Un decentramento confuso, ma necessario. Poteri di ordinanza di Regioni ed enti locali nell’emergenza da COVID-19
Giovanni Boggero[1]
1. Il regime giuridico emergenziale instaurato per reagire alla diffusione della pandemia di COVID-19 offre l’occasione per iniziare a riflettere anche sui “movimenti tellurici” che stanno interessando il rapporto Stato-Regioni. Ad oggi, è difficile dire che cosa resterà della stratificazione normativa di questi giorni e se avrà davvero conseguenze rilevanti per l’evoluzione di un regionalismo già claudicante. Il timore è che, alla luce delle difficoltà riscontrate da alcune Regioni nel far fronte all’emergenza, il processo di differenziazione ex art. 116, co. 3 Cost., anziché avanzare e consentire a esse una diversa e più efficace organizzazione dei servizi sanitari, possa subire non solo l’ennesima battuta di arresto, ma anche una vera e propria involuzione, tale da provocare un rapido smantellamento dei sistemi sanitari regionali[2].
In questa sede, tuttavia, vorrei limitarmi a svolgere alcune brevi considerazioni per sottolineare quanto ai più potrà apparire forse del tutto controintuitivo, ad altri, invece, finanche scontato, ossia che uno spazio adeguato di decentramento decisionale, cui corrisponde l’esercizio di un potere di ordinanza regionale e locale, non è soltanto legittimo de lege lata, ma è persino necessario anche in momenti di emergenza epidemica nazionale e globale. Ad avvertire tale necessità è stato anche il Governo italiano che ha predisposto un articolato dispositivo di produzione normativa, di per sé non esente da critiche, ma in grado quantomeno di salvaguardare il ruolo di Regioni ed enti locali anche in un contesto straordinario. La garanzia costituzionale dell’autonomia, benché imprescindibile al fine di graduare la risposta emergenziale sulla base delle diverse esigenze territoriali, non è, tuttavia, sufficiente, da sola, a evitare l’assunzione di decisioni irrispettose delle libertà individuali.
2. Se già in epoca di “governo dell’ordinario” la Costituzione materiale tendeva per inerzia all’accentramento, in un momento di emergenza la spinta all’accentramento istituzionale – oltreché alla verticalizzazione dei rapporti tra gli organi costituzionali – ha subito una nuova accelerazione, come ha messo in luce molto chiaramente anche Massimo Cavino nelle sue prime osservazioni sul fenomeno in corso[3].
A confermare questa tendenza c’è, in particolare, la scelta di convogliare la risposta emergenziale non soltanto in alcuni D.L., ma più che altro in numerosi DPCM, dotati di base giuridica nel D.L. 23 febbraio 2020 n. 6. L’impianto di tale decreto-legge, non smentito, ma anzi precisato e rafforzato dagli emendamenti intervenuti in sede di conversione e approvazione della legge 5 marzo 2020, n. 13, è funzionale a concentrare un potere solo nominalmente amministrativo, ma in realtà normativo, il più possibile nelle mani del Presidente del Consiglio dei Ministri. L’elemento tradizionale della collegialità è stato ridotto alla deliberazione del Consiglio, ma a essa si è affiancato, oltre a un momento di concertazione con i singoli Ministri interessati, un ulteriore meccanismo di consultazione dei Presidenti delle Giunte regionali e del Presidenza della Conferenza delle Regioni.
Sempre secondo Cavino, allora, proprio «in forza di queste disposizioni [l’art. 3, co. 2 del citato D.L.] si devono considerare illegittime tutte le ordinanze adottate, dopo l’entrata in vigore dei DPCM, da parte di autorità diverse dal Presidente del Consiglio dei ministri e, quindi, tanto le ordinanze regionali, quanto le ordinanze sindacali contingibili e urgenti»[4]. A questo proposito, anche sulla scorta del nuovo D.L. 25 marzo 2020, n. 19, intervenuto medio tempore per riannodare i fili dei rapporti tra livelli di governo, mi sembra si possa, invece, offrire una diversa interpretazione, più fedele alla lettera degli artt. 2 e 3, co. 1 e 2 del D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e anche a quella dell’art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978, che del potere di ordinanza regionale in un contesto di crisi sanitaria costituisce il fondamento normativo primigenio. Il Governo, pur mirando all’accentramento, non è, infatti, in grado di prescindere dagli interventi su base decentrata, in quanto maggiormente idonei a garantire l’adozione di decisioni adeguate a ciascun territorio. Il contesto emergenziale è del tutto nuovo e in costante evoluzione, sicché l’esigenza di sperimentare soluzioni differenziate per evitare la diffusione del contagio, non solo in ambito sanitario, è ben più forte e avvertita che in altri frangenti. Ogni Regione deve essere messa nelle condizioni di sviluppare risposte diverse, che possono poi essere imitate dalle altre e, infine, eventualmente adottate per l’intero territorio nazionale. Questo è, sostanzialmente, l’approccio sotteso al primo D.L. 23 febbraio 2020, n. 6, poi confermato nel più recente D.L. 25 marzo 2020, n. 19.
