Una legge regionale per disciplinare forme e limiti del suicidio medicalmente assistito?
Enrico Grosso[1]
La vicenda è nota. Nel 2019 la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, che punisce le condotte di istigazione o aiuto al suicidio, «nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) … agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente» (così il dispositivo della sentenza n. 242/2019).
La decisione viene assunta dopo che, un anno prima, la stessa Corte, con un’ordinanza processualmente assai discussa (e discutibile), aveva sospeso il giudizio – instauratosi a seguito di una questione di costituzionalità sollevata in via incidentale dalla Corte di Assise di Milano – rinviando la decisione «all’udienza pubblica del 24 settembre 2019» al fine di lasciare il tempo al Parlamento di intervenire legislativamente sulla materia. In quell’occasione, la Corte aveva rilevato che «laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolga l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, questa Corte reputa doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale» (cfr. l’ordinanza n. 207/2018, considerato 11).
Poiché, dopo un anno, il Parlamento non aveva svolto alcuna «opportuna riflessione» né aveva assunto alcuna credibile «iniziativa» affinché la disciplina punitiva, estremamente severa, dell’aiuto al suicidio fosse modificata in modo da garantire l’auspicato «bilanciamento» tra valori costituzionali «di primario rilievo», la Corte rompe gli indugi e adotta lei stessa una decisione di accoglimento, additiva e (provvisoriamente) autoapplicativa, nella quale stabilisce che non è punibile (ossia non può essere oggetto della sanzione penale prevista dall’art. 580) colui che – con determinate modalità (quelle previste dalla legge n. 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) – agevola il proposito suicidiario di coloro che si trovino in talune specifiche e dettagliatamente individuate condizioni (quelle indicate appunto nel dispositivo sopra citato).
Dunque, ricapitoliamo. La Corte costituzionale, all’esito di un procedimento lungo, tormentato e complesso, condotto anche al prezzo di torcere sino al limite (e forse anche al di là del limite) le regole sul processo costituzionale, ha affermato che la disposizione del Codice penale che punisce sempre e comunque chi, in qualsiasi modo e a qualsiasi condizione, aiuta taluno a porre fine alla propria vita, non è – nella sua assolutezza – compatibile con gli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, della Costituzione. Il che però non significa che i comportamenti puniti da quelle disposizioni penali siano – al contrario – da ritenere sempre e comunque leciti. Né che la Corte abbia stabilito l’esistenza di un nuovo diritto fondamentale indefettibile al suicidio. La sentenza in oggetto ha, più modestamente, individuato la necessità di trovare, nella disciplina del suicidio medicalmente assistito, un punto di bilanciamento tra valori costituzionali contrapposti. Tra il diritto alla vita (che non può ammettere l’esistenza di un generalizzato “diritto a morire”) e il diritto all’autodeterminazione individuale (che non può ammettere l’esistenza di un dovere di vivere “ad ogni costo” anche di fronte a sofferenze ritenute intollerabili). Un punto di bilanciamento che tuttavia è in sé e per sé difficilissimo da individuare. Un punto di bilanciamento che – afferma la Corte – dovrebbe essere il legislatore (nazionale!) a determinare, all’esito di una pubblica discussione ove i diversi punti di vista trovino un ragionevole punto di equilibrio e di integrazione.
Peccato che il legislatore questo punto ragionevole di bilanciamento non è riuscito a trovarlo, nonostante fosse stato espressamente invitato a farlo e gli fosse stato accordato un congruo lasso di tempo per raggiungere, in merito, gli opportuni compromessi. In assenza di decisione politica, è stata la stessa Corte costituzionale a individuare – provvisoriamente – la stretta via entro cui può già ammettersi, anche senza una specifica disciplina legislativa sul punto, l’esistenza di una «libertà di autodeterminazione» nella scelta di ogni «terapia» (compresa quella che lo conduca a porre termine alla propria esistenza) idonea a liberarlo da «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili». Tale stretta via è individuata attraverso la valorizzazione delle procedure previste dagli articoli 1 e 2 della legge n. 219/2017 in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, che già individuano una sorta di procedura idonea, in attesa dell’auspicato intervento legislativo, a dare – come precisa la Corte – «risposta a buona parte delle esigenze di disciplina» (trattandosi comunque di regolare l’«aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata»).
