Torino e il Piemonte in età tardoantica
Sergio Roda1
Dopo un periodo di discreta prosperità economica e sociale, che coincise per Torino e per il Piemonte settentrionale con la prima età augustea e la prima fase dell’alto Impero mentre per il Piemonte meridionale il trend positivo era iniziato già sullo scorcio del II secolo a.C., l’area subalpina occidentale romana conobbe una fase involutiva soprattutto per il venir meno delle favorevoli contingenze geopolitiche che ne avevano propiziato il decollo.
In posizione cruciale per il controllo della vie delle Gallie e delle direttrici verso il centro Europa e il limes renano, Torino e il Piemonte non perdettero mai del tutto, dalla fine della repubblica al tardo antico, un ruolo funzionale di appoggio ai traffici commerciali e, a seconda dei periodi, ai movimenti di truppe che attraversavano nei due sensi i colli alpini. Tale funzione divenne però assai meno significativa a partire dal momento in cui l’espansione romana verso il centro dell’Europa si arrestò, tornando ad essere veramente strategica soltanto a partire dalla seconda metà del III secolo d. C., in piena anarchia militare, allorché si fecero via via più frequenti i transiti di truppe imperiali, dirette ora contro usurpatori militari ora a contrastare le scorrerie di gruppi barbarici di qua dal confine settentrionale. Non è un caso che in questo periodo Augusta Taurinorum venga nuovamente essere menzionata nelle fonti letterarie, dopo un lungo periodo di silenzio effetto, più che della marginalità della funzione storica svolta dalla colonia taurinense e dall’intera area subalpina, dell’assenza di un ruolo politico-culturale definito e preciso di Torino e della zona pedemontana occidentale nella più larga coscienza dei contempoanei, e in particolare dell’élite sociale e intellettuale, di prevalente estrazione senatoria ed esclusiva interprete della storiografia romano-imperiale.
La «storia senza storia» di un insediamento urbano e di una comunità regionale nell’insieme abbastanza modesti, in un angolo d’Italia per molti secoli protetto e pacifico, economicamente accessori per quanto si riferisce alla grande produzione agricola, estranei sia rispetto ai grandi flussi della storia evenemenziale politico-militare sia rispetto ai fenomeni di più significativa rielaborazione culturale e ideologica che promanavano dall’Urbe, trovarono dunque in età tarda nuova giustificazione alla propria esistenza dalla loro collocazione in un nodo fondamentale di transito sul quale nuovamente agivano da struttura attrezzata di supporto. In particolare importante fu l’attività di servizio che la zona pedemontana dovette esercitare durante il breve periodo di vita (259-274 d.C.) dell’Impero secessionista delle Gallie. Furono quelli gli anni in cui la crisi politica, economica, sociale ed istituzionale dell’Impero raggiunse il suo apice: incapace ormai di reggersi, lo stato romano e gli imperatori regnanti, Valeriano (che di lì a poco sarebbe stato ingloriosamente sconfitto dai Persiani e ucciso) e il figlio di lui Gallieno, subirono una duplice secessione, a Oriente con l’Impero separatista formatosi attorno alla ricchissima città carovaniera siriaca di Palmira (che comprendeva le province orientali e l’Egitto), e a Occidente con il cosiddetto Impero delle Gallie (che oltre al territorio transalpino comprendeva Britannia e Spagna). Gallieno di fatto accettò (e probabilmente anche gradì) la tripartizione che alleviava il peso politico, sociale ed economico del suo governo centrale: pur nella condanna dei secessionisti egli mantenne quindi costanti – seppur coperte – relazioni con i secessionisti e in particolare con il più vicino Impero delle Gallie: di qui l’importanza del ruolo della regione subalpina occidentale divenuta di fatto area di frontiera fra due distinte entità imperiali. La secessione gallica durò una quindicina d’anni fino a quando l’azione riconquistatrice dell’imperatore Aureliano non vi pose fine, sospendendo così una breve e particolarmente felice stagione per l’economia subalpina.