3. Nel merito del D.L. n. 6/2020, l’art. 2 ha stabilito, innanzitutto, che «le autorità competenti» (declinazione rigorosamente al plurale) «con le modalità previste dall’articolo 3, commi 1 e 2, possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza […] anche al di fuori dei casi previsti dall’art. 1, co. 1», così delineando un ambito di applicazione oggettivo del potere di ordinanza piuttosto ampio e non tassativamente limitato alle ipotesi individuate dall’art. 1, co. 1, ma anzi esteso a un novero imprecisato di casi. Una volta specificato che spettava, innanzitutto, al Presidente del Consiglio dei ministri adottare con uno o più decreti (DPCM) tali misure di contenimento (co. 1), l’art. 3 ha previsto, inoltre, che «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di cui al comma 1, nei casi di estrema necessità ed urgenza le misure di cui agli articoli 1 e 2 possono essere adottate» (co. 2) anche dagli enti locali e dalle Regioni[5].
Ora, in disparte per un attimo il discorso sulle ordinanze sindacali contingibili e urgenti degli enti locali, alquanto delicato si è presentato fin da subito il rapporto tra DPCM e ordinanze regionali. A meno di non voler sostenere che, una volta adottato il primo della lunga serie di DPCM, il “periodo di mora” si fosse definitivamente concluso – il che sarebbe stato piuttosto illogico visto che il primo DPCM è stato adottato esattamente lo stesso giorno dell’adozione del D.L. n. 6/2020 – occorre, invece, prendere atto che, pur scontando una certa difficoltà interpretativa, l’art. 3, co. 2 non si riferisse all’adozione di un singolo DPCM, ma a più DPCM tra loro diversi – la disposizione richiamava, infatti, i DPCM, evocandoli al plurale – e pertanto non vietasse affatto alle Regioni di intervenire medio tempore con propria ordinanza contingibile e urgente, ai sensi dell’art. 32, co. 3 della l. n. 833/1978.
Impregiudicato, dunque, il potere di ordinanza regionale[6], va, tuttavia, osservato che, sulla base del menzionato art. 3, co. 2 D.L. n. 6/2020, le norme contenute nelle ordinanze regionali avrebbero perso efficacia se e nella misura in cui fosse intervenuto un DPCM o, meglio, una norma di un DPCM, atta a disciplinare in maniera contrastante con esse la medesima fattispecie. Di talché, la norma regionale avrebbe dovuto essere inquadrata come “cedevole” rispetto a quella statale. Essa, cioè, avrebbe trovato applicazione, se e fintantoché non fosse stata sostituita dalla corrispondente norma statale. Limitatamente alla sospensione delle attività produttive, ad esempio, il DPCM 22 marzo 2020 ha rappresentato il termine del “periodo di mora”[7]; non si può, invece, sostenere altrettanto per le misure di contenimento ricomprese tra quelle elencate all’art. 1 del D.L. n. 6/2020, in ordine alle quali restava, quindi, intatto il potere di ordinanza regionale.
Meno chiaro era, inoltre, il caso di norme contenute in un’ordinanza che derogassero alla disciplina di un DPCM, magari stabilendo uno standard di tutela maggiore (o inferiore) rispetto a quello di cui alla norma statale. In tal caso, il principio di specialità sembrava poter trovare applicazione ai sensi dell’art. 5, co. 4 del DPCM 8 marzo 2020, il quale faceva esplicitamente salvo un generico potere di ordinanza regionale, ai sensi dell’art. 32, co. 3 l. n. 833/1978[8]. Nondimeno, il DPCM in parola, in quanto fonte di rango secondario, non avrebbe avuto alcun titolo per ampliare i confini dell’esercizio del potere di ordinanza previsti da una norma di rango primario. Per poter argomentare circa la legittimità di un potere di ordinanza regionale in deroga e non soltanto “nelle more”, occorreva pertanto rintracciarne l’autonomo fondamento nell’art. 32, co. 3 l. n. 833/1978. Tale disposizione, attributiva del potere del Presidente della Giunta regionale di adottare ordinanze in materia di igiene e di sanità pubblica, era, però, richiamata dall’art. 3, co. 2 D.L. n. 6/2020 proprio per circoscriverne l’esercizio nelle sole more dell’adozione di DPCM, sicché ogni ulteriore esercizio del potere di ordinanza ex art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978 avrebbe dovuto ritenersi quantomeno inefficace, se non illegittimo. Tuttavia, nella prassi che ha interessato l’applicazione del primo decreto-legge è prevalsa una lettura meno stringente dell’art. 3, co. 2 D.L. n. 6/2020, sicché il potere di ordinanza ai sensi dell’art. 32, co. 3 della l. 833/1978 è stato di fatto esercitato anche in deroga ai DPCM.