È quindi evidente che il giudice costituzionale, per un verso, ha indicato ciò che il legislatore non può fare (ossia punire indiscriminatamente ogni caso di agevolazione dell’altrui proposito suicidiario), per altro verso ha precisato ciò che il legislatore deve (ancora) fare (ossia dettare una disciplina legislativa che indichi i casi in cui, nel rispetto dei principi costituzionali da essa evocati, l’aiuto al suicidio debba considerarsi non punibile e il malato che versi in una condizione di sofferenza tale da fargli ritenere la vita che sta conducendo indegna di essere vissuta abbia diritto ad essere aiutato nella sua autodeterminazione di porre fine a tale condizione), ed infine ha offerto una soluzione provvisoria autoapplicativa, valida nelle more dell’assunzione della auspicata – e comunque necessaria – disciplina legislativa.
Il problema è che, a cinque anni dalla sentenza, tale disciplina legislativa ancora non c’è, né il parlamento appare particolarmente desideroso di adottarla. Mentre la pratica quotidiana delle risposte alle richieste di accesso all’aiuto medicale al suicidio ha dimostrato che la tanto sbandierata “soluzione autoapplicativa” non funziona affatto (nel senso che non pare in grado di “autoapplicarsi”, rispetto alle assai complesse questioni – sia di merito sia di organizzazione del servizio – che di volta in volta si pongono).
Possiamo criticare finché vogliamo l’asserita “indifferenza” del parlamento nei confronti del “seguito” che dovrebbe essere dato alle pronunce della Corte (e delle difficoltà che, in assenza di tale “seguito” incontrano coloro che vorrebbero accedere al suicidio medicalmente assistito provvisoriamente “garantito”, almeno all’apparenza, dalla sentenza), ma non possiamo fare a meno di constatare che un problema – gigantesco – di “convergenza sui valori”, il caso in parola lo pone. Un problema che rende oggettivamente complicata l’assunzione di decisioni politiche su questa delicata materia (e su tante altre consimili).
Viene davvero da chiedersi, osservando la vicenda del suicidio medicalmente assistito, se è sempre vero che gli organi politici, quando non decidono, non lo fanno per ignavia, indolenza o incapacità. Sarebbe bene, in proposito, non cadere in sbrigative banalizzazioni ed evitare di fare di ogni erba un fascio. La rappresentazione di un parlamento “inconcludente” e “indifferente” si è rafforzata e consolidata, tanto da divenire un luogo comune, a seguito della nota (e penosa) vicenda del dibattito sulle leggi elettorali. Forse meriterebbe anch’essa un supplemento di riflessione. Mi pare che le ragioni sistemiche (un tempo si sarebbe detto «di struttura») che rendono oggi difficile, per il parlamento (ma anche, come vedremo, per un consiglio regionale), deliberare – quand’anche si tratti di «dare seguito» alle pronunce della Corte costituzionale – su tali materie andrebbero indagate con più attenzione. Il non decidere è spesso una forma di esercizio di azione politica, che non è dettata dall’inefficienza ma dalla «natura delle cose» su cui è richiesta la decisione. Anche da questo punto di vista, ogni generalizzazione pecca in genere di eccessiva semplificazione.
È infatti lo stesso giudice costituzionale ad ammettere – nel nostro caso – che la questione da risolvere è particolarmente complessa, in quanto coinvolge delicate sfumature di una tematica insuscettibile di essere trattata per «assoluti». Ciascuno dei singoli aspetti implicati dal preteso «diritto di aiutare qualcuno a porre fine alla sua vita» deve essere attentamente valutato, bilanciato, armonizzato con altri valori altrettanto (o maggiormente) degni di tutela costituzionale, a cominciare dal diritto alla vita da cui, come la stessa Corte (sulla scorta di numerose pronunce della corte Edu) non ha mancato di sottolineare, non può «derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire». La disciplina di tale bilanciamento, inevitabilmente, risulta assai difficile, non soltanto sul piano politico ma anche semplicemente sotto il profilo tecnico. Non per ignavia o cattiveria, ma per l’oggettiva difficoltà di strutturare un processo deliberativo in contesti eticamente segnati da convinzioni profonde e da principi ritenuti – a torto o a ragione – “non negoziabili”, che mettono ciascuno di noi davanti alla drammaticità di una situazione “ultima”.
Non stupisce affatto, quindi, che anche le Regioni si siano trovate di fronte a una impervia montagna da scalare.
