presentata da una rappresentante di estrema destra che, agendo in nome e per conto della formazione politica “Casapound Italia”, chiedeva al Comune di Rivoli l’autorizzazione ad occupare il suolo pubblico con un gazebo[3], al dichiarato fine di svolgere propaganda politica. All’istanza veniva allegata una dichiarazione[4] di tenore parzialmente difforme rispetto al modello predisposto dall’amministrazione comunale[5], formalizzante l’adesione ai valori dell’antifascismo e il ripudio dell’ideologia nazi-fascista. L’omissione, da parte della richiedente di siffatti contenuti, induceva l’amministrazione a sospendere, in un primo momento, l’iter autorizzativo – con invito a regolarizzare la dichiarazione – e, in seguito al rifiuto di ottemperare, ad emettere un provvedimento di rigetto, per improcedibilità della relativa istanza.
La decisione del Tar pone, a ben vedere, tre questioni giuridiche, che verranno trattate nel seguente ordine logico: la natura della dichiarazione richiesta dagli uffici comunali; la rilevanza dell’omesso riferimento ai valori dell’antifascismo e al ripudio del nazi-fascismo; infine, la questione, di merito, attinente al contrasto (prefigurato in motivazione dal Giudice amministrativo) tra libera manifestazione del pensiero, da una parte, e rispetto dei valori dell’antifascismo, dall’altra.
2. Inquadramento della tematica: brevi cenni sulla natura della dichiarazione.
Rispettando l’ordine delle questioni, il primo punto da affrontare concerne la ricostruzione della natura giuridica della dichiarazione presentata dalla ricorrente, non prima di un breve inquadramento della materia.
L’occupazione di suolo pubblico consiste nell’uso temporaneo, da parte di un soggetto privato, di uno spazio pubblico che, per destinazione, è rivolto alla collettività. La regolamentazione della materia è assegnata ai Comuni, che definiscono, mediante regolamento, i presupposti e le condizioni per il rilascio del titolo autorizzativo, individuando, tra l’altro, l’ammontare del canone di occupazione e prevedendo condizioni particolari a seconda dell’area e del fine della richiesta.
Il Legislatore ha scelto di non determinare a priori le finalità in vista delle quali può essere attribuito l’uso di suolo pubblico, preferendo accordare ai Comuni il potere di disciplinarle, caso per caso, in funzione della meritevolezza dell’interesse perseguito. Nell’attività valutativa l’Amministrazione ha il dovere di operare un bilanciamento dell’interesse pubblico con quelli privati eventualmente confliggenti, dandone conto nella motivazione del provvedimento finale (stante il carattere discrezionale del procedimento); di conseguenza, la P.A., prima di rilasciare l’autorizzazione, deve, attraverso apposita istruttoria, effettuare un’accurata ricognizione degli interessi coinvolti[6].
Data la premessa, la dichiarazione richiesta dall’amministrazione di Rivoli va configurata come “condizione specifica” prevista dagli organi comunali[7] per il particolare fine in vista del quale è richiesta (l’attività di propaganda politica), sulla cui natura e tenore, nondimeno, è necessario puntualizzare. La deliberazione di Giunta (164/2018)[8] la qualifica come dichiarazione sostitutiva di certificazione, anche se, vista la natura delle circostanze su cui insiste (opinioni di matrice politica), sembra difficile poterla ricondurre nell’alveo della fattispecie di cui agli artt. 46 e 47 del D.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445.
Occorre rammentare che, ai sensi del Testo unico in materia di documentazione amministrativa, l’effetto giuridico proprio di una dichiarazione prodotta in sostituzione delle normali certificazioni è la comprovazione (così la lettera dell’art. 46)[9] di stati, qualità e fatti, dei quali fornisce un’analitica elencazione. Oltre al dubbio, di carattere ermeneutico, di poter sussumere le opinioni lato sensu politiche sotto la definizione di “stati e qualità”, per interpretazione pacifica la norma stabilisce un numerusclausus, di talché, non essendovi inclusa l’adesione a valori o opinioni che richiamino l’appartenenza del dichiarante ad una ideologia politica, siffatta circostanza non può formare oggetto di dichiarazione sostitutiva.