Per riassumere: il D.L. n. 6/2020 ha creato un riparto non del tutto intuitivo, ma, anzi, piuttosto idiosincratico, in base al quale le Regioni adottavano proprie ordinanze idonee a disporre misure di contenimento dell’epidemia soltanto in via sussidiaria, ossia fino a quando tali misure non fossero state sostituite da un DPCM; laddove, di contro, una certa fattispecie fosse già stata disciplinata da un DPCM, le norme regionali in deroga sarebbero state inefficaci (secondo una lettura più stringente) ovvero avrebbero potuto derogare a esso inasprendo o mitigando il trattamento di cui alle misure statali (secondo una lettura più elastica).
4. L’art. 3, co. 1 del D.L. 25 marzo 2020, n. 19 ha tentato di sciogliere tale intricatissimo groviglio a favore della prima delle due tesi[9], lasciando intatto esclusivamente un potere di ordinanza regionale «nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri». Esse possono essere emanate «in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso» e possono «introdurre misure ulteriormente restrittive» rispetto a quelle previste dai DPCM adottati sulla base del D.L. n. 6/2020, ma con efficacia limitata soltanto fino all’adozione di nuovi DPCM; queste misure devono, peraltro, essere selezionate da un elenco tassativo «tra quelle di cui all’articolo 1, comma 2». Infine, il legislatore ha precisato che tali ordinanze debbono essere emanate dalle Regioni soltanto «nell’ambito delle attività di loro competenza regionale, senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l’economia nazionale». Altrettanto significativo è, poi, l’art. 3, co. 3 poiché, nell’estendere a tutte le ordinanze già adottate i limiti qui individuati e nel sottolineare, quindi, che aver fatto salvi gli effetti non equivale ad aver sanato i vizi, risolve negativamente la questione se dall’art. 32, co. 3 della l. 833/1978 derivi un autonomo potere di ordinanza regionale il cui esercizio non sia stato circoscritto dal decreto-legge.
In sostanza, alla luce del nuovo intervento normativo del Governo, il principio della “cedevolezza” delle fonti regionali viene confermato: esso può strutturarsi come potere di deroga in peius[10]delle norme dei soli DPCM adottati sulla base del precedente D.L. n. 6/2020. Coerentemente, l’art. 2, co. 3 del D.L. n. 19/2020 ha fatto salvi anche gli effetti prodotti e gli atti adottati sulla base dei decreti e delle ordinanze emanati ai sensi del D.L. n. 6/2020 ovvero ai sensi dell’art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978. L’efficacia delle ordinanze emanate sino al 25 marzo è stata, quindi, prorogata «per ulteriori dieci giorni» dal momento della loro adozione, ossia fino al 3 aprile 2020.
Il tentativo di “sincronizzare” il più possibile le ordinanze regionali adottate fino al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 19/2020 con il nuovo quadro normativo da esso predisposto, pur avendo lo scopo di scongiurare il contenzioso tra Stato e Regioni in un momento nel quale era richiesta forte coesione tra livelli di governo, ha inizialmente consentito l’esercizio di qualche “astuzia” da parte dei Presidenti delle Giunte regionali. In ispecie, vale la pena ricordare che il Presidente della Regione Campania, onde evitare una cessazione anticipata degli effetti delle proprie misure di contenimento, ha provveduto a prorogarne l’efficacia per il tramite di due nuove ordinanze, emanate il 25 marzo 2020[11], ossia il giorno prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 19/2020. Stante l’incertezza in ordine ai tempi di adozione di nuovi DPCM da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri, dal punto di vista del Presidente della Regione Campania sembrava, quindi, preferibile assicurare alle proprie ordinanze un periodo di efficacia certo. Tale periodo, come detto, avrebbe dovuto constare di non più di 10 giorni, ma le ordinanze regionali in parola hanno, in realtà, previsto una cessazione dei loro effetti solo a partire dal 14 aprile 2020. In parte qua, esse sarebbero, quindi, dovute ritenersi illegittime per contrasto con l’art. 2, co. 3, ult. periodo del D.L. n. 19/2020. A questo proposito, se certo non è possibile non criticare la capziosità dell’iniziativa del Presidente della Regione Campania, occorre anche osservare come questa occasione di intervento sia stata offerta dal modus operandi, invero ormai invalso nella prassi, con il quale il Governo ha adottato il decreto-legge de quo, ossia approvandolo il 24 marzo, consentendone l’emanazione da parte del PdR e la relativa pubblicazione il 25 marzo e disponendone l’entrata in vigore solo per il successivo 26 marzo. In questo lasso di tempo piuttosto cospicuo, per i Presidenti di Regione più avveduti è stato, così, possibile intervenire persino…“nelle more” di un decreto-legge.