Perché le Regioni? Perché, nella perdurante inerzia del parlamento, una serie di malati che ritenevano di trovarsi nelle condizioni individuate dalla Corte per l’accesso al suicidio medicalmente assistito (ossia: (a) affetti da una patologia irreversibile; (b) portatori di sofferenze fisiche o psicologiche da loro ritenute assolutamente intollerabili; (c) tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale; (d) capaci di prendere decisioni libere e consapevoli) hanno cominciato a chiedere di poter essere assistiti – nel percorso che li avrebbe portati a porre fine alla loro vita – dal soggetto pubblico titolato a erogare, in Italia, i servizi sanitari, vale a dire la ASL competente per territorio. E lì si è cominciato a scoprire, come si diceva, che la sentenza – teoricamente “autoapplicativa” – lo era in realtà assai meno in pratica. Tra strettoie burocratiche e oggettive difficoltà interpretative dell’ordinamento vigente applicabile (quali strutture, e con quale procedura, sarebbero titolate alla verifica della sussistenza delle condizioni e delle concrete modalità di esecuzione del proposito suicidiario; in quali forme e condizioni andrebbe rilasciato il parere del comitato etico competente per territorio; in che termini potrebbe impattare, sul procedimento, la sussistenza della piena ed effettiva garanzia dell’accesso alle cure palliative; in che modo ed entro quali limiti andrebbe garantita la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura; e così via), le amministrazioni regionali hanno fatto fatica a dare risposte soddisfacenti a chi chiedeva di poter accedere al servizio pubblico di aiuto medicale al suicidio.
L’assenza di una legge che disciplinasse non soltanto un compiuto “statuto” dei requisiti per poter accedere al servizio, ma anche e soprattutto la procedura amministrativa da attivare affinché il servizio potesse essere effettivamente erogato, ogni singola ASL ha cominciato a fare da sé. E spesso, semplicemente, a non fare nulla. Il che ha inevitabilmente creato situazioni di evidente disparità di trattamento, a seconda del modo in cui le singole aziende sanitarie si sono attrezzate per offrire in concreto la prestazione di aiuto al suicidio, mediante la fornitura del farmaco letale e l’assistenza alla sua auto-assunzione da parte del paziente che si trovasse nelle condizioni specificatamente indicate dalla Corte.
Ed è così che, su iniziativa dell’associazione Luca Coscioni, sono state presentate in tutte le Regioni italiane proposte di legge regionale di iniziativa popolare (di contenuto sostanzialmente identico) dirette a disciplinare – nell’attesa di un sempre meno probabile intervento da parte del legislatore dello Stato – le forme e le condizioni di applicabilità di quanto disposto dalla Corte, e di conformare in tal modo i comportamenti delle singole aziende sanitarie.
Anche in Piemonte, come noto, nell’agosto 2023 è stata presentata la proposta di legge d’iniziativa popolare n. 295/2023 contenente “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019”.
Sia la giuridica possibilità, sia l’opportunità politica, di una simile iniziativa è stata oggetto, e continua ad essere oggetto, di un accanito dibattito. Un dibattitto che rischia tuttavia di confondere i piani del discorso. Un conto è, infatti, ragionare intorno all’esistenza di una competenza regionale, costituzionalmente fondata, a intervenire sulla suddetta materia. Altro conto è affrontare la questione concernente se, quand’anche costituzionalmente fondato, l’esercizio di tale competenza debba ritenersi opportuno, in considerazione della inevitabile differenziazione territoriale nel concreto esercizio della pratica in oggetto, che finirebbe per crearsi tra Regioni che adottassero tale legislazione provvisoria e Regioni che invece rifiutassero di farlo. Ancora diversa – e di per sé ancor più fondamentale – è la questione di ordine “etico-politico” sottostante: quelle stesse difficoltà che incontra oggi il legislatore nazionale, a causa delle diverse e irriducibili opzioni etico-politiche che si scontano nel tentativo di raggiungere il necessario consenso, investono inevitabilmente e del tutto prevedibilmente anche e addirittura a fortori il legislatore regionale, ancor più sensibile (perché ad esso territorialmente più prossimo) alle oscillazioni e alle turbolenze del consenso popolare.
Il rischio, allora, è che si finisca per fare confusione. Che argomenti giuridici vengano surrettiziamente spesi, per giustificare (o al contrario per avversare) soluzioni politicamente non gradite, o che ragioni di opportunità condizionino il dibattito sulla praticabilità costituzionale della soluzione proposta.
Distinguere il grano dal loglio, allora, diventa essenziale al fine di promuovere un dibattito pubblico corretto, intellettualmente onesto e scientificamente attrezzato. La nostra rivista ha dunque deciso di chiedere ad alcuni studiosi che già si sono occupati dell’argomento di intervenire, cercando di argomentare con il massimo grado di “pulizia concettuale” le ragioni che stanno alla base dell’una o dell’altra soluzione.