Si deve perciò escludere che la dichiarazione richiesta dall’Amministrazione possa essere ricondotta alla tipologia delineata dal Legislatore, con tutte le implicazioni disciplinari che ne derivano. Trattandosi di una semplice dichiarazione di impegno, essa sfugge, così, all’applicazione dell’art. 48 del D.p.r. citato che sancisce, per il privato richiedente, la facoltatività di utilizzare i moduli predisposti dall’amministrazione e, conseguentemente, la possibilità di avvalersi di un format diverso da quello standardizzato. A proposito della sua conformità al modulo predisposto dall’Amministrazione, occorre, infine, precisare che la giurisprudenza amministrativa ha sposato l’indirizzo secondo il quale la P.A. può lecitamente pretendere che l’istante presenti una richiesta avente il contenuto previsto per il rilascio del provvedimento positivo[10], nonostante alcuna norma autorizzi l’amministrazione a pretendere l’utilizzo della modulistica a pena di inammissibilità della pretesa ostensiva.
3. La normativa di riferimento, il bilanciamento tra valori dell’antifascismo e libertà di manifestazione del pensiero, la rilevanza della condotta omissiva.
Posta in tali termini, la quaestio iuris concerne il delicato bilanciamento tra valori e principi che informano di sé lo Stato costituzionale. La motivazione della pronuncia si incentra, in effetti, sull’estensione di un diritto di libertà, la libera manifestazione del pensiero (nella forma dell’espressione del proprio credo politico), con riguardo al rispetto di alcuni capisaldi che – mutuando da un passo della sentenza – sono sottesi implicitamente all’affermazione del carattere democratico della Repubblica italiana, ovverosia i valori dell’antifascismo e il ripudio dell’ideologia fascista[11].
Premessa maggiore dell’iter argomentativo seguito dal Giudice amministrativo è la regola aurea propria di ogni ordinamento costituzionale: la limitatezza dei diritti, anche di quelli fondamentali, laddove vengano in gioco interessi (rectius: principi, positivizzati) di eguale rango.
Vi è da rimarcare, sin da subito, l’incontrovertibilità storico-giuridica di siffatto assunto: anche al livello fondativo del sistema delle fonti – se non soprattutto – non sono date situazioni giuridiche soggettive assolute e incondizionate, sicché il bilanciamento assurge ad attività fondamentale per la tenuta dello Stato di diritto costituzionale.
Si può anzi sostenere che l’evoluzione di quest’ultimo sia frutto di una continua dialettica tra valori, principi e diritti fondamentali, del cui svolgimento si fanno carico anche i giudici “comuni”, i quali, facendo applicazione del principio di ragionevolezza, sono chiamati ad un’attività “diffusa” di composizione di quei valori, principi e diritti, laddove si trovino in conflitto nei giudizi a quibus. Grazie a questa operazione ermeneutica l’ordinamento ottiene il risultato di comporre il contrasto tra interessi-principi e, al contempo, di determinare una progressiva evoluzione del diritto rispetto ai mutati assetti della società, fino a creare “nuovi diritti” (si pensi al diritto fondamentale all’abitazione[12]).
Ciò detto, a non convincere è il quomodo del bilanciamento effettuato dal Giudice amministrativo che, dopo una sintetica ricognizione delle fonti regolative della materia, giunge alla conclusione dell’ingiustificato sacrificio dei valori dell’antifascismo in nome della libera manifestazione del pensiero, pronunciando il legittimo diniego della concessione di spazi pubblici per propaganda politica. Sia l’interpretazione del dato positivo che la ponderazione degli interessi in gioco presentano alcuni nodi problematici da sciogliere.
Partendo dal punto focale della struttura motivazionale, il Tar sottolinea che “Dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente, significa vanificare il senso stesso dell’adesione, […] privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica”[13]. In altri termini, per il Giudice amministrativo è vuota la dichiarazione di aderire alla Costituzione, ma non ai valori dell’antifascismo. Su tale punto occorre chiarire.