Con DPCM 1° aprile 2020 il Governo ha, da ultimo, prorogato l’efficacia delle misure introdotte dai DPCM adottati in precedenza, misure che, quindi, continueranno ad applicarsi anche dopo il 4 aprile 2020, giorno a partire dal quale avrebbe, peraltro, dovuto verificarsi la cessazione dell’efficacia delle ordinanze regionali pro tempore adottate. Il condizionale è, tuttavia, d’obbligo, visto che l’efficacia di talune ordinanze regionali è stata prorogata dai Presidenti di Regione fino al 13 aprile 2020, di talché è sembrato potersi ipotizzare che il DPCM 1° aprile 2020 non avesse recato alcuna “condizione risolutiva” dell’esercizio del potere di ordinanza regionale, non trattandosi di DPCM recante nuove misure, ma soltanto di un DPCM di proroga dell’efficacia di precedenti misure di contenimento, adottate sulla base del D.L. n. 6/2020. Così ragionando, l’esercizio del potere di ordinanza sarebbe stato preservato (almeno) fino al 13 aprile 2020. In realtà, come si ricava dall’ordinanza 4 aprile 2020, n. 521 della Regione Lombardia, il fondamento per l’esercizio del potere normativo de quo viene individuato nell’art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978, oltreché nell’art. 117 del d.lgs. 112/1998, come se l’art. 3, co. 1 D.L. n. 19/2020 non avesse derogato a tale potere, circoscrivendone l’efficacia nel tempo.
5. In disparte la questione della conformità al principio della riserva di legge di atti statali e regionali restrittivi di libertà fondamentali[12], preme, in questa sede, ancora domandarsi in che misura le ordinanze regionali, in quanto atti sostanzialmente rientranti nella potestà normativa delle Regioni, abbiano ecceduto la sfera di competenza loro attribuita dalla Costituzione e/o dalla legge. Al riguardo, non è un caso che l’art. 3, co. 1 co. 1 D.L. 25 marzo 2020, n. 19 abbia da ultimo precisato che le ordinanze vadano emanate dalle Regioni nel rispetto delle loro competenze.
A questo proposito, val la pena ricordare che la disposizione attributiva del potere del Presidente della Giunta regionale di adottare ordinanze, ossia il già richiamato art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978, è limitata alle materie dell’igiene e sanità pubblica, le quali, tuttavia, in ragione del contesto emergenziale di cui si tratta, subiscono una dilatazione di natura funzionale, tale per cui deve ritenersi rientrare nel novero di siffatte materie qualsiasi decreto presidenziale che abbia come scopo e sia idoneo al soddisfacimento del diritto alla salute, rectius a contenere la diffusione dell’epidemia. Che sia così, del resto, è chiarito dallo stesso art. 3, co. 1 del D.L. n. 19/2020, ove include, tra le misure che possono essere introdotte dalle Regioni, tutte quelle elencate all’art. 1, comma 2, le quali in tutta evidenza vanno ben oltre l’igiene e la sanità pubblica in senso stretto. Non molto chiaro è, invece, l’inciso finale del comma 1 dell’art. 3, che, auspicabilmente, sarà oggetto di emendamento in sede di conversione del decreto-legge. Non si capisce, infatti, se il riferimento all’«incidenza» delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica nazionale costituisca un limite competenziale o, più probabilmente, se sia un “meta-criterio” di cui il Presidente della Giunta regionale debba tener conto nell’introdurre qualsiasi misura di contenimento ai sensi dell’art. 3, co. 1. Se i limiti stabiliti dalla legge non sono quindi così stringenti[13], resta, tuttavia, da comprendere se esistano limiti di immediato rilievo costituzionale al potere di ordinanza regionale.
In particolare, qualche dubbio potrebbe emergere rispetto alla compatibilità con l’art. 120, co. 1, Cost. dell’ordinanza 15 marzo 2020 della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (B.U. 17 marzo 2020) che, salvi gli spostamenti motivati da indifferibili esigenze lavorative o situazioni di necessità, vietava o, meglio, «ordina[va] di evitare» l’ingresso sul territorio regionale ai non residenti. Del pari, si potrebbe discutere delle analoghe ordinanze di Lazio, Campania e Puglia che stabilivano un periodo di quarantena di 14 giorni per chi provenisse dalle Regioni del Nord inizialmente colpite dalla diffusione del virus.