I quesiti che occorre inevitabilmente affrontare per offrire argomenti scientificamente fondati all’opinione che la legge regionale possa, ovvero non possa, disciplinare – almeno provvisoriamente – la materia sono molti, complessi e variamente intrecciati. Provo qui a sintetizzarne alcuni.
- Esiste oggi, sulla base di quanto disposto dalla Corte costituzionale, un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a pretendere l’erogazione, da parte del servizio sanitario, di trattamenti finalizzati all’assistenza al suicidio, nel rispetto dei requisiti stabiliti dalla sentenza n. 242/2019? Oppure il c.d. “diritto al suicidio” riconosciuto dalla Corte va derubricato a mera “penale liceità” del comportamento di chi materialmente agevola l’altrui proposito suicidiario, senza che da ciò possa derivare alcun obbligo giuridico da parte dei poteri pubblici di offrire un ausilio medico idoneo ad assicurare l’adempimento di tale proposito? Ovvero ancora, deve essere individuata una soluzione mediana, che da un lato valorizza il principio della c.d. “autodeterminazione terapeutica” di cui si parla in sentenza, e dall’altro lascia libero il legislatore di scegliere se limitare l’intervento pubblico al mero “riconoscimento” dell’esistenza di tale libertà di scelta, ovvero rafforzarlo attraverso la messa a disposizione di un compiuto e ben organizzato servizio medico di ausilio?
- Quali situazioni giuridiche soggettive, a seconda che si adotti una delle prospettive sopra menzionate, devono comunque essere riconosciute in capo al soggetto che si trovi in una delle sopradette condizioni? E a chi spetta riconoscerle?
- Qualora si riconosca il dovere, o anche soltanto il potere, da parte dei poteri pubblici, di assicurare un presidio medicale di ausilio al suicidio (nelle forme e alle condizioni stabilite dalla Corte), ossia si sottragga il suicidio medicalmente assistito all’area della mera liceità – nell’indifferenza costituzionale – e lo si collochi nell’area della rilevanza costituzionale, a che tipo di regolamentazione – sul piano funzionale, procedurale, organizzativo – tale presidio medicale deve essere soggetto?
- Questa regolamentazione deve essere indefettibilmente posta o comunque disciplinata nei suoi principi fondamentali, dalla legge dello Stato, ovvero esiste uno spazio regolativo autonomo riconoscibile alle Regioni anche in assenza di una qualunque normativa statale? E se tale spazio esiste, su quale ambito di competenza può ritenersi fondato?
- Ci troviamo, nel caso che ci occupa, di fronte alla materia “ordinamento civile” (con connessa disciplina degli atti di disposizione del corpo – ivi compresi quelli legati alla fine della vita – che ricadrebbe indefettibilmente nella competenza esclusiva della legge statale), ovvero alla materia “tutela della salute” (che in quanto materia “concorrente” consentirebbe alle Regioni di dettare una disciplina attuativa di principi fondamentali)? Ma in tale secondo caso, i suddetti principi fondamentali potrebbero essere provvisoriamente tratti, in assenza di una legge dello Stato, dalla stessa sentenza della Corte? Si tratta cioè di un caso di c.d. “cedevolezza invertita”, in cui le Regioni sono abilitate, per l’intanto, a dettare una disciplina di dettaglio in assenza di principi formalmente posti dalla legge statale, nella previsione che tale disciplina sia poi eventualmente “sostituita” o integrata quando e se la legge dello Stato sarà approvata? Oppure – addirittura – la disciplina in oggetto può farsi ricadere nell’ambito della materia “organizzazione dei servizi sanitari e ospedalieri”, che è stata ricondotta alla competenza residuale delle stesse Regioni? Ma come si può sensatamente argomentare che una questione eticamente così complessa e densa di implicazioni possa essere ridotta entro un ambito tanto angusto, ristretto e tecnico, come se si trattasse della decisione di aprire o chiudere un punto nascite in una zona montana, piuttosto che di ottimizzare il servizio di medicina territoriale? Teniamo poi conto del fatto che tutto è cominciato – come si diceva – da una dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale avente ad oggetto una norma penale, il cui contenuto dispositivo –per altro verso ancora operante – è stato fatto oggetto di un “ritaglio” allo scopo di ricavare uno spazio di liceità nell’ambito di comportamenti che tutt’ora costituiscono reato. Può – ed entro quali limiti – la disciplina di tale “ritaglio” nell’ambito di una norma penale incriminatrice essere dettata dalla legge regionale? Ci troviamo, in altre parole, di fronte all’ostacolo dell’ordinamento penale (di competenza statale esclusiva), ovvero possiamo fare riferimento alla nozione di “norma extrapenale integrativa della fattispecie” (in questo caso di norma che disciplina le condizioni di esclusione dell’operatività della norma penale), che come noto può essere dettata anche con legge regionale?