Come detto pocanzi, spetta alle amministrazioni comunali la valutazione circa la meritevolezza dell’interesse privato sotteso all’uso esclusivo di suolo pubblico, alla luce di un ragionevole bilanciamento con l’interesse pubblico al rispetto delle leggi e dei regolamenti dell’ordinamento giuridico.
L’interesse privato in questione è rappresentato dalla libera manifestazione del pensiero, che trova fondamento costituzionale nell’art. 21 Cost («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»). Tale disposizione segna, in modo inequivocabile, un diritto pieno di libertà, che la stessa giurisprudenza costituzionale considera da sempre la vera “pietra angolare del sistema democratico”, non comprimibile se non per legge accompagnata da idonea copertura in precetti e principi costituzionali[14].
Un primo limite all’estensione della libertà di manifestazione del pensiero e, a monte, alla libertà di riunione e di associazione degli individui a fini politici, è contenuto nella XII Disposizione transitoria finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista[15]. Per la verità – anticipando un punto che sarà approfondito in seguito – quello citato è l’unico limite di natura ideologica per quanto concerne la costituzione di un movimento politico; esso rappresenta, pertanto, un’eccezione al principio pluralistico, che postula la più completa rappresentazione politica della società[16].
La disposizione in esame, oltre a mostrare la volontà del Costituente di introdurre un elemento (anche simbolico) di discontinuità con il regime totalitario fascista, ha antecedenti sia nella legislazione che precede il processo costituente[17] sia, a livello internazionale, nel Trattato di Pace di Parigi (10 febbraio 1947), nel quale l’Italia si impegnava a “non permettere, in territorio italiano, la rinascita di organizzazioni fasciste, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici” (art. 17).
Il divieto previsto dalla Costituzione trova attuazione, e specificazione, nella legge Scelba (Legge n. 645 del 20 giugno 1952) che individua, come indice rivelatore della volontà di ricostituzione del partito fascista, il perseguire finalità antidemocratiche proprie del fascismo, attraverso, tra l’altro, la minaccia o l’uso della violenza quale metodo di lotta politica, il propugnare la soppressione delle libertà costituzionali o il compiere manifestazioni esteriori di carattere fascista[18]. La giurisprudenza costituzionale, quando si è ritrovata ad esaminare la norma, ha posto l’accento sulla necessaria sussistenza di una “pericolosità concreta”[19], requisito ripreso dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale ha specificato, a più riprese, che i comportamenti interdetti dalla Legge 645/52 devono essere idonei a creare un effettivo pericolo di una possibile ricostituzione di un partito avente gli stessi scopi e metodi del fascismo[20].Tale indirizzo ha finito per restringere gli ambiti di applicazione della Legge Scelba, tanto da indurre la dottrina a presupporre una sostanziale desuetudine della XII Disposizioni transitorie finali.[21].
Queste premesse teoriche, calate nel caso de quo, inducono ad alcune osservazioni.
Dai fatti sottesi alla sentenza emerge, anzitutto, che nella dichiarazione allegata all’istanza la ricorrente ha espressamente specificato di non voler perseguire la finalità di ricostituire il disciolto Partito Fascista e “di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio… di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico»”. Un secondo elemento di rilievo è l’assenza di manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le leggi ordinamentali o di azioni che denotino quell’effettivo pericolo configurato dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità.
Secondo l’impianto motivazionale della pronuncia, a rilevare è l’omissione della dichiarazione di aderire ai valori della resistenza e dell’antifascismo, elemento ritenuto sufficiente per sacrificare l’occupazione di spazi pubblici ai fini di propaganda politica. Nel bilanciamento operato dal Giudice amministrativo non ha trovato spazio, invece, un argomento di carattere sistemico, deducibile dal combinato disposto degli artt. 18, 21 e 49 Cost.