Una giurisprudenza costituzionale alquanto risalente, menzionata anche da Alessandro Candido nel suo recente contributo sul tema[14], riconosce che le Regioni possano legittimamente limitare la libera circolazione di persone e merci provenienti da altre Regioni, facendo uso del proprio potere di ordinanza ai sensi dell’art. 32, co. 3 l. n. 833/1978, purché si sia in presenza di un valore costituzionale che autorizzi l’imposizione di tali limiti, che sussista una competenza regionale e che le misure non siano irragionevoli (sent. n. 51/1991, Punto n. 3 del Considerato in Diritto). Rispetto al caso de quo, non sembrava potersi negare l’esistenza di un valore costituzionale che rendesse necessaria l’adozione di misure di contenimento di questo tipo; sotto il profilo della competenza regionale all’adozione di ordinanze restrittive di libertà fondamentali, tra cui la libertà di circolazione, è possibile riferirsi al già menzionato art. 2 del D.L. n. 6/2020, ma soltanto nella misura in cui l’ordinanza intervenga nelle more di un DPCM che disciplini la medesima fattispecie.A questo proposito, si potrebbe obiettare che l’ordinanza regionale sia intervenuta non “nelle more dell’adozione” di un DPCM, ma in un ambito già coperto da disciplina statale e, in particolare, dall’art. 1, co.1, lett. a), del DPCM 8 marzo 2020, il quale consentiva a chiunque il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. L’ordinanza valdostana, nell’ordinare di «evitare» l’ingresso ai non residenti, si sarebbe perciò posta in contraddizione con il DPCM, risultando inapplicabile. In realtà, al netto del già menzionato art. 5, co. 4 del medesimo DPCM 8 marzo 2020, idoneo a far salvo il potere derogatorio delle singole Regioni, occorre semmai sottolineare come tra la norma statale e quella regionale non vi fosse alcuna palese contraddizione; non solo perché il divieto regionale era espresso in forma alquanto “morbida”, al limite della raccomandazione, ma perché la norma statale mirava proprio a consentire un rientro permanente e non occasionale alla residenza o al domicilio di una qualunque persona fisica; in ogni caso, stante l’ambiguità della norma recata dal DPCM, l’ordinanza regionale interveniva ai sensi dell’art. 32, co. 3 della legge n. 833/1978 a precisare gli effetti della norma statale per il territorio regionale, stabilendo un divieto di accesso ai non-residenti; divieto, peraltro, del tutto conforme all’art. 1 del D.L. n. 6/2020, il quale, tra le misure adottabili anche dalle Regioni, individuava il «divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area» e il «divieto di accesso al comune o all’area interessata».
Infine, in punto di ragionevolezza/proporzionalità, il divieto di ingresso ai non residenti, in un contesto dominato dall’applicazione del principio di precauzione, poteva forse ritenersi non illegittimo con riguardo all’esigenza di soddisfare il diritto alla salute, specie se, come è sembrato in un primo momento, fosse proprio l’afflusso di proprietari di “seconde case” a rischiare di mettere in crisi il SSR valdostano; ciò detto, la misura non avrebbe potuto che essere temporanea e soggetta a tempestiva revisione, pena una restrizione irragionevole della libertà di circolazione nel suo esercizio finalizzato al godimento del diritto all’abitazione e della proprietà privata. La questione della compatibilità di tale ordinanza regionale con l’art. 120, co. 1 Cost. è stata, in realtà, superata medio tempore con l’adozione del DPCM 22 marzo 2020 (art. 1. lett b), che ha stabilito per qualunque persona fisica «il divietodi trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati in comune diverso da quello in cui si trovano», pertanto limitando non soltanto la circolazione inter-regionale, ma anche quella infra-regionale. A prescindere dalla sua compatibilità o meno con l’art. 120, co. 1 Cost., l’ordinanza regionale ha, quindi, “ceduto” di fronte all’adozione del DPCM corrispondente.
6. Con riguardo alle ordinanze sindacali, invece, il discorso sembra in parte diverso. L’art. 50, co. 5 T.U.E.L. e così, del resto, anche l’art. 117 d.lgs. n. 112/1998, così come inizialmente richiamati dall’art. 3, co. 2 D.L. n. 6/2020, facevano esplicitamente salvo un potere di ordinanza del Sindaco “nelle more” dell’adozione dei DPCM, al pari delle Regioni. L’art. 35 D.L. 2 marzo 2020, n. 9 era, poi, intervenuto per stabilire che «non possono essere adottate e, ove adottate sono inefficaci, le ordinanze sindacali contingibili e urgenti dirette a fronteggiare l’emergenza predetta in contrasto con le misure statali». Pur essendo stati fatti salvi gli effetti di tutte le ordinanze sindacali adottate ai sensi del D.L. n. 6/2020 fino al 25 marzo 2020 (art. 2, co. 3), l’art. 3, co. 2 D.L. n. 19/2020 non pare aver confermato un potere di ordinanza sindacale nelle more (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), sicché esso non sarà esercitato secondo il criterio della “cedevolezza”, ma potrà spiegarsi in via residuale, purché rechi misure non in contrasto con quelle statali. D’altro canto, l’art. 3, co. 2, ult. per. estende alle ordinanze sindacali già adottate «i limiti di oggetto» dell’articolo in parola, per cui si potrebbe ricavare da tale disposizione un potere di ordinanza esercitabile soltanto nelle more dell’adozione dei DPCM, anche se i limiti di oggetto sembrano doversi ricondurre più che altro all’ambito competenziale e non a quello temporale degli effetti. Nulla si dice, invece, rispetto al rapporto tra ordinanze regionali e sindacali, ma, nella misura in cui sia assicurata la concordanza con i DPCM e con le ordinanze del Ministero della Salute, sembra poter trovare applicazione il principio di specialità, oltreché quello di competenza, sicché le ordinanze sindacali potranno derogare eventualmente a quelle regionali.