Il progressivo, profondo modificarsi del quadro istituzionale, politico, socio-economico, culturale e strutturale dell’Impero nel corso del III e gli inizi del IV secolo, pose in ogni caso l’area padana al centro di un rinnovato interesse politico-strategico che sarebbe durato per tutto il tardo Impero e che ebbe ovviamente nella consacrazione di Milano come capitale imperiale insieme sanzione e ulteriore impulso di ruolo. In asse con tali processi anche Augusta Taurinorum e il Piemonte sembrano aver conosciuto un’epoca se non – come è stato detto – di «decollo strutturale e politico» quanto meno di discreta fortuna che, pur senza ripetere la contingenza favorevole degli anni dell’Imperium Galliarum, prosegui nella sostanza fino alla conquista longobarda e alla collocazione nella città sul Po da parte dei nuovi invasori germanici di una sede ducale.
La riacquisita importanza della funzione “cerniera” tra Italia settentrionale e territori transalpini lungo la direttrice longitudinale padana da Susa ad Aquileia, nonché la vivacità della comunità cristiana raccolta tra l’ultimo scorcio del IV secolo e i primi due decenni del V attorno alla figura del vescovo di Torino, Massimo, ridiedero fiato a una realtà locale subalpina che pur recuperava ulteriore identità e peso sociopolitico. La diffusione del cristianesimo nell’area dell’attuale Piemonte settentrionale avvenne a partire dagli anni quaranta del IV secolo ed ebbe come primo centro propulsore Vercelli, sotto la guida del vescovo Eusebio. Negli anni compresi tra la morte di Eusebio (371) e quella di Ambrogio di Milano (397), anche Torino si costituì in diocesi autonoma appunto con il suo primo vescovo Massimo. Con l’episcopato di Massimo si avviò un profondo processo di trasformazione non solo civile e religiosa, ma per quanto riguarda Torino anche uranistica, a partire dalla costruzione delle chiese (in particolare il gruppo episcopale della diocesi – tra l’attuale duomo e il teatro romano – costituito da tre chiese rispettivamente dedicate a Cristo Salvatore, a San Giovanni e a Maria) nonché della sede vescovile, che segneranno lo sviluppo della città nei secoli a venire. Pur subendo la forte influenza della diocesi ambrosiana e della fortissima personalità del suo vescovo, vero kingmaker e uomo-forte dell’Impero nella seconda metà del IV secolo, l’episcopato di Massimo fu segnato dalla sua forte personalità e dalla sua vigorosa e intransigente azione pastorale. Di notevole importanza fu la sinodo vescovile, voluta e predisposta da Ambrogio e poi presieduta dal suo successore Simpliciano, che si tenne a Torino nel 398 d.C. Principale scopo della sinodo fu quello di ricomporre i numerosi conflitti sorti fra i vescovi e le diocesi delle Gallie. Le deliberazioni di quel consesso, di là dalle questioni specifiche trattate e solo in minima parte risolte, confermano la testimonianza di Massimo sulla dimensione non consolidata, disomogenea e difficilmente governabile del cristianesimo pedemontano tra fine IV e inizio V secolo in una realtà in cui, specie nelle campagne, persistevano larghe aree conservative di paganesimo diffuso, e che appariva ulteriormente complicata dall’instabilità politica e da una notevole conflittualità sociale.
Se quindi la posizione strategica di Torino e del Piemonte tra IV e V secolo ebbe certo effetti in senso politico-economico positivi, ciò avvenne comunque in un clima di ansia e di emergenza originato al continuo e pericoloso passaggio di truppe regolari o irregolari (difficile in quel contesto certificare tale distinzione) impegnate nelle complesse dinamiche militari e di potere che caratterizzarono quel periodo e che videro nella pianura padana uno dei teatri di guerra più intensamente frequentati. Significativi in questo senso i Sermoni di Massimo di Torino in cui il vescovo rimprovera i ricchi proprietari terrieri di abbandonare le proprie città e di rifugiarsi nelle loro ville di campagna invece di provvedere alla difesa dei centri urbani dalle scorrerie barbariche e dalle durissime corvèes imposte anche dagli eserciti imperiali in continuo transito; oppure condanna il ricorso idolatrico a collocare fuori dalle porte urbane, per preservarsi dalle minacce barbariche, statue imperiali nel cui valore apotropaico molti cristiani continuavano comunque superstiziosamente a confidare.