L’art. 18 riconosce, come noto, la libertà di associazione che, a lungo osteggiata dalle dottrine sviluppatesi con la Rivoluzione francese, ha incontrato in Italia uno storico disfavore, non venendo garantita dallo Statuto albertino: disfavore che si è trasformato, nel periodo fascista, in repressione[22]. Con l’avvento dello Stato Costituzionale essa è stata positivizzata al massimo grado dell’ordinamento, contrappesata dal divieto di un suo esercizio per il perseguimento di fini vietati ai singoli dalla legge penale; un limite (esplicito) dal quale scaturisce la garanzia (implicita) che non possano esistere per le associazioni restrizioni di scopo non previste anche per l’individuo. Come rilevato in dottrina[23], una delle implicazioni maggiori di tale precetto consiste in ciò, che l’ordinamento riconosce, e tutela, persino quelle associazioni che si pongano in contrasto con i valori costituzionali. Siffatto argomento è rafforzato da una lettura combinata dell’art. 18 con il successivo art. 21 Cost., che consente di manifestare qualsiasi opinione, finanche quella di chi è apertamente contrario ai valori fondativi della Repubblica.
Diversa la soluzione adottata in altre esperienze costituzionali, che pongono limiti al diritto di associazione per le formazioni politiche dichiaratamente ostili al potere costituito. Si pensi al caso più emblematico, la Costituzione tedesca, che vieta le associazioni dirette contro l’ordinamento costituzionale o contro il principio della comprensione tra popoli[24].
Il dato comparato finisce, così, per avvalorare l’assunto in base al quale la nostra Costituzione, nel rispetto dei limiti anzidetti, ammette nella koinè politica anche le forze anti-sistema, le quali concorrono, al pari delle altre, alla vita istituzionale.
Infine, seguendo il fil rouge delle disposizioni citate, gli artt. 18 e 21 Cost. non possono che essere letti in combinato con l’art. 49 Cost., il quale attribuisce a tutti i cittadini il diritto (individuale) di associarsi in partiti, diritto finalizzato alla determinazione della politica nazionale. Il legame con l’art. 18 Cost., in particolare, coinvolge non solo l’affermazione di una libertà associativa svincolata da limiti di natura ideologica (1° comma), ma, altresì, i precetti della trasparenza e del libero dibattito politico (2° comma)[25].
Di qui, si possono trarre tre considerazioni. In primo luogo, come in parte già accennato, al Legislatore è posto divieto di introdurre ulteriori limiti rispetto a quelli esplicitati nell’art. 18[26]; in secondo luogo, dal dettato costituzionale emerge il riconoscimento dell’accezione negativa della libertà di associazione, vale a dire il diritto di non associarsi; infine, vi è la conferma del rifiuto di una “democrazia protetta”, anche in virtù della reciproca legittimazione tra i padri Costituenti, nel quadro di una “società politica non omogenea”[27].
Con l’importante eccezione della citata XII disposizione transitoria, la Costituzione non pone, pertanto, né alle associazioni politiche né agli individui che vi aderiscono, limiti ideologici-programmatici, ma solo limiti concernenti la legge penale e le modalità di organizzazione[28]; nemmeno richiede, in definitiva, l’adesione ai valori democratici, tra cui senza alcun dubbio rientrano l’antifascismo e la Lotta di Resistenza. Semmai, come è stato evidenziato[29], la Costituzione esige “lealtà di comportamento” nella vita pubblica, anche per la ragione storico-politica, sottesa allo spirito dell’art. 49 Cost., di un progressivo inserimento nel gioco democratico proprio delle forze politiche c.d. anti-sistema.
Un ultimo aspetto su cui porre luce attiene all’impossibilità, per qualunque potere pubblico, di etero-determinare le convinzioni appartenenti al c.d. foro interno, che, ontologicamente, sono imperscrutabili ab externo, oltre ad essere sottoposte a possibili riserve mentali. Sotto questo profilo, limitare un diritto di rango costituzionale, quale la libertà di manifestazione del proprio credo politico, in nome di un atto dichiarativo che, in ultima istanza, potrebbe essere frutto di una presa di posizione di “facciata
2’ – alla stregua di una mera dichiarazione di intenti – pone alcune perplessità in ordine al rispetto del canone di ragionevolezza. Per di più, nell’ambito della libera manifestazione del pensiero, il “foro interno” trova una protezione costituzionale proprio nell’art. 21 Cost. (come forma negativa della libertà di espressione), che, secondo un indirizzo dottrinario[30], tutela il diritto al silenzio, ovverosia il diritto a non esprimere il proprio pensiero in ordine a certi fatti o circostanze. D’altro canto, una tale lettura è espressione di quella libertà di “non fare” insita nel riconoscimento di ogni libertà.