La clausola di «inefficacia» legislativamente fondata sembra, inoltre, riferirsi tanto alle ordinanze ex art. 54, co. 4 T.U.E.L., adottate dal Sindaco come Ufficiale del Governo, quanto a quelle ex art. 50, co. 5 T.U.E.L, emanate dal Sindaco quale rappresentante della comunità locale. Resta da chiarire da chi e in quali termini possa essere fatta valere l’inefficacia, se l’inefficacia sia assimilabile all’invalidità conseguente all’annullamento d’ufficio da parte del Prefetto e, in tal caso, in che misura tale potere prefettizio sia esercitabile nei confronti delle ordinanze adottate dal Sindaco come rappresentante della comunità locale (art. 50, co. 5 T.U.E.L.). Infine, potrebbe forse soccorrere l’annullamento straordinario a tutela dell’unità dell’ordinamento ex art. 138 T.U.E.L., che dovrebbe essere adottato con DPCM, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Interno.
In definitiva, quale che sia l’ordinanza sindacale, essa potrà essere emanata solo in via residuale, laddove si presentino particolari condizioni di emergenza di natura locale che richiedano misure più restrittive di quelle statali, ma le misure locali dovranno essere pur sempre coerenti con il quadro delineato da DPCM ed ordinanze del Ministero della Salute, oltreché avere una base sicura nella legge ordinaria.
7. L’analisi sollecita una breve riflessione conclusiva. La competenza delle Regioni ad adottare ordinanze non solo si radica del tutto legittimamente nei decreti-legge anzidetti, ma corrisponde a una scelta potenzialmente vantaggiosa anche per lo Stato: le decisioni di queste ultime settimane mostrano, infatti, che, pur nel contesto di un curioso e non sempre funzionante “federalismo esecutivo”, le ordinanze regionali sono state in grado di anticipare e, quindi, di consentire la sperimentazione di misure di contenimento del contagio, poi progressivamente assunte anche a livello statale[15], con un rapporto con i DPCM che sembra strutturarsi, innanzitutto, nei termini di una sorta di “cedevolezza al contrario”: le norme regionali cedono e sono sostituite non appena fatte proprie anche dal livello statale. Dopo una prima fase di incertezza, nella quale l’esercizio tout court di poteri derogatori da parte delle Regioni pareva essere consentito, il legislatore ha scelto di limitarne gli effetti più restrittivi alle ordinanze adottate prima del 26 marzo 2020 ovvero anche a quelle adottate dopo tale data, ma soltanto fino all’emanazione dei nuovi DPCM, in modo da contemperare le esigenze del regionalismo con una maggiore chiarezza del quadro normativo complessivo.
Ciononostante, il rapporto tra fonti sembra atteggiarsi in maniera molto fluida e magmatica, quasi che la necessità del contenimento dell’epidemia avesse – se non proprio azzerato – quantomeno allargato le maglie del riparto costituzionalmente fondato. Del resto, tale rapporto si innesta su due decreti-legge che, come già la legge n. 833/1978, tollerano una parziale concorrenza di norme statali e regionali proprio sul presupposto che “dal basso” possano provenire risposte più efficaci e tempestive in grado di meglio tener conto della gravità del pericolo epidemico. Le ordinanze sindacali, invece, sembrano, almeno de jure, dover svolgere una funzione residuale, di chiusura del sistema, non potendo anticipare misure statali. Ciò non toglie che, de facto, anche dagli enti locali, seppur con ordinanze talora contra legem, alcune delle quali annullate dal Prefetto territorialmente competente, siano venute le prime risposte normative alla diffusione del contagio (si pensi al caso dei Comuni ischitani), destinate a essere accolte poi in atti regionali e/o statali.