Nell’ambiguo contesto dell’Italia settentrionale tardoantica, alle reiterate presenze militari e barbariche che causavano timori diffusi (i quali si tradussero ad esempio nella tesaurizzazione e nell’occultamento di una notevolissima quantità di ricchi tesoretti monetali, a riprova tra l’altro del perpetuarsi di un’apprezzabile condizione economica), si contrapponeva il fenomeno di stanziamenti ‘legali’ di comunità germaniche o slave accolte nell’Impero come foederati (cioè ‘alleati’ garantiti da un foedus, un patto con le istituzioni imperiali) e a cui venivano assegnate terre pubbliche. A partire dall’epoca di Costantino il Grande, nei primi decenni del IV secolo, anche il Piemonte fu interessato da una pluralità di tali stanziamenti soprattutto di tribù sarmatiche (e quindi di etnia slava) e germaniche: a costoro, suddivisi con le proprie famiglie su tutto il territorio pedemontano, era assicurato il possesso (non la proprietà) inalienabile, ereditario e immune da tributi di una certa estensione di terra in cambio di un servizio di vigilanza militare. Organizzati in distretti militari con il nome di praepositurae, o praetenturae, o praefecturae,tali insediamenti assicuravano un controllo territoriale che gli eserciti regolari non erano più in grado di sostenere. Essi si trovavano così nella paradossale situazione di contrapporsi, come espressione del governo imperiale, ad avversari ‘invasori’ sovente del medesimo gruppo etnico. Sia attraverso fonti come la Notitia Dignitatum (un documento di capitale importanza per la storia del tardo Impero, redatto tra fine IV e inizio V secolo e che illustra in due sezioni, per l’Impero Romano d’Oriente e per quello d’Occidente, i titoli e le competenze dei singoli funzionari e i nomi e le dislocazioni dei vari corpi militari su tutto il territorio imperiale), sia più semplicemente attraverso la toponomastica, abbiamo notizia sicura o assai verosimile di presenze stabili di questo tipo per tutta l’epoca tarda, sempre in luoghi strategicamente significativi e sensibili, a Torino, nel sito della cosiddetta Mansio Quadrata (presso l’odierno comune di Verolengo sulla strada romana da Pavia a Torino), a Valenza, a Vercelli, a Novara, ad Ivrea, a Soave Canavese, a Pollenzo, a Bene Vagienna, nell’area alla confluenza fra Stura e Tanaro, e ad Acqui. Da sottolineare anche il fatto, riferito da San Girolamo nel 374 d. C., che il territorio di Vercelli non ospitò soltanto una colonia di Sarmati, ma fu un nodo importante per l’acquartieramento più o meno transitorio di truppe orientali, di corpi di cavalleria armena e di milizie di origine illirica o gotica inquadrate nell’esercito imperiale comitatense, che seguiva cioè il comitatus, la corte imperiale, nei suoi spostamenti all’interno dell’Impero. Queste numerose e folte presenze insediative, in larga misura consolidate, testimonianodella funzione squisitamente logistico-militare del territorio piemontese negli ultimi secoli dell’Impero Occidentale: una funzione che lungi dall’intaccarne le solide risorse demografiche e produttive fu anzi probabilmente di ulteriore impulso in tal senso.
Il profilo economico-sociale e politico-militare del Piemonte tardoantico si inquadra in una non semplice trama amministrativa per comprendere la quale occorre risalire almeno alla prima metà del II secolo d. C. Fino ad allora l’Italia aveva goduto dello statuto privilegiato di “periferia” estesa della città di Roma, di cui costituiva l’estensione pomeriale: tutta l’Italia, insomma, fino ai piedi della catena alpina, era compresa nel pomerium, lo spazio sacro e inviolabile dell’Urbe. Tale condizione che esentava l’Italia dagli statuti provinciali e non prevedeva amministrazioni intermedie fra il governo centrale e i governi cittadini, in progresso di tempo aveva mostrato una certa fragilità e si era mostrata inadeguata rispetto alla complessità di un Impero che nella sua massima estensione invocava con sempre maggiore urgenza la costituzione di nuove istanze amministrative intermedie.