- Come rispondere poi, in tal caso, all’obiezione di chi osserva che una disciplina regionale in assenza di una legge-cornice rischia inevitabilmente di generare una situazione di garanzia “a macchia di leopardo”, con talune Regioni che garantiranno il servizio di suicidio medicalmente assistito, e altre che lo negheranno, con un difetto di uniformità che si riverbererà inevitabilmente sulla vita delle singole persone, costrette a una sorta di “turismo della morte assistita”?
- In assenza dell’adozione di una legge (statale o regionale che sia), quali sono, in ogni caso, gli spazi di intervento possibile o addirittura doveroso in capo alle pubbliche amministrazioni coinvolte (in conseguenza della natura – come si diceva – “autoapplicativa” della sentenza n. 242/2019)? E quali sono i contenuti indefettibili di tale intervento, a garanzia del rispetto della situazione giuridica soggettiva indubitabilmente riconosciuta al singolo dalla Corte, che attribuisce «a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale» l’obbligo di «verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio», nonché la «tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità»?
- In ogni caso, la prestazione del medico che assiste il malato nel compimento dell’azione suicidiaria è da considerare a tutti gli effetti “prestazione sanitaria”? E se sì, a quali condizioni può (o deve) essere inserita tra i livelli essenziali di assistenza, al pari di qualsiasi altro servizio sanitario erogato dall’ente pubblico?
Sono domande, lo si ripete, la cui risposta non dipende – nel senso che non deve dipendere – dai meccanismi di precomprensione di ordine etico-politico che ciascuno di noi legittimamente nutre e alimenta in ordine alla questione di fondo che a tale problematica giuridica è sottesa, e che in qualche modo la presuppone sul piano dei valori.
Il fatto che due organi di garanzia statutaria (quello del Piemonte e quello dell’Emilia-Romagna) abbiano dato parere favorevole, in termini di ricevibilità e ammissibilità, ai progetti di legge regionale di iniziativa popolare presentati, e che proprio sugli argomenti spesi nei due pareri (soprattutto in quello emiliano-romagnolo) si sia sviluppato un acceso dibattito tra gli studiosi, è significativo dell’opinabilità e della relatività delle posizioni.
Ciò che invece non è né relativo né opinabile è che le ragioni che hanno condotto il Consiglio regionale del Piemonte, il 21 marzo 2024, ad approvare a maggioranza (dopo che lo stesso Consiglio aveva precedentemente espresso un voto di ammissibilità espressamente sollecitato dall’Ufficio di Presidenza e aveva così autorizzato l’incardinamento del progetto presso la Quarta Commissione referente) una pregiudiziale di costituzionalità che ha di fatto interrotto il cammino del progetto, nulla hanno a che fare con i problemi di cui sopra. La maggioranza consigliare – come si evince chiaramente dal tono e dagli argomenti utilizzati nel corso del dibattito – ha in realtà compiuto una scelta politica, mascherata da pregiudiziale costituzionale. Una scelta politica legittima, nel contesto di un dibattito pubblico segnato come si diceva da profonde e comprensibili fratture che coinvolgono radicate convinzioni etiche, morali, religiose e rendono assai difficile il raggiungimento di un punto di equilibrio in termini di integrazione politica. Una scelta che, tuttavia, avrebbe forse dovuto rendere esplicita l’esistenza di tali legittime fratture, senza alcuna necessità di ricorrere all’argomento assai scivoloso, e comunque – nel contesto dato – piuttosto ipocrita, dell’illegittimità costituzionale.
Il che non fa tuttavia venir meno l’urgenza di continuare ad indagare la sostanza delle ragioni costituzionali che stanno alla base dell’uno e dell’altro orientamento, mettendo a confronto le opinioni, anche contrapposte, che sul punto si sono formate. Opinioni su cui la rivista non ha, e non intende offrire, una parola definitiva, ma che continuerà a raccogliere, per contribuire ad alimentare un dibattito pubblico ordinato, informato e possibilmente equilibrato.
- Professore Ordinario di Diritto Costituzionale, Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino ↑