8. Al netto di una collaborazione tra livelli di governo non sempre leale, in cui è sembrata mancare una gestione unitaria del fenomeno idonea a prevenire una vera “cacofonia normativa”[16], sostenere che la sussidiarietà “funzioni” assai meglio della formula one size fits all anche in momenti di emergenza non è poi così peregrino: le restrizioni sperimentate in sede decentrata, inizialmente percepite come ingiustificate persino dal Governo, sono presto state fatte proprie anche a livello statale. Posto che la dimensione ottimale dell’intervento varia sulla base di una serie cospicua di fattori, il nostro ordinamento sconta, tuttavia, l’assenza di adeguate sedi di raccordo che avrebbero bisogno di essere funzionanti specie nei momenti di emergenza. Neanche il tentativo di coinvolgere i Presidenti di Regione o il Presidente della Conferenza delle Regioni nella fase dell’iniziativa dei DPCM sembra aver offerto un surrogato sufficiente per un coordinamento idoneo a evitare un’accesa conflittualità tra enti territoriali[17].
Le virtù del decentramento decisionale sul piano metodologico non vanno, infine, confuse con la qualità dei contenuti, rectius con la ragionevolezza/proporzionalità dei singoli provvedimenti emergenziali. Come ammoniva Bruno Leoni in una sua relazione invero poco nota, tenuta a Stresa nel 1961, «l’autogoverno [locale] non è necessariamente compatibile con la libertà individuale»[18], checché ne dica la retorica ottocentesca sulle collettività locali come enclaves di resistenza contro l’oppressione statale. La stretta sulle camminate all’aria aperta o sul jogging al parco, l’impiego dell’esercito in Campania e Sicilia, i divieti di ingresso e la quarantena imposta ai non residenti sul territorio regionale sono solo alcune delle misure restrittive delle libertà adottate per iniziativa di alcune Regioni ed enti locali.
La confusione generata nei cittadini dalla loro adozione è soltanto un “sintomo” e non una causa di un problema istituzionale di portata più generale, ossia che un qualsiasi ordinamento si scopre territorialmente “diviso” nel contrasto alla diffusione di un’epidemia[19]: alcune porzioni di territorio, che spesso neanche coincidono con i confini amministrativi di un ente territoriale, richiedono, infatti, misure che spesso non sono adeguate ad altre. Solo il passare del tempo si incaricherà di chiarire se le Regioni e gli enti locali siano stati troppo… “ghiotti delle more” e le limitazioni alle libertà fondamentali siano divenute frattanto irragionevoli e sproporzionate.
[1] Ricercatore a t.d. in Istituzioni di diritto pubblico nell’Università degli Studi di Torino. Una prima versione di questo articolo è già apparsa per il Forum della rivista Diritti Regionali, n. 1/2020, con il titolo: Le “more” dell’adozione dei DPCM sono “ghiotte” per le Regioni. Prime osservazioni sull’intreccio di poteri normativi tra Stato e Regioni in tema di Covid-19, 21 marzo 2020, in www.dirittiregionali.it.
[2] Sono analoghe le preoccupazioni di: D. Stevanato, Modello regionale, in Il Foglio, 27 marzo 2020. Sul tema cfr anche: R. Bin, Caro Orlando, il vero problema della sanità è al centro, non in periferia, in La Costituzione.info, 3 aprile 2020, www.lacostituzione.info; C. Buzzacchi, Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la “zona gialla”, in La Costituzione.info, 2 marzo 2020, www.lacostituzione.info.
[3] M. Cavino, Una prima lettura dei provvedimenti adottati dal Governo, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid-19, 18 marzo 2020, 1 ss., www.federalismi.it.
[4] Ivi, 6-7.
[5] Un’ulteriore ipotesi è quella delle ordinanze del Ministero della Salute, ex art. 32, co. 1 della legge n. 833/1978, tra le quali si ricordi l’ordinanza 20 marzo 2020, con la quale sono state previste ulteriori misure per la prevenzione del contagio sull’intero territorio nazionale, pubblicata nella G.U. n. 73 del 20 marzo 2020.
[6] Del resto, il fatto che vi fosse stato già del contenzioso davanti al TAR Marche tra PCM e Presidente della Giunta regionale, non ci autorizza a pensare che qualsiasi ordinanza regionale fosse illegittima. Il caso mette in luce semmai alcuni problemi interpretativi inerenti alla prima fase dell’emergenza e, in particolare, alla legittimità dell’adozione di misure di contenimento per mezzo di un’ordinanza regionale in funzione meramente preventiva, ossia in un caso nel quale non si erano ancora verificati casi di contagio sul territorio regionale marchigiano. Cfr. G. Di Cosimo & G. Menegus, La gestione dell’emergenza coronavirus tra Stato e regioni: il caso Marche, in BioDiritto, 16 marzo 2020, www.biodiritto.org.
[7] Questo è il caso, ad esempio, delle ordinanze adottate dalla Regione Piemonte (D.P.G.R. n. 34/2020, B.U. n. 13/2020) e dalla Regione Lombardia (O.P.G.R. n. 515, B.U. n. 12/2020), in data 21 marzo 2020. Limitatamente ad alcune norme, esse risultano, infatti, inapplicabili una volta entrato in vigore il DPCM 22 marzo 2020. Cfr. sul tema anche: R. Todero, Il DPCM prevale sulle ordinanze delle Regioni in Eutekne, 23 marzo 2020, www.eutekne.info; O. Pollicino & G. E. Vigevani, Gli studi professionali restano aperti. Prevalgono le indicazioni del Governo, in Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020, www.ilsole24ore.com.