Al tempo dell’imperatore Adriano (117-138 d. C.) vennero per la prima volta nominati quattro consulares (cioè ex-consoli), o legati Augusti pro praetore,con funzioni giurisdizionali in Italia. Iniziava in questo modo la provincializzazione del territorio italico proseguita nella seconda metà del II secolo, al tempo di Marco Aurelio, con la nomina di iuridici di rango senatorio con funzioni sia giudiziarie, sia di risoluzione di gravi problemi contingenti (ad esempio carestie o disastri naturali) o di sorveglianza sull’applicazione di leggi e disposizioni imperiali che riguardavano tutta o in parte la penisola. Dall’età di Caracalla in poi, quando la crisi (generata dalle guerre marcomanniche e da una drammatica pandemia che avevano sottratto all’economia dello stato romano almeno il 30% della popolazione attiva) si manifestò anche nella progressiva inidoneità dell’architettura amministrativa dell’Impero e – per quanto riguardava l’Italia – nell’aggravarsi delle difficoltà determinate dall’assenza di governi provinciali. Iniziarono così ad operare nella penisola, peraltro con una sistematicità ancora incerta, correctores i cui compiti, pur non sempre omogenei, differivano poco da quelli dei governatori provinciali. Nel corso del III secolo tale presenza si consolidò: comparvero anzi i correctores totius Italiae i quali, a dispetto del titolo, erano spesso più d’uno e non avevano giurisdizione su tutta la penisola ma su singole zone o regioni. Con una razionalizzazione delle funzioni e delle competenze, l’imperatore Probo, attorno all’anno 279 d. C., istituì due correctores Italiae di rango senatorio con un mandato questa volta preciso e non saltuario e con una definizione di mansioni ora davvero omologhe a quelle dei governatori di provincia. Per quando è dato conoscere, il primo dei due correctores aveva giurisdizione per l’area a nord del Po, l’altro per il resto della penisola a sud del fiume, restando le aree alpine organizzate in distretti militari così come fin dalle prime fasi della riforma augustea.
L’opzione di Probo non ebbe vita lunga. Circa quindici anni dopo, la grande riforma amministrativa di Diocleziano annullò definitivamente il privilegio dell’Italia estensione di Roma e ne completò la provincializzazione. La divisione dell’Italia in province non solo avvenne attraverso un unico e simultaneo intervento di ridefinizione dello spazio amministrativo peninsulare, ma il nuovo insieme fu inquadrato in un’inedita macrostruttura amministrativa, di livello superiore, creata anch’essa con ogni probabilità tra il 293 e il 298 d.C. dallo stesso Diocleziano e con funzioni giurisdizionali e fiscali: le diocesi furono affidate a vice-prefetti del pretorio, detti vicarii. Questi ultimi erano una sorta di supplenti dei prefetti del pretorio, che allora costituivano il vertice dell’amministrazione civile e militare e che operavano al fianco di Diocleziano e di Massimiano Augusti presso le rispettive ‘corti’ (comitatus). I vicarii, decentrati in poche città-chiave dell’amministrazione periferica, estendevano il controllo dei prefetti del pretorio su comparti provinciali altrimenti irraggiungibili dalle residenze imperiali. L’Italia fu inclusa nella Dioecesis Italiciana che contava dodici province (comprese la Sicilia, la Sardegna e la Corsica provincializzate dai tempi della repubblica e fino allora non coinvolte in alcun mutamento amministrativo dell’Italia) più le province di Raetia prima e secunda (con capitali Curia, Chur, e Augusta Vindelicorum, Augusta) e delle Alpes Cottiae (con capitale Segusio, Susa), destinate a difendere la pianura padana nello snodo transalpino tra la regione gallica e quella illirica. L’attuale Piemonte fu ricompreso, oltre che nella citata provincia montana delle Alpi Cozie, nelle province di Liguria (corrispondenti alla Liguria attuale e al Piemonte meridionale) e di Transpadana (corrispondenti al Piemonte settentrionale e a gran parte della Lombardia).