4. Conclusioni.
Alla luce di quanto detto, la pronuncia in esame, sul punto dell’omessa dichiarazione, non prende in considerazione l’argomento sistemico (artt. 18, 21, 49 Cost.), concentrandosi unicamente sull’argomento storico-politico del valore fondativo dei valori dell’antifascismo e del ripudio di ogni forma di ideologia autoritaria. La ricostruzione del tessuto normativo, le argomentazioni utilizzate e la conclusione (per certi versi apodittica) inferita dalla premessa che antifascismo e ripudio della ideologia fascista siano limiti invalicabili all’attività di propaganda politica, sembrano imperniarsi sulla necessità di proteggere l’ordinamento da coloro che a quei valori – certamente fondativi della nostra storia costituzionale – non “dichiarano” di aderire.
In ultima analisi, tale approccio rivela una lettura “funzionalizzata” del diritto di manifestazione del pensiero, secondo una teorizzazione che ha attecchito nel corso del Novecento in diverse, e importanti, esperienze politico-istituzionale. Oltre al già menzionato art. 18 della Costituzione federale tedesca, basti citare l’ordinamento statunitense, nel quale la formula ha trovato cittadinanza nella giurisprudenza della Corte Suprema, sviluppandosi sulla concezione tutta liberale della democrazia come una sorta di market of ideas (da qui la stretta connessione tra il fine, la democrazia, e la libertà di espressione, il mezzo). Tracce di questa concezione si ritrovano, a livello normativo, nella comminatoria di sanzioni per tutte le espressioni considerate pericolose per la democrazia: ne costituiscono esempio la perdita del mandato parlamentaree il c.d. Berufsverbot, il licenziamento dall’insegnamento pubblico.
Preme sottolineare che l’idea di una “democrazia difensiva” o “combattente”[31] è del tutto legittima, soprattutto in momenti traumatici come il passaggio da un regime totalitario ad una forma di Stato informata ai principi della democrazia pluralista o incontesti geopolitici fortemente conflittuali e polarizzati (si pensi alla Guerra Fredda); e, come visto, ha attecchito in esperienze costituzionali che vengono menzionate come modelli di democrazia matura e avanzata. Ciò di cui si dubita è che una simile teoria trovi tracce nell’ordinamento italiano, nel quale – come si è cercato di mostrare – la libertà di manifestazione di pensiero, anche di quello apertamente contrario ai valori fondativi dell’esperienza repubblicana, è sancita come fondamentale diritto individuale, limitato solo nel senso in cui si è detto pocanzi (limiti espliciti posti dal dettato costituzionale).
Al di là delle criticità evidenziate, alla pronuncia va riconosciuto l’indubbio merito di aver rimarcato il ruolo dello Stato-amministrazione (inteso come l’insieme degli apparati pubblici che concorrono all’esercizio della funzione amministrativa), nell’ambito del circuito applicativo dei valori costituzionali. Non si può, difatti, trascendere da una tendenza sempre più crescente nel nostro ordinamento, che vede l’esasperarsi della funzione legislativa nella realizzazione dei principi costituzionali, laddove, a ben vedere, i primi soggetti che quei valori incontrano, nella quotidianità del loro operato, sono proprio gli enti titolari del potere esecutivo (e tra essi, in primis, le amministrazioni locali). La quantità di competenze, funzioni, servizi loro demandati, così come la presenza capillare sul territorio, li configurano come i soggetti privilegiati dell’attuazione e, in definitiva, dell’effettività del progetto socio-politico delineato dal Costituente.
[1] Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale.
[2] Il testo della pronuncia è consultabile alla pagina https://www.eius.it/giurisprudenza/2019/233
[3] E’ da sottolineare l’alto valore simbolico del sito oggetto della richiesta, via Fratelli Piol, intestata a martiri della Resistenza e dell’antifascismo.