[8] Così nel frattempo: Tar Campania, Sez V., Decr. Caut. 18 marzo 2020, n. 416, R.G. n. 1048/2020 (rel. Scudeller), secondo il quale l’ord. n. 15/2020 della Regione Campania «richiama plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate, il che esclude ogni possibile contrasto di dette misure con quelle predisposte per l’intero territorio nazionale». Su di essa si vedano i commenti critici di: V. Baldini, Emergenza sanitaria nazionale e potere di ordinanza regionale. Tra problema di riconoscibilità’ dell’atto di giudizio e differenziazione territoriale delle tutele costituzionali, in Diritti fondamentali, 2020, n. 1, www.dirittifondamentali.it; C. Della Giustina, Il TAR in via cautelare non sospende l’ordinanza che vieta l’attività fisica, in BioDiritto, 30 marzo 2020, in www.biodiritto.org,
[9] Si veda il commento di: F. Clementi, Resta debole il coordinamento tra il governo e le Regioni, in Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2020, in www.ilsole24ore.com.
[10] In realtà, il potere di ordinanza regionale può essere esercitato anche per mitigare le misure contenute in alcuni DPCM, dal momento che è lo stesso art. 1, co. 2, lett. hh) D.L. n. 19/2020 a prevedere il potere per le autorità competenti di escludere alcune delle limitazioni alle attività economiche. Cfr. ad es.: Presidente della Giunta regionale – Regione Piemonte, D.P.G.R. n. 35, 29 marzo 2020, (B.U. n. 13 del 29 marzo 2020), il quale ha disposto l’inclusione nella lista ATECO delle attività essenziali la vendita al dettaglio di articoli di cartoleria e forniture per ufficio, in deroga al DPCM 22 marzo 2020.
[11] Presidente della Giunta regionale – Regione Campania, Ordinanze nn. 23 e 24 del 25 marzo 2020, B.U.R.C. n. 55 del 25 marzo 2020.
[12] In proposito invece si vedano i contributi di: M. Borgato & D. Trabucco, Brevi note sulle ordinanze contingibili e urgenti: tra problemi di competenza e cortocircuiti istituzionali, in Diritti fondamentali, 24 marzo 2020,www.dirittifondamentali.it; R. Di Maria, Il binomio “riserva di legge-tutela delle libertà fondamentali” in tempo di COVID-19: una questione non soltanto “di principio”, in Forum – Diritti regionali, 30 marzo 2020, www.dirittiregionali.it.
[13] Diversa è l’impostazione di L. Oliveri, Conte silenzia regioni e sindaci, in Italia Oggi, 27 marzo 2020, www.italiaoggi.it, il quale non tiene conto dell’“intreccio inestricabile” tra competenze di Stato e Regioni e ritiene genericamente che le Regioni non potrebbero in ogni caso emanare ordinanze nelle materie coperte dalla potestà legislativa esclusiva dello Stato ex art. 117, co. 2 Cost..
[14] A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum di Quad. cost., 10 marzo 2020, 1 ss., www.forumcostituzionale.it.
[15] Sul punto anche: M. Ramajoli, Coronavirus, perché i Sindaci possono emanare ordinanze più restrittive, in Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2020, www.ilsole24ore.com. In senso critico, si vedano: F. Pizzetti, A rischio le libertà dei cittadini, urgente un intervento giuridico, in: Agenda Digitale, 23 marzo 2020, www.agendadigitale.eu; F. Clementi, Decreti troppo a maglie larghe mandano in tilt il Titolo V, in Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020, www.ilsole24ore.com.
[16] Sul punto si veda l’editoriale di: S. Cassese, Coronavirus.Il dovere di essere chiari, in Il Corriere della Sera, 24 marzo 2020, www.corriere.it.
[17] C. Melzi d’Eril & G. E. Vigevani, Polifonia stonata tra Governo e Regioni, in Il Domenicale – Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2020, in www.ilsole24ore.com.
[18] Cfr. L. Masala, Il liberalismo di Bruno Leoni. Soveria-Mannelli, 2003, 128.
[19] Analoga, ad esempio, è stata la risposta tedesca alla diffusione del contagio. Le misure di contenimento del contagio sono state adottate, in una prima fase, dai Länder e non dalla Federazione, secondo un approccio progressivo e incrementale, dominato dal rispetto della leale collaborazione intergovernativa. Tale collaborazione è sfociata il 23 marzo 2020 nell’adozione di una Bund-Länder-Vereinbarung che adotta una serie di linee-guida comuni ai due livelli di governo, in www.bundesregierung.de.