La riforma di Costantino del 324 d. C. spezzò la diocesi Italiciana in due vicariati distinti, quello dell’Italia Annonaria, con capitale Milano, e quello dell’Italia suburbicaria, con capitale Roma. La diocesi annonaria comprendeva dodici province e si estendeva all’Italia settentrionale allargandosi a sud fino alle Marche e a nord ed a est ai territori odierni di Svizzera, Austria, Ungheria, Slovenia, Croazia. L’Italia suburbicaria comprendeva le province dell’Italia centro-meridionale e le isole. Il Piemonte, inserito ovviamente nell’Italia annonaria, restava diviso amministrativamente fra la provincia delle Alpes Cottiae, ancora con capitale Susa e che comprendeva l’estremità sudorientale della Francia, il Piemonte sudoccidentale e la Liguria occidentale, e la nuova grande provincia dell’Aemilia et Liguria con capitale Milano, che occupava larga parte del territorio delle antiche Regiones augustee, XI Transpadana, IX Liguria e VIII Aemilia; il territorio pedemontano, salvo il tratto sud-ovest di cui si è detto inserito nelle Alpes Cottiae, si trovava tutto nella provincia dell’Aemilia et Liguria:In tale contesto le città di Augusta Taurinorum e di Vercellae furono senz’altro fra i centri principali per le ragioni economiche, sociali e strategiche che abbiamo sopra esposto.
La diversa importanza delle province dell’Impero tardoantico si misurava anche in funzione del grado e del prestigio dei governatori, che – in ordine gerarchico dal meno al più importante – si suddividevano in praesides, correctores, consulares e proconsules. Pur esercitando un analogo potere sulle province che amministravano, nel complesso organigramma gerarchico che disciplinava il funzionariato imperiale tardoantico un proconsul (ne esistevano soltanto due, uno per la provincia dell’Africa detta appunto Proconsularis, e uno per la provincia di Achea, cioè la Grecia e la costa dell’Asia Minore),o un consularis contavano politicamente assai più di un praeses o di un corrector. Le Alpes Cottiae, distretto provinciale di modesta importanza, fu governato da praesides di rango equestre (conosciamo per via epigrafica soltanto tre di loro, collocabili fra la fine III e la seconda metà del IV secolo). L’Aemilia et Liguria, provincia al contrario importantissima anche per la presenza della sede della corte imperiale di Milano, venne invece sempre retta da consulares di rango senatorio, il più noto dei quali fu senza dubbio Aurelius Ambrosius, il futuro Sant’Ambrogio, acclamato vescovo di Milano dalla folla proprio mentre svolgeva la sua funzione di governatore (374 d. C.), e che passò così automaticamente dalla funzione apicale civile a quella ecclesiastica senza alcuna preventiva ordinazione sacerdotale. Ragioni di semplificazione amministrativa indussero poi l’imperatore Teodosio, alla fine del IV secolo (tra il 385 e il 391), a scindere la megaprovincia in due: la Liguria, grosso modo corrispondente agli attuali Piemonte e Liguria, e l’Aemilia, all’incirca corrispondente alle odierne Lombardia ed Emilia, mentre la zona di Ravenna venne separata dalla provincia e, a partire dal 402, con l’imperatore Onorio, divenne la residenza imperiale occidentale preferita, per ragioni strategiche e di sicurezza, a Milano. Tale assetto rimase sostanzialmente stabile nel V secolo, salvo una progressiva dilatazione della provincia delle Alpes Cottiae che arrivò a comprendere tutto il Piemonte meridionale, sottratto alla Liguria. Il crescente aggravarsi dell’instabilità politica e del caos istituzionale insieme al moltiplicarsi delle invasioni, occupazioni e controccupazioni da parte di eserciti imperiali e di gruppi etnici barbari resero i riferimenti amministrativi sempre più evanescenti e pleonastici, fino alla caduta ‘senza rumore’ dell’Impero di Occidente nell’anno fatidico 476 d. C. Nella successiva fase di insediamento e costituzione dei regni romano-germanici, il Piemonte si ritrovò quasi interamente inserito nel Regno Ostrogoto, mentre soltanto una parte del territorio alpino e delle valli rientrarono nella pertinenza del Regno Burgundo.
Ma ormai l’assetto amministrativo romano si era pressoché definitivamente disgregato: anche da questo punto di vista l’età romana tardoantica sfumava lentamente ma ineluttabilmente nella nuova realtà altomedievale.
1 Professore ordinario di Storia romana presso l’Università degli Studi di Torino.