[4] “La sottoscritta (…) dichiara di riconoscersi nei valori della Costituzione, di non voler ricostituire il disciolto Partito Fascista, di non voler effettuare propaganda razzista o comunque incitante all’odio”, nonché “di impegnarsi a rispettare tutte le leggi ed i regolamenti del nostro ordinamento giuridico“.
[5] Si riportano i passaggi significativi, per la parte di interesse: “”Il sottoscritto (…) dichiara (…): di ripudiare il fascismo e il nazismo; di aderire ai valori dell’antifascismo posti alla base della Costituzione repubblicana, ovvero i valori di libertà, di democrazia, di eguaglianza, di pace, di giustizia sociale e di rispetto di ogni diritto umano, affermatisi nel nostro Paese dopo una ventennale opposizione democratica alla dittatura fascista e dopo i 20 mesi della Lotta di Liberazione dal nazifascismo; (…)“.
[6] Si veda T.A.R. Lazio-Roma, Sez. II ,, 25 luglio 2017, n. 8934.
[7] Con deliberazione del 30 novembre 2017, n. 125, il consiglio comunale impegnava l’amministrazione “a non concedere spazi o suolo pubblici a coloro i quali non garantiscano di rispettare i valori sanciti dalla Costituzione, professando e/o praticando comportamenti fascisti, razzisti e omofobi“, dando mandato di adeguare i regolamenti comunali a quanto espresso nell’atto di indirizzo, in particolare “subordinando la concessione di suolo pubblico, spazi e sale di proprietà del Comune, a dichiarazione esplicita di rispetto dei valori antifascisti sanciti dall’ordinamento repubblicano“. Con successiva deliberazione del 15 maggio 2018, n. 164, la giunta comunale dava mandato ai competenti uffici comunali di richiedere, a fronte di istanze di concessione del suolo pubblico o di utilizzo di spazi e sale di proprietà comunale, la presentazione da parte dei richiedenti di una dichiarazione espressa, redatta ai sensi e per gli effetti degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 445/2000. Gli atti citati si possono consultare sul sito del Comune di Rivoli, http://www.comune.rivoli.to.it/
[8] V. nota precedente.
[9] Nel senso di costituire piena prova, rispetto alla loro efficacia, degli stati, qualità e fatti loro oggetto, sicché le amministrazioni procedenti non debbono né chiedere i certificati corrispondenti ai cittadini né acquisirli in fase di controllo, essendo sufficiente ottenere dall’amministrazione certificante la conferma della veridicità delle dichiarazioni ricevute.
[10] T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 30 ottobre 2018, n. 10480 e Cons. Stato, sez. V, 17 giugno 2014, n. 3093. Si veda anche T.A.R. Toscana, sez. III, 29 giugno 2015, n. 996, che ha il merito di aver precisato che il modulo predisposto dall’amministrazione ricevente assolve la funzione di ausilio ai privati, non come condizione di ammissibilità o procedibilità della procedura. Cons. Stato, Sez. V, 5 luglio 2011, n. 4029 ha, anzi, stabilito che non può essere disposta la esclusione di un documento non previsto dalla modulistica predisposta dall’amministrazione proprio perché il privato ne fa uso in modo incolpevole.
[11] 1.1. del motivato in Diritto, sentenza consultata in https://www.eius.it/giurisprudenza
[12] Storiche le pronunce della Corte Cost. 15 luglio 1983, n. 252, e, soprattutto, 17 febbraio 1987, n. 49, consultate in https://www.cortecostituzionale.it, che qualificandolo come interesse preminente di rilevanza costituzionale, impegna tutti i pubblici poteri alla sua tutela attraverso un’adeguata politica economica e finanziaria. Lo stesso diritto alla vita o la libertà di coscienza, pur non avendo un loro specifico ancoraggio costituzionale, sono stati affermati, attraverso l’utilizzo di questa tecnica, dalla Consulta.
[13] 1.6. del motivato in Diritto.
[14] Si veda quanto statuito da Corte Cost., 19 febbraio 1965, n. 9, consultata in https://www.cortecostituzionale.it.
[15] Questa disposizione rappresenta “la testimonianza della matrice ideale comune dei gruppi presenti in Costituente e il manifesto dell’antifascismo”, letteralmente Barile, Libertà di manifestazione del pensiero, Encicl. Dir., pag. 470.
[16] Per una disamina della XII Disp. trans. fin. si invita alla lettura di Pizzorusso, Sub. XII disp. trans. fin., in Comm. Branca, pagg. 197 ss.
[17] In particolare, ci si riferisce al D.d.l. 195/1945, che puniva chi ricostituiva il partito fascista impedendo o ostacolando con atti di violenza o di minaccia l’esercizio dei diritti civili o politici dei cittadini.
[18] L’art. 1 della Legge, rubricato “Riorganizzazione del disciolto partito fascista” recita: “Ai fini della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione, si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista”. L’art 5 della stessa legge punisce, altresì, le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quando siano compiute nel corso di eventi pubblici.
Per un approfondimento si rinvia a Ramajoli, Il delitto di ricostituzione del disciolto partito fascista, in Giust. Pen., 1980, pag. 522 e, per un ambito di analisi più allargato, Petta, Le associazioni anticostituzionali nell’ordinamento italiano, in Giur. cost., 1973, pag. 716.
[19] Si veda, tra tutte, una prima pronuncia sul tema, Corte Cost. 16 gennaio 1957, n. 1, consultata in https://www.giurcost.org/decisioni, che, in relazione all’apologia di fascismo, reato sanzionato dall’art. 4 della legge Scelba, inserisce la pericolosità concreta, intesa come idoneità effettiva, ritenendo, nel caso di specie, che l’apologia, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista.
[20] Tra le altre, Cass. Pen., Sez.I, 16 marzo 1978, Cass. Pen., Sez. II, 20 aprile 1979, Cass. Pen., Sez., II 5 marzo 1982.
[21] Si fa riferimento, in particolare, a Biondi, E’ ancora attuale la norma che punisce le associazioni finalizzate alla riorganizzazione del disciolto partito fascista?, in Giur. merito, 2006, pagg. 2483 e ss.
[22] Basti ricordare, ad esempio, lo scioglimento dei partiti politici e il divieto di costituire sindacati.
[23] Si veda, a tal proposito, Barbera – Fusaro, Corso di diritto pubblico, Il Mulino, 2018, pag. 174.
[24] Il testo completo dell’art. 18 Cost. federale tedesca, emendato dalla Legge per la modifica della Legge fondamentale del 28 giugno 1993, recita: “Chiunque, per combattere l’ordinamento costituzionale libero e democratico, abusa della libertà di espressione del pensiero, in particolare della libertà di stampa (articolo 5 comma1), della libertà di insegnamento (articolo 5 comma3), della libertà di riunione (articolo 8), della libertà di associazione (articolo 9), del segreto epistolare, postale e delle telecomunicazioni (articolo 10), del diritto di proprietà (articolo 14) o del diritto di asilo (articolo 16a) perde tali diritti fondamentali. Tale perdita e la sua estensione sono pronunciate dalla Corte costituzionale federale”.
[25] Si legga Ridola, Democrazia pluralistica e libertà associative, Giuffré Editore, 1987, pag. 252.
[26] Come sottolineato da Rizzoni, Sub. art. 49, in Comm. Utet, 2006, pag. 984, al quale si rinvia per un approfondimento sul tema.
[27] Così Brunelli, Struttura e limiti del diritto di associazione politica, Giuffré Editore, 1991, pag. 180. Per una migliore conoscenza dei modelli europei di democrazia protetta si suggerisce la lettura di Ceccanti, Le democrazie protette e semi-protette da eccezione a regola: prima e dopo le Twin Towers, Giappichelli, 2004.
[28] Art. 18, c. 2 Cost.: “Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazione di carattere militare”.
[29] L’espressione è utilizzata in Bartole – Bin, Sub. art. 49, in Comm. breve alla Costituzione, CEDAM, 2008, p. 496.
[30] Barbera – Fusaro, op. cit, pag. 162.
[31] Espressione mutuata da Bin – Pitruzzella, Diritto costituzionale, 17° edizione, 2016, Giappichelli, pag. 528.